Emilio Sirianni
Candidato alle elezioni per il rinnovo del Comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati
26 - 27 - 28 gennaio 2025
Perchè Md, le mie idee
Giudice della Corte di Appello di Catanzaro
Dopo 32 anni in magistratura, ricordi e pensieri s’affollano nella mente e nel cuore. Per esempio, che questo lungo arco temporale, più di metà della mia vita, l’ho passato in due comunità concentriche. Quella, più grande, della nostra comune professione (“il mestiere più bello del mondo”, definizione forse lisa, ma d’intatta verità) e quella, più piccola, della mia corrente (brusio di sconcerto…).
E’ che sono un ragazzo del secolo scorso e la mia formazione sentimentale, politica e culturale ha sempre seguito un percorso “comune”. Sin da quando, mentre i giovani del maggio irrompevano nella Sorbona con slogan come “siate ragionevoli chiedete l’impossibile” e accendevano una scintilla che avrebbe incendiato il mondo, io, con i miei otto anni nelle tasche dei calzoni corti, entravo nel reparto scout cittadino più con diffidenza che con partecipazione.
“Comune”, del resto, è parola dall’etimo complesso. Sinonimo, da un lato, di mediocre, indicava, dall’altro, la titolarità di una carica. Poi, per quasi otto secoli, ha designato quel diritto che i nostri glossatori estrassero dai (ma in buona parte crearono sui) frammenti giustinianei e che fu posto a regola di quasi tutte le comunità (per l’appunto) continentali.
Finita l’esperienza scoutistica in un’ingloriosa fuga nei boschi della Sila, alla vista dei riti d’iniziazione che mi attendevano per celebrare il mai consumato passaggio al grado di “esploratore”, ho trascorso di comunità in comunità tutti gli anni dall’adolescenza al tremante giuramento sulla Costituzione. Dai comitati studenteschi del liceo a quelli universitari, da “gruppi” ad associazioni, da “movimenti” a sezioni, da partitini a partitoni. Perché, credo, ho sempre avuto bisogno d’essere accompagnato (altra parola dall’etimo rivelatore) ed in questo ininterrotto cammino in comune forse ho dato qualcosa a chi mi camminava a fianco, ma sicuramente ho ricevuto molto, ma davvero molto di più.
Ovviamente questo non vuol dire che lungo i cammini in comune tutto sia sempre rose e fiori. Persino nel cerchio più stretto di MD, ce le siamo metaforicamente date di santa ragione in più occasioni. Per dire il vero, mi son trovato a fare parte, per non pochi anni, di un’esigua minoranza che, su scelte fondamentali, ha contestato molto duramente la dirigenza del gruppo. Uno scontro per il quale c’è chi ha pagato amari prezzi personali e che si è concluso con il trasloco in Area di quella parte di dirigenza poi finita nelle famose chat. Mentre noi che chiedevamo caparbiamente conto siamo rimasti. Anch’io, forse perché in MD ci arrivai da solo e non per mano alla mia povera mamma come ai remoti tempi degli scout o forse perché in statuto non sono previste pene corporali. Fatto sta che sono ancora lì.
Questo per dire che per me ben poco è cambiato, dopo aver messo una toga sulle spalle, rispetto ai remoti anni della fanciullezza e dell’adolescenza.
Sin dall’inizio, per esempio, percepivo che il giudiziario è un “sapere-potere tanto più legittimo quanto più prevale il sapere, tanto più illegittimo quanto più prevale il potere”, ma è stato il cammino comune che ho percorso in Magistratura Democratica a darmi le parole per dirlo e, si sa, le cose vengono ad esistenza solo quando sono nominate.
E’ stata sempre questa lunga camminata in comune -come quelle d’ognuno, magistrato o meno, ne sia consapevole o meno- a rendermi chiaro, sin dall’inizio, che il nostro piccolo mondo in toga molto spesso non faceva che replicare, in ritardo, quanto avveniva nel mondo grande di fuori. Come con la crisi delle correnti (la tristemente famosa “modestia etica”), replica molto tardiva della crisi dei partiti. Ma come una democrazia non può funzionare senza partiti, allo stesso modo un autogoverno della magistratura non può funzionare senza le correnti. Il sorteggio non delegittimerebbe solo il CSM, ma l’intera magistratura. Sopprimere le correnti vorrebbe dire confondere le cause con gli effetti: la loro crisi è l’effetto, la causa è l’enorme potere che hanno acquisito con le riforme del 2006 e che la normazione secondaria del Consiglio è riuscita persino ad accrescere. Non occorre eliminare le correnti, ma ridurne il potere e, nel contempo, quello dei dirigenti, soprattutto degli uffici requirenti, intorno alle cui nomine non casualmente sono deflagrati gli scandali che ci hanno infangati tutti.
