Relazione del Segretario generale
Relazione del Segretario generale di Magistratura democratica al XXIV Congresso, Napoli, 10-12 novembre 2023
La narrazione congressuale
Questo Congresso ha l’ambizione di offrire una prospettiva che guardi oltre le contingenze dell’attualità. Non si tratta di una fuga dal presente, ma di una pausa dal quotidiano, per comprendere insieme la direzione verso la quale stanno andando i diritti, anticiparne le tendenze e, così, svolgere il nostro ruolo di magistrati con una migliore consapevolezza delle complessità che si celano dietro i fascicoli che affollano le nostre giornate.
È per questo che abbiamo chiesto il contributo dei protagonisti del conflitto tra diritti; un conflitto che non riguarda solo il futuro, perché è già concreto e attuale nelle storie di persone che si stanno impegnando per l’affermazione di nuovi diritti che chiedono riconoscimento, spazio e tutela a diritti già consolidati. Il conflitto è un fattore di crescita e sviluppo dei diritti se gestito secondo una logica di progressivo affinamento e miglioramento degli equilibri tra interessi contrapposti. Più la magistratura sarà consapevole di questo suo ruolo, sempre meglio farà il suo lavoro.
Emblematica dei conflitti in corso è la questione eco-ambientale che si innesta nel più ampio tema della sostenibilità dei sistemi economici su cui si reggono i sistemi sociali moderni. Fare i conti con le risorse terrestri disponibili è un segno di responsabilità, non farlo è il segno di un disinteresse verso la natura di chi si chiude in un egoismo sordo che rifiuta di guardare al futuro. È questo il più grande conflitto in corso perché è generazionale e perché mette in discussione il dovere essenziale di tutelare un equilibrato rapporto con la natura e tra gli uomini capace di garantire un futuro alle giovani generazioni.
La natura universale di questi conflitti è uno stimolo per immaginare un sistema internazionale di tutele che non riguardi più la singola nazione, ma i diritti fondamentali delle persone ovunque esse vivano.
È tuttavia possibile parlare di questi temi solo riuscendo a inserirli in un discorso più generale che coinvolga il diritto sovranazionale e che comprenda cosa stia accadendo in Paesi prossimi a noi nella gestione dei rapporti tra decisore politico e magistratura.
Il nostro ordinamento interno è ormai regolato da una struttura di fonti multilivello e dal dialogo tra Corti interne e Corti sovranazionali: questo schema esalta il ruolo di tutela dei diritti fondamentali da parte della magistratura che, così, diventa un attore istituzionale fuori dal controllo del decisore politico.
Per questo, nelle democrazie più giovani il decisore politico ha amputato profondamente il ruolo della magistratura, come sentiremo raccontare dalle storie di chi ha vissuto quelle stagioni che ci possono insegnare qualcosa del nostro presente.
In una democrazia matura come la nostra quell’obiettivo è perseguito con modalità più raffinate che passano per riforme costituzionali che rompono gli equilibri istituzionali vigenti per affidare a un unico decisore politico il governo degli equilibri tra interessi contrapposti.
Chiedersi, in questo contesto, quali siano gli assetti attuali della giurisdizione e come nella concretezza del “qui e oggi” la magistratura italiana possa farsi carico del suo ruolo costituzionale di tutela dei diritti fondamentali, sarà la conclusione del percorso congressuale, perché se l’efficientismo aziendalistico è uno dei fattori che dominano il dovere essere del magistrato di oggi, dobbiamo impegnarci a rinnovare e immaginare nuovi sistemi che lo rendano compatibile con l’essenza del nostro ruolo, che non è produrre provvedimenti ma offrire risposte di giustizia.
Uno sguardo al presente dalla prospettiva dei diritti
Sono trascorsi più di due anni da quando Magistratura democratica ha recuperato la sua autonomia rappresentativa. È un tempo sufficiente per aggiornare la ragione di senso di quella scelta, alla luce della piega assunta dal dibattito sui diritti e, in questo, del discorso sul ruolo della giurisdizione.
Per farlo abbiamo immaginato un Congresso che ha l’ambizione di offrire una visione, una prospettiva, a partire dai nuovi diritti in formazione che stanno entrando in conflitto con quelli già consolidati. Un conflitto ora silente, ora più evidente, che si muove nel solco di disuguaglianze sempre più accentuate, quanto accettate come fisiologiche, a causa di un progressivo affievolimento della spinta emancipatrice che innerva la Costituzione. Una forza di rinnovamento e sviluppo dei diritti che ha bisogno di attori credibili e coraggiosi, che non sembra trovare spazi vitali in una società invecchiata, stanca, disillusa.
Le ragioni del presente dettano le linee strategiche del decisore politico che appare imprigionato da un populismo asfittico, alimentato da egoismi di corto respiro. Quella che appare dominare è la logica di una folla di individui che non si riconoscono comunità e che appaiono schiacciati da un presente totalizzante, asfissiante, senza memoria, né futuro. Sono le urgenze dell’oggi a dettare l’agenda, con una ripetizione abituale del paradigma dell’indifferibilità che è il primo indice della loro irrazionalità. Una folla smemorata e inconsapevole, avida di emozioni da cui è dipendente, grazie alla loro continua alimentazione garantita da un circuito mediatico bulimico quanto opaco. In questo modo, il tempo non riesce più a svolgere la sua funzione creativa e generatrice, sradicandoci dalla realtà in cui viviamo, per portarci in un frustrante spazio virtuale, stancamente ripiegati su noi stessi. E mentre una parte della politica alimenta le pulsioni della folla, un’altra tenta di governarne gli impeti, assecondando una prospettiva che non immagina un domani migliore per tutti, ma solo l’illusione di un domani non peggiore per ciascuno. Il dibattito politico resta così rinchiuso negli angusti spazi della paura del futuro; le sue incertezze non sono più una sfida da affrontare, ma un timore da evitare.
