L'intervento di Francesco Maria Caruso

XX Congresso

L'intervento di Francesco Maria Caruso

di Esecutivo di Magistratura Democratica

IL RITORNO DEL GUERRIERO

Appunti per un nuovo programma politico di MD

Credo che ogni riflessione di un gruppo come il nostro debba partire dalla consapevolezza del mutamento istituzionale in corso

Riepiloghiamocon la massima chiarezza il percorso in atto perché il cambiamento  ci richiama alle nostre responsabilità  di giuristi democratici: [1]

un sistema elettorale che, tramite il premio di maggioranza e, ancor di più, con il ballottaggio, comprime la rappresentanza e schiaccia le minoranze, nella logica vincitore-vinti; una sola camera con poteri politici pieni e con procedimenti dominati dall’esecutivo; un’attività legislativa in cui la deliberazione rischia in ogni momento di ridursi ad approvazione  veloce delle proposte governative; controllo maggioritario, rafforzato dal premio di maggioranza, delle nomine di garanzia (presidente della Repubblica, giudici costituzionali, membri del CSM, presidente della Camera, e successive decisioni a questi attribuite); minaccia di scioglimento della Camera in caso di dissenso dal Governo: tutte questioni in ballo nel processi di riforma in corso, che restano in piedi anche nelle nuove versioni dei testi in discussione, pur emendati rispetto agli originari.

Di fronte a tutto questo mi chiedo dove pensi di andare quella parte della magistratura che vuole alzare le barricate sulle ferie o sulla responsabilità. 

Esiste perciò per noi un problema importante di comprensione delle lezioni della storia, di come si sia arrivati a questo punto, delle forze in campo oggi, delle possibilità di difesa non dell’esistente ma di un rovesciamento complessivo della prospettiva. Si esige lacapacità di apprendere dalle situazioni e di confrontarsi con onestà con i mutamenti anche sgradevoli intervenuti per oggettive ragioni  che meritano di essere analizzate.

Credo che uno dei limiti di Md in questi anni sia stato di avere smesso di intervenire sull’evoluzione della storia e della società, muovendo dalle proprie premesse culturali e politiche. La nostra voce si è fatta progressivamente flebile. Ripiegati sulle questioni di gestione, organizzazione, realizzazione di noi all’interno dei nostri uffici, sulle nostre aspirazioni individuali,abbiamo trascurato il progressivo mutamento dell’ideologia e del senso comune in una certa parte della magistratura.

Si tratta oggi di capire come ritornare  ad essere di nuovo forza di cambiamento istituzionale e di resistenza costituzionale  come negli anni sessanta e settanta; come  lavorare per la difesa della Costituzione che significa non rifiutare a prescindere il cambiamento ma garantire una forma politica che si basa sulla democrazia partecipata, dove le decisioni collettive procedono attraverso contributi dal basso, cioè  dai bisogni sociali, dalle idee di  giustizia e di libertà che si formano nella capitale finanziario. E quindi cercare, come un tempo, tutti gli interlocutori, politici, sociali, culturali, istituzionalicon i quali riprendere un percorso comune per una visione del mondo “di sinistra” che sappia prendere atto dellecontraddizioni del mondo reale  e della necessità di una comprensione aggiornata delle attuali linee di divisione della società non più comprese nell’alternativa destra/sinistra.

Si tratta di riaffermare principima al contempo guardare con occhio critico ai nuovi conflitti  del mondo globalizzato e a come essi si riflettono sul modo di essere della magistratura, della giurisdizione, e sull’idea di giustizia.

Senza che suoni censorio per alcuno, siamo tuttavia consapevoli che la nostra capacità di analisi sia stata in questi anni impari rispetto ai compiti che avremmo voluto assolvere anche per l’evaporazione della sinistra politica e l’imprevista improvvisa scoperta di quella che è stata definita la “parassitizzazione” delle organizzazioni di  sinistra ad opera degli agenti neoliberisti che hanno tessuto la storia ideologica di questi ultimi decenni.

E’ stato osservato che alla sinistra è accaduto “ciò che nel mondo animale capita ad alcuni insetti, ai quali vengono iniettati, da altri insetti aggressori, le proprie uova, la propria progenie, destinata a nutrirsi del corpo ospitante che viene spolpato dall’interno. I partiti parassitizzati dalle ideologie neoliberistiche sonogusci svuotati che ospitano la vita altrui”.