Molti di questi cambiamenti richiedono interventi del legislatore ed io vorrei che l’ANM si battesse fortemente per le necessarie riforme, cominciando da quella delle Procure: basta con il Procuratore unico titolare dell’azione penale.
Personalmente, mi batterei anche per il ritorno all’anzianità come criterio determinante per il conferimento di incarichi e superabile solo in caso di demeriti gravi o meriti eccezionali, ma con maggioranza qualificata dei due terzi. Come proposto dal prof. Ferrajoli, dal cui pensiero, conosciuto in quel cammino comune, ho tratto la gran parte delle riflessioni sopra riportate. Al pari della conclusione che il ritorno all’anzianità sia, a questo punto, un prezzo equo da pagare, posto che “tutte le garanzie hanno un prezzo”.
Perché potere e gerarchie, non solo contraddicono l’idea orizzontale del giudice regalataci dai costituenti, ma generano quella che Calamandrei definiva “la peggiore sciagura che può capitare a un magistrato” ovvero “ammalarsi di quel terribile morbo dei burocrati che si chiama conformismo. Una malattia mentale simile all’agorafobia, il terrore della propria indipendenza; una specie di ossessione che non attende le raccomandazioni esterne, ma le previene; non si piega alle pressioni dei superiori ma se le immagina e le soddisfa in anticipo”.
E se quelle sulle riforme legislative sono battaglie culturali di lunga durata ed esito incerto, altre sono già in corso ed i risultati (sarebbero stati) perseguibili sin da subito. In Consiglio è stata, infatti, appena approvata la riforma del T.U. sulla dirigenza e non è poi così difficile comprendere il senso delle diverse proposte che si sono votate: c’era chi voleva lasciare intatta l’amplissima discrezionalità che continuiamo a vedere mutarsi in arbitrio e chi avrebbe voluto correggerla con criteri e punteggi predeterminati che potessero almeno arginarla. Hanno vinto i primi. Che avrebbero fatto meglio a non proporre quella foglia di fico di un minimale self restraint, circoscritto agli uffici giudiziari di Rocca Cannuccia e Fratta di Sopra, che lascia un così amaro gusto di sberleffo.
C’è, però, un’altra cosa che ho imparato in questo lungo cammino comune e cioè che tutte le garanzie a presidio della nostra indipendenza attengono alla dimensione formale della democrazia, di cui prima espressione è il principio rappresentativo e maggioritario (da cui la natura costituzionalmente eversiva del sorteggio). Mentre sono i diritti fondamentali ed i divieti ed obblighi posti a loro presidio ad esprimerne la dimensione sostanziale. Diritti che “alludono al popolo in modo molto più pregnante del principio di maggioranza, perché garantiscono la dignità di ogni essere umano” (di nuovo Ferrajoli).
Ed ho imparato che dovremmo ancorarci a questa consapevolezza ogni qual volta la maggioranza politica di turno mena scandalo perché qualcuno di noi non si mostra collaborativo con la politica del Governo e rispettoso della lettera della legge (ovviamente ordinaria) quando non della volontà del legislatore (storico, ça vas sans dire).
Che è proprio la difesa e tutela dei diritti fondamentali a legittimare la nostra indipendenza. Un’indipendenza che verrà quindi intesa come privilegio e travolta se non saremo in grado di presidiare i diritti dalle loro innumerevoli violazioni e, da questo punto di vista, spesso le battaglie dell’ANM mi paiono di retroguardia o quanto meno dimezzate perché concentrate sulla sola dimensione formale degli assetti costituzionali. Sui mezzi anziché sui fini.
La nostra associazione deve tornare a parlare di diritti, i quali hanno sempre una funzione contro maggioritaria proprio perché pensati a difesa dei deboli, degli ultimi. I potenti non ne hanno bisogno: hanno la forza. In questo senso troppe volte ho sentito pesante il silenzio dell’ANM, ma non c’è abbastanza spazio per dilungarmi al riguardo.
Ci sarà l’occasione di farlo se dovessi essere eletto al c.d.c., per il cui rinnovo mi candido con Magistratura Democratica, ma un solo esempio vorrei farlo: l’inferno delle nostre carceri. Una litania di suicidi, condizioni inumane, uno scadenzario di rivolte e torture e da questa nostra associazione solo bisbigli. Un silenzio tombale anche di fronte alle dichiarazioni da inquisizione spagnola di un sottosegretario, che ha voluto condividere con i cittadini italiani la propria intima gioia per le sofferenze inflitte ai detenuti. Un silenzio terribilmente miope.
Ci candidiamo anche perché l’ANM ritrovi la parola.
Emilio Sirianni
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