Si tratta di una dinamica che ha coinvolto anche il dibattito sui diritti. Agire rincorrendo l’urgenza del momento è infatti divenuta la cifra anche della tecnica e metodica normativa. Da tempo i governi fanno un uso distorto dei decreti legge, con una progressiva estensione delle clausole di necessità e urgenza previste dalla Costituzione come limiti per il loro utilizzo: e così queste fonti normative hanno visto snaturata la loro funzione originaria, costipando il dibattito tra i giuristi e silenziando quello parlamentare. Ne escono provvedimenti in cui non è la ponderata analisi delle cause e delle possibili soluzioni a guidare il Legislatore, ma l’urgenza di esprimere una decisione che taciti e dia sfogo all’emozione che agita la folla.
Non è solo una questione di metodo legislativo. L’insoddisfazione per il presente impone continue riforme e poi la riforma delle riforme, senza alcuna possibilità di sedimentare le soluzioni, verificarne l’efficacia, intuirne le prassi applicative.
La produzione normativa perde la sua naturale, fisiologica progressione verso un migliore raffinamento delle soluzioni, capace di contemperare i diritti in conflitto, procedendo, invece, per continui strappi, secondo la logica della forza politica del più forte.
Il diritto perde la sua saggezza, la sua capacità di assumersi la responsabilità di proteggere i più deboli e marginali, per trasformarsi in un agone di faziosità esasperate. Hybris prende il sopravvento e innalza i suoi flutti minacciosi, mentre Dike viene strattonata in basso, immiserita nella sua funzione, imbarbarita perché il mare agitato di Hybris la possa sommergere.
E così anche il dibattito sui diritti appare governato dalla logica binaria: amico / nemico, dalle urgenze che non consentono di intuire la direzione di senso generale, dalle paure che impediscono di immaginare un futuro pacificato migliore per tutti e non solo per pochi.
È ancora attuale l’esortazione di Calamandrei che descriveva la Costituzione come una polemica contro il presente, ma la sua capacità profetica appare dimenticata anche nella comunità giuridica. Eppure la dignità delle persone, la giustizia sociale, la solidarietà verso i deboli e gli emarginati, la legalità e l’abolizione dei privilegi, l’equità nella distribuzione dei pesi e dei sacrifici imposti dalla crisi economica, la speranza di libertà, lavoro e cultura per le giovani generazioni, una crescita armonica con la tutela della natura, la pace quale metodo di relazione e risoluzione delle controversie, sono tutti diritti, criteri, tracce di futuro che ancora oggi trovano nella Costituzione il loro principio e fondamento.
Farsi interrogare da questi temi, scrutinare i conflitti che animano la società, confrontarsi con la pretesa emancipatrice dei diritti deboli che, a partire dagli articoli 2 e 3 irradia tutto il dettato costituzionale, costituisce il tentativo di Magistratura democratica di offrire a tutta la magistratura uno spazio per non cedere alla tentazione compiaciuta di un giudice neutrale perché ignaro, imparziale perché chiuso in un tecnicismo autoreferenziale, riservato perché inconsapevole del suo ruolo costituzionale, prudente perché più attento alla sua carriera che alla tutela dei diritti che è chiamato a governare.
L’imparzialità del magistrato e l’interpretazione delle norme
Negli ultimi tempi, l’orologio sembra essere tornato indietro e il tema dell’imparzialità (effettiva e apparente) del giudice è tornato alla ribalta, in esito ad attacchi scomposti alla persona di una giudice, che aveva disapplicato una norma in tema di migranti, perché in contrasto con fonti sovranazionali, dotate di puntuale precisione prescrittiva, che ne consentivano la diretta e sovraordinata applicazione, anche in mancanza del loro espresso recepimento nel nostro Paese.
Un’aggressione alla persona del giudice, piuttosto che una critica al suo provvedimento. A lungo presentata come una questione legata all’imparzialità della giudice, quell’aggressione intimidente sta lentamente palesando il reale obiettivo di chi la ha agitata: l’interpretazione sgradita della norma.
Si è consolidata da anni una tetragona giurisprudenza in materia di interpretazione delle norme conforme alla Costituzione ed alla giurisprudenza della CEDU (nei limiti consentiti dalla lettera della norma stessa e fatta salva la possibilità di sollevare la questione di legittimità costituzionale, in mancanza di spazi interpretativi), insieme alla disapplicazione del diritto nazionale, non conforme alla legislazione UE, quando questa sia dotata di precisi e puntuali indicazioni di dettaglio, a prescindere dal suo recepimento da parte del Legislatore nazionale. Si tratta del noto sistema multilivello delle fonti che descrive un ordinamento nel quale la norma positiva deve essere posta a confronto ed interpretata alla luce dei principi e delle previsioni che discendono da una lettura unitaria del sistema normativo così complessivamente apprezzato. Il giudice, quindi, non è più solo interprete del diritto di produzione nazionale, ma di questo inserito nel più ampio sistema ordinamentale formato dalle plurime fonti sovranazionali.
Dietro l’aggressione alla persona della singola giudice, dunque, si cela l’intimidazione più generale all’uso di un metodo interpretativo, perché la sua applicazione rende la magistratura un concreto antagonista alle spinte sovraniste ambite dal Legislatore. L’aggressione, dunque, svela un atteggiamento intollerante per la presenza di un tutore dei diritti fondamentali - autonomo e indipendente - guidato da un’interpretazione adeguatrice, ispirata non solo alla Costituzione, ma anche alla normativa sovranazionale.