Nei confronti della magistratura, dei suoi poteri di regolazione, controllo, difesa procedimentale delle istanze e degli interessi, privi oggi di rappresentanza politica e di quindi di tutela e prospettive politiche, l’intero quadro politico muove per realizzare l’antica aspirazione all’uniformazione. Un obbiettivo perseguito in due modi: a livello normativo con la riduzione degli spazi di indipendenza; a livello ideologico con il ritorno delle concezioni per cui la legge è solo autorità posta che il giudice  deve  attuare senza curarsi delle ragioni e degli interessi sottostanti, della ragionevolezza delle soluzioni adottate, della loro accettabilità sociale, della giustizia fondata su valori condivisi. E’ concessoal più di proporre questioni di legittimità costituzionale o di obbedire ad autorità sovranazionali come se si trattasse di sostituire a una norma interna un altro tipo di norma che invece e fortunatamente si qualifica e caratterizza per ben altro spessore analitico.

Giovanni Palombarini ha fatto un lungo elenco dei momenti in cui si è verificata l’assenza, il silenzio o quanto meno una voce flebile di MD.

Il principale momento di silenzio chiama in causa più di ogni altro la responsabilità del gruppo: l’assenza nel contrastare il processo involutivo delle istituzioni repubblicane.

Nulla so dei nostri interna corporis, faccio ammenda per avere partecipato poco, pur avendo cercato di tradurre nei fatti, nel lavoro sul campo l’essere di MD e l’essere riconoscibile e giudicabile come tale, rivendicando di essere magistrato con una precisa collocazione politico -culturale che si riflette sul modo di essere giudice, sul modo di stare e di dirigere un ufficio giudiziario.

Detto questo, a me sempre che la solitudine in cui è stato lasciato in questi anni Mimmo Gallo nelle iniziative sue e dei Comitati Dossetti per la Costituzione sia inspiegabile.

Così come il distacco da organizzazioni e associazioni come Libertà e Giustizia, il frastagliato universo di sigle, associazioni, comitati nei quali si è articolata la al momento debole difesa contro il cambiamento in senso autoritario di regime che è ciò che sta avanzando in questa fase storica, una dittatura del presente che si traduce nell’imporre come inevitabile e necessario tutto ciò che sta accadendo, tutte le trasformazioni che si stanno attuando perché nulla può essere diverso da come è, tutto non può che andare in un certa direzione e chi si oppone è un irredimibile passatista o un sabotatore. In tal modo inducendo alla passività e alla rinuncia a qualsiasi protagonismo alternativo, non senza accompagnare tale pressione ideologica con esplicite minacce.

Il silenzio sulla legge elettorale e su riforme costituzionali realizzate da un parlamento delegittimato mi sembrano, ripeto,  il segno più evidente di questa nostra autoemarginazione più o meno indotta da ogni rilevanza politica.

Eppure a me sembra che da una legge elettorale che punta a dare tutto il potere ai “vincitori”, riducendo all’insignificanza se non al silenzio, minoranze e oppositori, che pretende di attribuire a chi ha vinto le elezioni di potere fare a piacimento come se il voto gli attribuisse il diritto ad avere sempre ragione, la conseguente insofferenza verso i poteri di controllo e  la magistratura in primo luogo, impaccio non tollerabile per “il vincitore”, dovrebbe essere per noi  tema principale di discussione  e azione.

La rivitalizzazione di MD passa dalla presenza di MD in Area, per  dibattere e partecipare all’autogoverno con soggetti che non hanno la stessa  storia ma la stessa preoccupazione di mantenere l’attuale assetto ordinamentale della magistratura in un sistema che va sempre più concentrando in poche mani il potere di governo e il controllo sulle istituzioni di garanzia.

Nella magistratura con la qualeci dobbiamo confrontare i colleghi di Area costituiscono una parte fondamentale perché, a differenza di altri, condividono con noi i medesimi valori costituzionali connotati in una prospettiva di emancipazione e di trasformazione sociale.

C’è anche oggi una magistratura reazionaria  con la quale non riusciamo  a dialogare e al cui apparente vociferante avanzare, sembra non si riesca ad opporre contromosse  e antidoti, una magistratura che si fonda su due cardini,come dice Tiziana Coccoluto: “tecnicismo efficiente, del tutto avulso da ogni consapevolezza istituzionale” cui si affianca il modello neocorporativo che accetterebbe lo scambio tra vantaggi e tutele di status con garanzie per i vincitori politici di non essere di intralcio alle politiche  che incidono sui diritti e sulla Costituzione, in quanto campo estraneo alla magistratura.

Questa nostra difficoltà di contrasto, il deficit di analisi e di intervento politico a tutto campo ha diverse ragioni. Troppo ripiegati sul tatticismo, troppo unilaterali nell’approccio al buon funzionamento delle cose nella speranza vanadi respingere l’attacco strumentale fondato sul mancato funzionamento del sistema.

Siamo arrivati tardi e abbiamo creduto nell’esistenza di un campo non ostile disposto ad assecondare il nostro tentativo di trasformazione dal basso e di autoriforma. Le disfunzioni esistenti non si risolvono senza modifiche e riforme del sistema con investimenti e risorse che marceranno però insieme alla riforma dei giudici.

