Penale
Repressione e dissenso sociale
a cura di Piergiorgio Morosini e Luigi Marini
NAPOLI - Il convegno di Napoli su “Conflitto sociale, repressione e sistema
penale” organizzato da Magistratura democratica nella sede dell’Università è
stato un momento importante di riflessione di ampio respiro e confronto, da cui
trarre significative indicazioni anche per la nostra formazione professionale.
Appena possibile i materiali saranno disponibili sul nostro sito.
1. Prestigiosi interventi, del mondo istituzionale, accademico, delle professioni e soprattutto di uomini che ogni giorno si occupano del disagio sociale, quali Alex Zanotelli, hanno affrontato temi di grande attualità. Dalle ragioni dei movimenti di protesta al mutamento in corso del concetto stesso di democrazia, dalla crisi sociale alle risposte della giustizia.
Riconoscere che la crisi economica ha prodotto una politica schiacciata dai mercati, con chiari riflessi sulla qualità delle nostre democrazie, è la premessa per comprendere le ragioni profonde dei movimenti di dissenso, da quello studentesco o sindacale a quello dei c.d. indignati.
Molti interventi hanno sottolineato come oggi si concentrino nell’1% della popolazione il 40% delle ricchezze e come le decisioni di pochi ricadano sul resto della popolazione. Un dato della realtà alla base di forme di dissenso diffuse e solo in parte organizzate. Un dato che porta a contestare le basi stesse del sistema secondo una idea che reputa intollerabile la distanza crescente fra ciò che è legale e ciò che sarebbe giusto.
D’altronde, le istanze rappresentate dai movimenti sono vissute come un pericolo da coloro che detengono il potere di fatto. Le istituzioni nazionali, incapaci di dare risposte ai bisogni e alle richieste di giustizia sociale, paiono arroccate nella risposta repressiva: strada destinata a scontrarsi sempre più spesso con una protesta che non potrà che ampliarsi con l’aggravarsi della crisi e il senso di frustrazione.
2. Nei contributi provenienti da diverse sensibilità professionali, si sono affrontati i temi della repressione e del ruolo della giurisdizione, alla luce delle reazioni istituzionali ai recenti fatti di Roma, ma anche a ciò che è accaduto lo scorso anno a Terzigno, Napoli e sempre a Roma il 14 dicembre. Da più parti si sono sottolineati tre aspetti che riguardano l’esperienza italiana degli ultimi anni: a) la vistosa “crisi sociale” sfociata nelle proteste di piazza viene trattata prevalentemente come problema di ordine pubblico; b) tale approccio ha inciso sullo stato di salute della “ragione giuridica”, laddove governo centrale e governi locali hanno proposto (e talvolta attuato) misure fortemente limitative di diritti fondamentali (ad es. l’ “arresto preventivo”, l’estensione del DASPO, le ordinanze che vietano il diritto di riunirsi e di manifestare); c) la pretesa della politica di far funzionare la magistratura come strumento di “pubblica sicurezza”, rinunciando ad una idea di processo penale come garanzia delle libertà personali.
Insomma, c’è una tendenza preoccupante. Qualcosa che lega idealmente le recenti manifestazioni collettive del dissenso e che affida alle direttive superiori in materia di ordine pubblico la vistosa “crisi sociale” del nostro paese, con una escalation nell’uso della forza nelle piazze e una erosione delle garanzie processuali, secondo uno schema collaudato già sul “problema immigrazione”. Proprio su questo punto, possono rivelarsi ulteriori frizioni tra magistratura e politica. Di recente, per talune vicende, la politica sembra voler assegnare all’indagine penale, nei suoi momenti ancora sommari, il compito di dare segnali esemplari. O, peggio ancora, di funzionare come strumento di tutela dell’ordine pubblico. D’altronde, il senso di alcune recenti proposte di riforma più generale della giustizia da parte del Governo uscente sembrano muoversi in questa prospettiva.
Nella più volte annunciata “riforma epocale” italiana, si ripropone di spostare il baricentro della fase embrionale delle indagini nelle mani della polizia giudiziaria. E’ una proposta che trova sostenitori anche nelle file del centro sinistra. Ma si sa, i poliziotti sono funzionari, inseriti in una catena gerarchica a cui devono rendere conto. Rispondono a ministri e alle scelte politiche del governo. Sui crimini da aggredire e le persone da indagare, prenderebbero ordini da soggetti esterni alla giurisdizione. E poi la polizia si ispira fisiologicamente a stili e obiettivi che esulano dalla cultura della garanzie, con gravi rischi per lo Stato di diritto, soprattutto se divenissero operativi i progetti di riduzione dell’indipendenza del pubblico minstero.
3. La libertà di riunirsi e di manifestare resta irrinunciabile in uno stato democratico. In Europa le costituzioni la riconoscono immancabilmente dall’epoca della rivoluzione francese, fatte salve le parentesi dei regimi autoritari o totalitari. Semmai bisogna fare in modo che quella libertà non degeneri in forme di violenza. Nel corso delle manifestazioni, le aggressioni fisiche ai danni degli agenti di polizia, gli incendi e i danneggiamenti sono inammissibili e vanno puniti. Ma le proteste non possono valutarsi in blocco. Occorre la capacità di interpretare analiticamente i fatti, prima, durante e dopo lo svolgimento.
Uno Stato democratico deve tutelare sempre e in ogni contesto i diritti delle persone arrestate e la convenzione europea richiede una tutela effettiva, che non soffra ritardi, ostacoli, prescrizioni. La magistratura deve fare la sua parte. E magistratura democratica deve riuscire a valorizzare questo approccio non solo in chiave culturale ma anche professionale. Reazioni sproporzionate e successivi trattamenti inutilmente umilianti o afflittivi non possono mai trovare giustificazione e vanno sanzionati. Riuscire a realizzare tutto questo significa anche dimostrare davvero che l’indipendenza della magistratura serve soprattutto ai cittadini.
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