Eppure, è proprio questo il saggio equilibrio di poteri intuito – sulla base della concreta esperienza vissuta nel ventennio fascista – dai Costituenti. L’autonomia e indipendenza della magistratura non sono, infatti, un privilegio corporativo, ma una tutela, funzionale a esercitare il ruolo di garante dei diritti fondamentali, protetti dalla Costituzione e dalle norme sovranazionali.
Ecco, allora, che l’intimidazione alla persona del giudice, lo “scandalo” della imparzialità svelano il loro vero obiettivo: neutralizzare la funzione di garanzia e tutela dei diritti che spetta ad una Magistratura consapevolmente inserita nel sistema delle fonti sovranazionali multilivello, affinché questa non ostacoli le politiche della contingente maggioranza parlamentare.
Va subito evidenziato come le reazioni incerte e abbozzate di una parte della Magistratura associata, alcune dichiarazioni di suoi autorevoli esponenti (tra queste spicca l’intervista alla Consigliere del CSM Bernadette Nicotra a “Libero”, il 24 ottobre 2023), siano perfettamente in linea con quelle rese da autorevoli esponenti di quella stessa parte associativa, prestati al Governo (il riferimento è all’intervento del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, a Palermo per il convegno di studi organizzato dalla Corte dei Conti). Si tratta di una polifonia culturale, volta a stimolare nei magistrati prudenza, riservatezza e rigore tecnocratico nell’interpretazione. Tutte qualità necessarie al magistrato, ma non sufficienti, senza una sua chiara consapevolezza della partita in gioco sui diritti; perché se il magistrato è troppo attento a se stesso, può facilmente scivolare sul piano inclinato della pavidità interpretativa, a tutela di sé e dei suoi privilegi. Un magistrato timoroso che usa il tecnicismo interpretativo, quale mascheramento della sua infedeltà al dovere costituzionale di tutelare i diritti fondamentali delle persone.
E se le aggressioni di un giudice - architettate tramite archivi di profilazione personale ancora oggi d’ignota provenienza e gestione - sono un monito a futura memoria verso tutta la magistratura, le sinergiche prese di posizione tra magistrati di ispirazione conservatrice che stanno dentro e fuori il Governo, danno solidità e giustificazione culturale a una imparzialità del giudice misurata in relazione al modo di interpretare la legge.
Secondo questa ispirazione, infatti, è imparziale il giudice che interpreta la norma in conformità ai desiderata della maggioranza parlamentate contingente, non importa se in spregio ai diritti costituzionali ed ai principi sovranazionali che governano la materia. È quella maggioranza, infatti, che si fa espressione della volontà popolare, anche quando questa appare sovrapponibile a quella di una folla in tumulto, eccitata dalle emozioni, ispirata da gretti egoismi di corto respiro, alla costante ricerca di un colpevole su cui scaricare l’insoddisfazione per le precarie prospettive del benessere economico individuale. Non importa se questo avviene a discapito dei beni comuni, di una equa ripartizione delle risorse, di un equilibrato uso delle stesse che sia garanzia della possibilità di uno sviluppo armonico con la natura anche per le future generazioni, dei diritti fondamentali e delle stesse vite di essere umani che chiedono di sfamare i loro bisogni con le briciole della nostra opulenza, del nostro superfluo. Anche di fronte a tutto questo, la Magistratura dovrebbe ridursi al ruolo di stretto interprete positivo della volontà della contingente maggioranza parlamentare, senza interrogarsi della sua compatibilità con i diritti costituzionali (se non per sollevare questioni di legittimità costituzionale e mai per proporre un’interpretazione che restituisca coerenza al rapporto tra testo della norma e dettato costituzionale) e con le norme sovranazionali, immediatamente cogenti, anche se non recepite in un testo normativo dalla contingente maggioranza parlamentare.
Quello che viene meno è il sistema di saggio equilibrio tra i poteri dello Stato che aveva individuato nella autonomia e indipendenza della magistratura il baluardo di difesa dei diritti fondamentali.
La profilazione di un singolo magistrato, la sua aggressione mediatica a cagione di un provvedimento sgradito, la fastidiosa percezione che possa trattarsi, in realtà, di un monito intimidatorio rivolto a tutta la magistratura, per “invitarla” ad assoggettarsi ai voleri della contingente maggioranza parlamentare, sono gli aspetti più cruenti ed urticanti delle iniziative di alcuni autorevoli rappresentanti del Governo in carica. Accanto a questi, si registrano più sobri, eleganti, ma per questo non meno insidiosi, inviti alla moderazione e alla prudenza interpretativa.
Questi vengono in un’epoca storica in cui molti dati ci indicano una difficoltà oggettiva in cui versa la magistratura. I carichi di lavoro gravano, infatti, pesantemente sulla capacità del singolo magistrato di elaborare e argomentare, sicché percorre tutta la magistratura la tentazione di adagiarsi acriticamente sul precedente giurisprudenziale di legittimità, per individuare non già la soluzione migliore al caso concreto, ma quella che consente di esitare più velocemente possibile il fascicolo. In questo senso spingono anche le indicazioni di magistrati che ricoprono incarichi direttivi e semi-direttivi i cui parametri di valutazione sono sempre più di frequente legati alla capacità produttiva dell’Ufficio e/o della singola sezione.