Non è stato un errore lavorare per ridare credibilità alla magistratura, dimostrando che ce la possiamo fare da soli; purtroppo abbiamo attribuito effetti palingenetici alla tecnologia, da apprendisti stregoni, dimenticando che la tecnica deve servire e non essere servita.

Per quanto riguarda il che fare non credo ai carichi esigibili:  per 40 anni i carichi esigibili ce li siamo dati di fatto e abbiamo visto come questo abbia affossato il sistema. In secondo luogo perché dalle prime risposte al dlgs 28/2015 emerge come il problema stia in parte anche nella testa dei magistrati, nella loro formazione, nella loro cultura, nella loro frequente inadeguatezza al compito affidato secondo il progetto trasfuso nella Costituzione.

Andrea Natale su questo tema ha  dato le risposte che dovevano essere date, richiamando il fondamento costituzionale del principio di offensività.

Ma questa iniziale discussione mette in evidenza l’approccio formalistico e panpenalistico di alcuni magistrati,  un certo  burocratico approccio alla questione penale, una cultura giuridica che ha fin qui negato ingresso nella  giurisprudenza al principio di necessaria offensività del fatto come elemento costitutivo del reato; principio teorizzato da Marcello Gallo e dalla scuola torinese già negli anni sessanta  e che ha prodotto quell’inflazione bulimica di processi inutili, ininfluenti persino per la persona offesa, seppellendo gli uffici di carte e operazioni materiali, autentico spreco di risorse, impegno, tempo.

Ancora una volta troppa solitudine nelle risposte, troppa assenza di partecipazione, di convinzione, di coralità; non possiamo trattare con sufficienza  questi dibattiti per il solo fatto di essere telematici e perciò sregolati e privi di rigore analitico; capisco tutto ma è anche lì che si forma il senso comune dei magistrati, la loro koinè linguistica, si plasma la loro coscienza, si indebolisce o si forma il loro intelletto.

La reazione alla non punibilità per irrilevanza del fatto mi sembra alla base delle incertezze e dei dissensi di fronte ai programmi di gestione del carico penale con la scelta di accantonare i processi a prescrizione certa.

Sulla prescrizione va tuttavia detto con onestà che sette anni e mezzo per definire un processo non è affatto poco anche con tre gradidi giudizio e l’inflazione delle fattispecie. Il problema è semmai da quando far decorrere questo tempo, e il congelamento dei tempi imputabili all’amministrazione nel passaggio da un grado all’altro, da un ufficio ad un altro. Che in sette anni e mezzo non si riescano a fare indagini e celebrare tre giudizi, è difficilmente spiegabile; ma se il processo rallenta perché le cancellerie impiegano anni per i loro adempimenti, il diritto dell’imputato a non stare sulla graticola per un tempo che somma la pena del processo alla pena inflitta, dovrà essere rivendicato davanti alla politica e non alla giustizia. 

A me sembra che siano la cultura, la formazione, l’ideologia del magistrato italiano, il  formalismo, il tecnicismo, l’uso del diritto senza riguardo al suo scopo e agli interessi in gioco, puro esercizio di logica concettualistica, il non sapere andare alla sostanza delle cose,  ad avere in gran parte contribuito a creare l’arretrato, in ciò assecondati da una classe forense a sua volta  interessata a trascinare, complicare, ritardare influendo sulla legislazione,  sull’interpretazione e sulle prassi.[2]

Si impone un radicale mutamento di paradigma giuridico, un’esigenza di legalità  diversa da quella che ci è stata tramandata dalla modernità e che ancora oggi è l’ideologia dominante della magistratura italiana malgrado tutto ciò che è accaduto dal Congresso di Gardone ad oggi  (la fedeltà alla lettera della legge, l’ansia di trovare nel testo scritto una risposta a tutti problemi, l’indifferenza all’equità, alla giustizia, agli scopi costituzionalmente e ora convenzionalmente orientati della giurisdizione).

Non entro nel merito del processo Eternit ma desidero portare all’attenzione di questo Congresso che non MD ma un’onesta dottrina  ha scritto su un’accreditata rivista che “il diritto non giusto non è diritto ma il suo contrario”, contraddicendo un’autorevole procuratore generale che considera doveroso per il giudice produrre ingiustizia, sotto la copertura del diritto, postulando che le strade del diritto e della giustizia possano e debbano quando è il caso divaricarsi.

E’ agevole dimostrare che solo convenzioni interpretative del diritto portano a quella conclusione, non essendo affatto da escludere un’onesta alternativa opzione interpretativa - semmai dovendosi chiamare in causa il problema del mutamento di interpretazione in malam partem che potrebbe incidere, eventualmente, sull’elemento soggettivo del reato, aprendo però per il futuro la strada all’imporsi di una diversa linea interpretativa -.