Sono sintomi evidenti di questa deriva: per un verso il ridotto numero di questioni di legittimità costituzionale che vengono sollevate dai giudici di merito (per un’analisi complessiva del fenomeno si rinvia al numero trimestrale 4/2020 di Questione Giustizia); per altro verso la difficoltà della Suprema Corte ad essere autentico strumento di nomofilachia, a cagione dell’impressionante numero di procedimenti da trattare che ha determinato, talvolta, contrasti inconsapevoli all’interno della medesima Sezione.
Ecco, allora, che quegli inviti alla moderazione interpretativa, alla prudenza gnoseologica, alla acriticità nel giudicare incontrano una tendenza che è già viva e concreta dentro una magistratura stanca ed affannata. L’insieme di questi fattori, dunque, si sostanzia in un pericoloso attacco alla autonomia e indipendenza della magistratura, intesi quali presupposti funzionali ad un’interpretazione costituzionale e sovranazionale delle norme. Si tratta di un attacco al modello costituzionale: palese ed evidente nelle aggressioni mediatiche al singolo magistrato, occulto e subdolo negli stimoli alla prudenza interpretativa rivolti alla magistratura.
Questa perniciosa prospettiva che vuole il magistrato semplice esecutore acritico dei voleri della maggioranza parlamentare contingente, va letta unitamente alla proposta di riforma costituzionale in senso rigidamente presidenziale del nostro sistema democratico.
Ne esce chiaramente un disegno istituzionale nel quale un insieme impressionante di poteri si concentrano in poche persone, senza che la magistratura sia chiamata ad esercitare la sua funzione di tutela dei diritti fondamentali. Restando al piano dei diritti, viene delineato un decisore unico nella risoluzione dei conflitti, con una riscrittura sostanziale dei saggi equilibri costituzionali che presupponevano un ruolo attivo di più soggetti istituzionali, autonomi e indipendenti, per la loro gestione.
Allo schema costituzionale del bilanciamento dei poteri tra più soggetti istituzionali, attraverso limiti e contrappesi, posti a garanzia del reciproco controllo e di un confronto funzionale al migliore contemperamento degli interessi in gioco, si sostituisce uno schema piramidale in cui le scelte sono affidate a poche persone.
La proposta di riforma costituzionale sulla separazione delle carriere
Mentre il convergere sinergico di intimidazione mediatica e influenza culturale rischia di minare l’imparzialità del giudice e in particolare il suo foro interiore dove, in scienza e coscienza, assume responsabili e ponderate decisioni, interpretando la legge consapevole del suo ruolo costituzionale, il Parlamento dovrà presto confrontarsi con quattro proposte di revisione costituzionale, tutte schiettamente ispirate alla proposta di iniziativa legislativa popolare promossa dall’Unione delle camere penali, presentata il 31 ottobre 2017.
L’iniziativa è nota come relativa alla separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti, ma si tratta di una truffa delle etichette, giacché l’esito dei proponenti è quello di sconvolgere l’equilibrio tra i poteri dello Stato, riducendo l’autonomia e l’indipendenza della magistratura tutta. Alcune recenti vicende sono già sintomatiche degli effetti culturali di una separazione delle carriere. D’altronde, la magistratura vive ed è influenzata dal dibattito sul tema, sicché taluni effetti sono, talvolta, anticipati da prassi che vi si adeguano inconsapevolmente. Il riferimento è ai provvedimenti cautelari del giudice per le indagini preliminari non conformi alle aspettative dell’Ufficio di Procura che sono stati presentati all’opinione pubblica come il frutto di errori di valutazione, secondo una prospettiva per cui solo la ricostruzione accusatoria merita affidabilità. In quel contesto non si sono tralasciati nemmeno troppo celati attacchi alla persona del giudice e alle sue qualità professionali, evidenziandosi ancora di più una preoccupante osmosi di pratiche aggressive anche nel dibattito sulla giurisdizione, che le devono essere estranee.
Si assiste, quindi, a un pubblico ministero non più protagonista dell’azione cautelare e penale, ma indifferente al suo esito, rimesso ad un leale contraddittorio, ma a un pubblico ministero performativo, impregnato da una logica vittoria/sconfitta che trasforma il giudizio in un agone, dove esercitare la forza, più che la protezione dei diritti coinvolti, i toni alti amplificati dai media, più che una sobria, ponderata comunicazione della complessità insita nella giurisdizione e nell’irrisolvibile precarietà delle verità processuali.
Una deriva che dovrebbe preoccupare un’avvocatura, incapace invece di mettere in discussione il mantra della separazione delle carriere, quale soluzione ai problemi della Giustizia.
Tuttavia, come già accennato questo è l’effetto tutto sommato meno negativo delle proposte revisione costituzionale, ispirate dell’Unione delle camere penali.
L’aumento del numero dei membri laici dei due CSM ne altererebbe l’attuale composizione, parificando la quota di consiglieri eletti dal parlamento a quella eletta dai magistrati, accrescendo, così l’influenza dei partiti politici nel governo della magistratura. I due futuri CSM, poi, potrebbero occuparsi solo della mera gestione amministrativa, essendo loro inibita l’adozione di atti di indirizzo e l’esercizio di funzioni para-normative che rappresentano una delle parti più significativa dei compiti di politica giudiziaria sin qui riconosciuti. Verrebbe meno, poi, l’obbligatorietà dell’azione penale, quale principio di valenza costituzionale, la sottomissione dei magistrati solo alla legge e la loro distinzione solo per funzioni; si tratta di una miscellanea di previsioni tutte orientate a incidere sulla autonomia e indipendenza della magistratura, insieme al potere diffuso che ne caratterizza l’esercizio, al fine di un migliore controllo sulla parte “nobile” chiamata ad assumere le scelte, dettando il carico di lavoro sulla parte “plebea” della magistratura chiamata solo a garantire un’efficiente produzione.
Sarebbe interessante comprendere come l’Unione delle camere penali immagini che questo possa risultare compatibile con la previsione posta all’art. 2 del loro statuto che impegna “… a garantire l'indipendenza e l'autonomia della giurisdizione …”, trascurando, invece, l’assist fornito a una politica sempre più insofferente alla autonomia e indipendenza della magistratura che la rendono un fattore non controllabile dal decisore politico, a tutela dei diritti fondamentali, nello scacchiere istituzionale.
Tuttavia, affermare come la scelta dell’Unione delle camere penali abbia inferto una grave ferita alla comunità dei giuristi attenta alla garanzia dei diritti fondamentali, non ci impedisce di continuare a dialogare.
Magistratura democratica non vuole essere un gruppo settario, ma un gruppo associato protagonista nella ricomposizione della trama che deve riunire la comunità dei giuristi, per rilanciare un discorso comune sulla complessità della giurisdizione, scevro da semplificazioni, volte a banalizzarle, ritrovando spazi condivisi di ragionamento e confronto che sono essenziali alle sfide che ci riserva la modernità. Ed è per questo motivo che nei due anni trascorsi abbiamo coinvolto i Consigli dell’ordine ed altre sigle dell’avvocatura associata in numerose nostre iniziative, riconoscendo agli avvocati un ruolo essenziale per il miglioramento della qualità e dell’efficienza della giurisdizione, secondo l’esperienza feconda e profetica degli Osservatori sulla giustizia civile.
Il dibattito nell’associazionismo giudiziario
Un atteggiamento aperto al confronto ed alla contaminazione, nonostante le distanze culturali, deve caratterizzare la partecipazione di Magistratura democratica al dibattito associativo, operando alacremente per un’unità che non significa affatto edulcorare le differenze culturali che lo percorrono, ma diventare lievito per una loro convivialità feconda.
Nel dibattito associativo si è posto il tema del giudice eversivo, additando così, con sfumature diverse, il giudice incline a interpretare le norme - nei limiti della compatibilità con la lettera della legge e, quindi, rispettoso del principio della prevedibilità del diritto (in relazione alla quale si richiama il numero trimestrale 4/2018 di Questione Giustizia a ciò dedicato) - secondo i principi costituzionali e i diritti sovranazionali, dando loro applicazione diretta, se puntuali e precisi, anche in caso di mancata applicazione da parte del Legislatore. Come già accennato è un trend culturale che unisce la dirigenza di Magistratura Indipendente, con magistrati di quella corrente che occupano posti di rilievo nell’attuale compagine governativa.
A noi pare, invece, che il giudice eversivo sia quello indifferente ai valori costituzionali e ai diritti affermati dalle norme sovranazionali. Un giudice agnostico, afasico, anodino, amorfo, acqua cheta che galleggia lungo il fiume della sua carriera, attento a schivare i macigni dei principi costituzionali e dei diritti sovranazionali, per adeguarsi – senza farci caso – ai desiderata della maggioranza contingente e giungere agli scranni più ambiti, sfruttando, con cinico opportunismo, le tutele e le prerogative che la Costituzione gli riconosce (a ben altro scopo che proteggere se stesso ed i suoi privilegi). Insomma, un giudice “arbitro in terra del bene e del male” che rassomiglia molto a quello canzonato da Fabrizio De Andrè nelle sue indimenticabili strofe e che è schiettamente eversivo, rispetto al modello costituzionale, benché prudente, silenzioso e ossequioso.
Nei giorni scorsi, con una dose di genuina ingenuità che è tipica di quel movimento politico, la Lega ha apprezzato le scelte associative di Magistratura Indipendente, in merito alla vicenda di Catania. Per paradosso della storia, il gruppo che predica l’imparzialità neutrale e l’impoliticità assoluta della magistratura ha ricevuto un endorserment pubblico da una parte della politica parlamentare. La plastica verifica di come una magistratura pavida, chiusa in un’imparzialità afasica, attenta ai suoi privilegi, obbediente esecutrice del dettato normativo della maggioranza contingente, anche in spregio ai principi costituzionali e alle fonti sovranazionali, sia quanto di più faziosamente politico e, perciò quanto di più eversivo possa immaginarsi!
Ma attenzione: non crediamo di essere migliori di Magistratura Indipendente, né degli altri gruppi associati. Crediamo, anzi, che sia proprio nel confronto plurale tra le poliedriche sensibilità culturali che percorrono la magistratura che si costruisce la autorevolezza e la forza trainante dell’associazionismo giudiziario. Per questo non abbiamo accettato di partecipare al battibecco polemico successivo all’ultimo CDC dell’ANM; siamo interessati a costruire una trama associativa, fondata sul rispetto delle reciproche posizioni, nella consapevolezza dei limiti. Ed è per questo che riteniamo Magistratura Indipendente e i magistrati che vi si riconoscono come un prezioso interlocutore che ci aiuta ad ampliare le nostre prospettive, individuare meglio i nostri limiti, comprendere meglio tutta la magistratura e individuare, così, soluzioni e proposte più idonee a migliorare la qualità e l’efficienza della giurisdizione.