Tutto questo rispecchia  il ritorno di un’ideologia conservatrice nella parte preponderante della magistratura italiana, il suo rientrare nell’alveo di una concezione dell’interpretazione tutta dalla parte del potere autoritativo, con il rifiuto di un approccio aperto alle ragioni della società  e  dell’adeguamento dell’interpretazione all’equità fondata su principi di ragionevolezza, coerenza, sui valori costituzionali comuni, oggi  frontiera più avanzata del principio di legalità anche in campo penale.

Anche su questo c’è stato relativo silenzio in MD e temo che in fondo quel ragionamento così convenzionale, così radicato, così strenuamente ribadito nei dibattiti telematici possa trovare consensi anche tra di noi, visto che non si è trovato tempo per rispondere a chi ha esplicitamente  teorizzato  che il problema della giustizia è responsabilità dei magistrati democratici: estendendo l’area della tutela dei diritti avrebbero provocato l’intasamento dei ruoli processuali.

Mi sembra perciò necessario assumere di nuovo l’iniziativa culturale e politica come Magistratura Democratica, lavorando sui due fronti,quello interno ordinamentale e associativo dentro Area e quello del dibattito politico per una diversa concezione del principio di legalità al tempo del renzismo e della semplificazione maggioritaria e verticistica del potere normativo.

Il nostro compito principale è oggi di lavorare in una realtà profondamente modificata e che rischia di sottrarci la piattaforma costituzionale cui avevamo ancorato la nostra indipendenza dalla politica.

Va preso attoche la torsione in senso ultra maggioritario e autoritario del sistema politico mette in discussione il principio di legalità, come era stato prefigurato dai costituenti e come era stato letto fin qui, divenuto mera apparenza (decreti legge, maxi emendamenti con annessa questione di fiducia, decreti legislativi liberi, testi blindati rispetto alla stessa maggioranza parlamentare, delegificazione, potere regolamentare, ordinanza di protezione civile)

Oggi è difficile  riconoscersi in quella soggezione alla legge che era soggezione al diritto e ai suoi valori;  la  legalità è sempre più di partesenza alcuna considerazione per la necessità per le minoranze di non sentire la legge come imperio, avendo partecipato e contribuito alla sua formazione; la legge discussa ed emendata in parlamento con il contributo dei rappresentanti di tutti i gruppi sociali non appartiene ad alcuno e tantomeno al principe e rispecchia criteri di giustizia nella legislazione, nutrendosi di questo l’autonomia interpretativa dei giudici.

In conclusione e legato a tutto questo, segnaloin questa fase storica l’esperienza dei tirocini formativi nei tribunali.

Per come la vedo, essaattribuisce al potere diffuso della magistratura il compito e la speranza di formare i futuri magistrati e professionisti forensi. Una formazione che per necessità di cose è basata su una visione non teoretica del diritto ma pratica, fondata sulla discussione razionale, sul contraddittorio, sull’analisi delle differente istanze, interessi, ragioni delle parti, filtrati alla luce dei principi, all’esito dei quali la decisione del giudice non è applicazione della legge, frutto di un mero processo cognitivo del fatto e del diritto ma la risoluzione del caso alla luce di una serie di elementi tra cui i diversi significati del testo  rilettialla luce di una serie di principi e valori.

In tal modo la speranza è di avere non magistrati formati sui testi dei manuali ma magistrati sensibilie attenti alla complessità di elementi testuali e valoriali. I nuovi giuristi “ dovranno essere istruiti sulla natura e sul fine del sapere giuridico che, in quanto sapere pratico, non è l’adaequatio alla cosa diritto ma l’”agire giustamente “  in un’accezione non giusnaturalistica ma storica e culturale. Ferma l’educazione all’etica del limite, i giovani giuristi della nuova legalità che ci sono stati affidati “devono essere preparati a svolgere il compito fondamentale che consiste…nella riduzione “de iniquo ad aequum, nella umanizzazione di una società – di cui il diritto è struttura ordinante- sempre più disumanizzata dalla tecnica e dal finanzcapitalismo”.

I nuovi magistrati che proverranno dall’esperienza dei tirocini formativi, sviluppata  con magistrati inevitabilmente portatori di una concezione pratica della  legalità, anche in un sistema di civil law, fruiranno non solo di una offerta formativa ma di una vera e propria politica culturale in grado di promuovere“capacità progettuali e immaginative”  di coltivare “lo spirito critico  e l’abito della libertà responsabile….che sensibilizzi il giurista novizio ai valori della Costituzione tramite la conoscenza del contesto storico e spirituale in cui essa è maturata…”.

In questo humus MD potrà trovare nuova vita.

 

 

31/03/2015

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