A due anni dal recupero della nostra autonomia da AreaDG, i rapporti con quest’ultimo gruppo sono andati rasserenandosi. Certo, persiste la sgradevole sensazione che uno degli scopi strategici di AreaDG sia limitare, se non proprio escludere, gli spazi di agibilità politica di Magistratura democratica. Ancora residua, infatti, in alcuni dirigenti di AreaDG la convinzione che quel gruppo debba rappresentare, in via esclusiva, “…i magistrati che praticano una giustizia orientata ai principi costituzionali…” (per usare le loro parole), con la presuntuosa esclusione di tutti gli altri gruppi, e in particolare di Magistratura democratica, da questo che dovrebbe essere l’orizzonte comune di tutto l’associazionismo giudiziario.
Tuttavia siamo certi che il tempo consentirà di trovare migliori e più consapevoli rapporti tra i due gruppi, sul presupposto del riconoscimento delle reciproche differenze, con l’obiettivo di individuare, a partire da questo, sinergie comuni. Probabilmente proprio questa visione totalizzante di AreaDG è una delle cause per cui percepiamo un’AreaDG “di lotta” nelle interviste dei suoi dirigenti e nel dibattito sugli spazi di confronto (mailing list e chat) ed un’AreaDG “di governo” nella gestione comune a Magistratura Indipendente della GEC ANM e di molte decisioni assunte al CSM. Come sia possibile registrare - dopo gli accesissimi contrasti intercorsi con Magistratura Indipendente, a colpi di comunicati e contro-comunicati, in ordine a questioni fondamentali per la magistratura - la permanente alleanza in GEC ANM tra i due gruppi, è uno dei miracoli che il governo del potere è in grado di ben spiegare. Tuttavia, speriamo che la sinergia sui fondamenti associativi, corrente con AreaDG, possa – alla lunga – essere premiante sulle strategie di più corto respiro che, allo stato, caratterizzano i rapporti. Ed è evidente come il presupposto non possa che passare attraverso il riconoscimento di una pari dignità nella rappresentanza plurale della magistratura progressista.
Abbiamo apprezzato la capacità di Unità per la Costituzione di rinnovare la sua dirigenza e presentarsi alle ultime elezioni per il CSM con un coraggioso rinnovamento, premiato dagli elettori. La circostanza che un gruppo associativo così intimamente ferito dalle vicende accertate dall’indagine perugina abbia saputo e potuto rilanciare la sua linea associativa, rinnovando la sua capacità di attrazione elettorale, è un segno di speranza per tutta l’ANM. Significa che la magistratura mantiene viva l’attenzione sul discorso associativo, è in grado di coglierne le dinamiche e di premiare scelte di rifondazione coraggiose. Il tempo dirà quanto la spinta di rinnovamento manterrà la sua freschezza o se prevarranno, invece, antiche spinte a forme di mediazione che hanno garantito a quel gruppo un ruolo baricentrico nei centri di potere della Magistratura.
Va, poi, riconosciuto al gruppo dei Centouno presso il CDC ANM e al consigliere del CSM Mirenda di essere stati un pungolo per tutto il dibattito associativo. Certo non siamo affatto persuasi delle loro posizioni sul sorteggio quale strumento di selezione dei candidati al CSM e, più in generale, non condividiamo le loro proposte di riforma e auto-riforma della magistratura che hanno quale comune denominatore la sfiducia nei gruppi associati e nel confronto associativo tra varie sensibilità culturali, in cerca di una comune visione. Tuttavia, va loro riconosciuto di avere espresso la profonda insoddisfazione del corpo della magistratura, per la grave crisi svelata dall’indagine perugina che ne ha minato l’affidabilità e l’autorevolezza.
La gestione del cd. caso Palamara
Anche Magistratura democratica è profondamente insoddisfatta per la gestione di questa crisi. Né i procedimenti disciplinari e para-disciplinari avviati dal CSM, né quelli istruiti dai probiviri dell’ANM hanno consentito a tutta la magistratura di interrogarsi autenticamente sulle cause che hanno permesso ad un gruppo di presunti ottimati di governare le nomine direttive e semi-direttive al CSM e attraverso questo strumento di stravolgere il senso e il significato dell’associazionismo giudiziario, espropriato del suo ruolo di confronto tra orientamenti culturali, per divenire manipolo di governo del potere.
Per questa ragione avevamo chiesto che l’ANM, in luogo di perseguire i responsabili di condotte eticamente riprovevoli attraverso procedimenti segretati, persino nelle massime elaborate dai probiviri, promuovesse una sorta di “commissione verità”, nella quale poter comprendere il fenomeno, piuttosto che sanzionare i singoli, individuandone le cause e le ragioni, per coinvolgere tutta la magistratura in un discorso autenticamente catartico che si proponesse di studiare il passato, per elaborare prospettive e soluzioni per il futuro.
È prevalsa, invece, la tesi secondo la quale con lo svolgimento dei citati procedimenti disciplinari e para-disciplinari, la magistratura avrebbe dimostrato di avere superato la crisi. L’esito di questi ha dimostrato, invece, quanto sia stato miope affidarvisi. Si tratta, infatti, di strumenti, tesi all’accertamento di responsabilità individuali, inadatti all’analisi dei fenomeni e a una valutazione delle cause culturali, che non consentono l’avvio di un discorso associativo diffuso e coinvolgente tutta la magistratura. Solo se questa diventa ben consapevole di quanto l’impatto culturale dell’ambizione alla carriera dirigenziale abbia modificato il modo di essere del magistrato, trasformando in senso verticale i rapporti orizzontali dentro la magistratura previsti dalla Costituzione, sarà possibile avviare autentici processi di auto-riforma. E questa necessità è ancora più urgente per le giovani generazioni di magistrati che stanno subendo il marchio di inaffidabilità istituzionale, per fatti e dinamiche a cui non hanno contribuito neanche indirettamente e di cui non hanno chiavi di lettura, restando così privi di efficaci strumenti di prevenzione per il futuro.
Il Consiglio superiore della magistratura
La recuperata autonomia di Magistratura democratica – come gruppo associativo che ha l’ambizione di contribuire al governo autonomo della magistratura – ha avuto, come suo naturale sviluppo, la decisione di partecipare alle elezioni del Consiglio superiore della magistratura.
Il legislatore ha disegnato una riforma della legge elettorale che ha esplicitamente ignorato – con la sostanziale condiscendenza dell’ANM e dei gruppi in essa maggiormente rappresentativi – gli esiti del referendum celebrato dall’ANM, che si era espresso a larga maggioranza per un sistema elettorale di carattere proporzionale.
Ne è uscita una legge elettorale piuttosto farraginosa, che – nel coltivare l’obiettivo di depotenziare il correntismo – ha paradossalmente finito con l’aumentare il “potere” che si concentra nei suoi due gruppi maggioritari.
In questo scenario elettorale, Magistratura democratica – dopo avere sperimentato senza successo la possibilità di trovare convergenze con il gruppo di AreaDG per i collegi di legittimità e del pubblico ministero (in cui la prevalenza di aspetti maggioritari suggeriva tale opzione) – ha deciso di presentare propri candidati in ogni collegio elettorale, giovandosi della credibilità personale, dell’entusiasmo e del generoso impegno di Anna Mori, Elisabetta Tarquini, Gaetano Campo, Mimma Miele, Valerio Savio – per i collegi giudicanti – di Paolo Ramondino – per il collegio PM Sud – e di Lello Magi, per il collegio di legittimità. Nel collegio giudicante nord, Magistratura democratica ha anche deciso di effettuare un apparentamento con una candidata indipendente (Luisa Savoia) e - per il collegio PM (fascia settentrionale – tirrenica, secondo la curiosa geografia elettorale) – non ha presentato “propri” candidati; in quel collegio elettorale, si è tuttavia candidato Roberto Fontana, persona che alla storia, ai valori e alle scelte del nostro gruppo ha sempre guardato in modo trasparente. È dunque molto probabile che molti simpatizzanti del nostro gruppo – anche in nome di questa storia comune – abbiano sostenuto Roberto Fontana, unendosi ad altri che hanno scelto quel candidato sulla base della sua proposta e della sua storia professionale.
La candidatura di Luisa Savoia e di Roberto Fontana – non “candidati di MD”, ma candidati indipendenti, disponibili a dialogare “con MD” o comunque a noi vicini – è l’espressione del tentativo del nostro gruppo di effettuare una proposta di partecipazione al governo autonomo non settaria, ma pur sempre caratterizzata da una forte identità culturale che in nessun modo vogliamo mettere da parte.
La proposta di Magistratura democratica – anche grazie al valore dei candidati – ha incontrato il favore di numerosi colleghi (quasi il 13%). La legge elettorale – con il suo effetto sostanzialmente maggioritario – ha determinato una sottorappresentazione (in termini di candidati eletti) rispetto al consenso acquisito.
Ma questo non può essere un problema per un gruppo come il nostro, che non ambisce a gestire potere.
Siamo dunque nuovamente in Consiglio. Con l’obiettivo di contribuire a rendere l’Istituzione all’altezza del suo mandato di tutela dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura; con l’obiettivo di restituire credibilità a una magistratura che fatica ancora a fare i conti con gli scandali che tutti conoscono; con l’obiettivo di contribuire a costruire un governo autonomo capace di esercitare in modo trasparente e onesto la discrezionalità che è connaturale a qualsiasi esercizio di potere.
Questo primo anno di attività consiliare non ci fa ben sperare.
Si è partiti con la travagliata vicenda della nomina del Vice Presidente: una figura autorevole come Roberto Romboli – componente del CSM che aveva raccolto il maggior consenso in sede parlamentare, con uno spessore scientifico, una storia e una credibilità personale che parlano per lui – è stata sacrificata sull’altare di logiche di schieramento politico che non dovrebbero influenzare le decisioni del governo autonomo. Logiche di schieramento fortemente incentivate dal contegno dei componenti laici, con il sostanziale aiuto di una precisa parte della componente togata.
Da quel punto, si è progressivamente registrato – nell’attività del CSM – il consolidarsi di una sorta di “maggioranza” consiliare, con alcune componenti della magistratura (Magistratura indipendente, soprattutto) quasi sistematicamente “in linea” con le scelte della componente laica espressa dal centro destra. Tutto legittimo, per carità.
Si tratta di una “maggioranza” – quella che abbiamo ora evocato – che sembra però faticare a superare certe logiche: la tutela corporativa, il privilegiare le logiche di appartenenza, il tentativo di “normalizzare” la magistratura. Qualche esempio.
A inizio consiliatura, abbiamo richiesto – incontrando il consenso anche di altri consiglieri che si sono fatti promotori dell’iniziativa in sede istituzionale – di dare priorità alla trattazione delle pratiche di conferma quadriennale di alcuni magistrati con funzioni direttive e semidirettive che, nel corso del quadriennio di esercizio delle funzioni, avevano fatto emergere qualche criticità (le c.d. “conferme problematiche”). Alcune di queste pratiche problematiche riproponevano all’attenzione le questioni sollevate dalle note chat di Palamara. Il CSM non ha aderito a questa nostra richiesta, ma ha comunque impresso un’accelerazione all’esame delle conferme problematiche.
Ne conosciamo l’esito. Tutte le pratiche di conferma sinora esaminate non hanno determinato la non conferma del magistrato con funzioni direttive o semidirettive. Solo in un caso (e non per caso, ci permettiamo di dire) abbiamo registrato – con sgomento – una non conferma: quella di Emilio Sirianni, “reo” di avere parlato al telefono e di essere stato solidale e vicino ad un suo amico (Mimmo Lucano), indagato davanti ad un’autorità giudiziaria di un altro distretto; fatto che – ad onta degli esiti dei vari procedimenti cui Emilio Sirianni è stato sottoposto [procedimento penale: archiviato; procedimento disciplinare: assolto; procedimento per incompatibilità ambientale: non sussistente] – ha portato il Consiglio a ritenere che non dovesse essere confermato nell’esercizio delle funzioni semidirettive da lui esercitate. Solo una settimana dopo il CSM – ancora una volta con una consolidata saldatura tra laici e Magistratura indipendente – ha ritenuto che non vi fossero motivi ostativi alla conferma di dirigenti che presentavano profili di criticità ben più problematici (come quelli di chi discorreva di spartizioni di posti negli uffici giudiziari del proprio distretto). E nelle settimane successive sono arrivate altre indicazioni coerenti con questo trend…
Un singolare strabismo che ci fa temere che attraverso determinate “leve” (disciplinare, valutazioni di professionalità, conferme) si intenda veicolare un messaggio di “normalizzazione” della magistratura.
Non solo. Si è detto della fatica ad abbandonare le “logiche di appartenenza”. Anche qui ci sembra di dover registrare come – per alcune nomine di determinati uffici giudiziari – vi sia la tendenza a formare maggioranze consolidate; non solo: si registra anche una disinvolta flessibilità nel cambiare idea, pur di “far quadrare i conti”.
Così può capitare che chi ha votato un certo candidato per un certo ufficio giudiziario (ad esempio: Procuratore generale a Bologna), poi non lo sostenga per un altro ufficio giudiziario (Procuratore della Repubblica di Firenze); e può capitare che chi non ha votato per un certo candidato per un certo posto (Procuratore generale a Bologna), poi si ricreda e lo sostenga per un altro posto (Procuratore della Repubblica di Firenze); e può anche capitare che chi non ha votato per un terzo candidato per un certo posto (Procuratore della Repubblica di Firenze) lo sostenga poi con convinzione solo la settimana dopo per altrettanto prestigioso ufficio (Procuratore generale a Firenze).
E può capitare che tutti questi cambi di opinione e di maggioranze finiscano con il far quadrare magicamente i conti: sempre su uffici giudiziari cruciali per il Paese e che – secondo la vulgata e i retroscena politici – è necessario “normalizzare”. Uffici giudiziari – Procura di Firenze, Procura di Milano, Procura di Napoli – sui quali non si può non registrare come dato non casuale il consolidarsi di una maggioranza che sta diventando una costante di questa consiliatura.
Si è detto di alcuni casi in cui maggioranze consolidate e tentativi di “normalizzazione” di singoli magistrati sembrano trovare sponda all’interno del Consiglio superiore.
Ma registriamo con ancora maggiore preoccupazione l’incapacità di una significativa parte del Consiglio superiore e della componente togata (quella di maggioranza relativa) di attivarsi senza tentennamenti, in modo pronto ed efficace, per adottare iniziative a tutela dell’indipendenza della giurisdizione da indebite invasioni di campo cui ci sta abituando sempre più spesso una parte della politica: è sufficiente ricordare la timidezza del Consiglio superiore a fronte della vicenda Apostolico; il silenzio serbato sulle aggressioni mediatiche a magistrati come Roberto Riverso, Silvia Albano, Luca Minniti.
Anche in questo caso, una parte della componente togata – Magistratura indipendente – ha preferito il silenzio dell’istituzione deputata a tutelare l’indipendenza della magistratura, in nome del rassicurante mantra del «noi non facciamo politica». Il problema è che questo mantra è rassicurante per altri. Ma non per la magistratura italiana e, dunque, non per i consociati che deve potere confidare nell’esistenza di una magistratura autenticamente autonoma e indipendente.
In questi prossimi mesi, il Consiglio superiore sarà chiamato a grandi sforzi.
Uno sforzo di efficienza, per risolvere il problema – già in corso di soluzione – del superamento dell’arretrato nella gestione del governo autonomo.
Uno sforzo di cultura organizzativa, nell’elaborare le nuove circolari sugli Uffici requirenti e giudicanti, con l’obiettivo di trovare un punto di equilibrio tra ragioni di efficienza e necessità di scongiurare derive gerarchiche mortificanti per l’autonomia dei magistrati.
Uno sforzo di elaborazione politico-istituzionale, in una stagione di grandi cambiamenti in atto, con una riforma costituzionale in fase avanzata di discussione. Una riforma che può modificare in modo significativo l’assetto, l’equilibrio e i rapporti tra i poteri dello Stato.
In tutti questi snodi, Magistratura democratica non farà mancare la sua voce, portando dentro il Consiglio superiore i frutti di un’elaborazione che immaginiamo sempre più dover essere collettiva e coinvolgente tutta la comunità di Magistratura democratica.
La magistratura e l’associazionismo giudiziario: prove di futuro
La magistratura sta cambiando ed anche le forme dell’associazionismo dovranno farlo, in modo che ancora non ci è troppo chiaro.
Le modalità di gestione da remoto del lavoro, specie nel settore civile, stanno mutando lo stesso modo di relazionarsi tra i magistrati e nei rapporti con l’utenza, insinuando profili alienanti di burocratizzazione del lavoro. I carichi di lavoro, talvolta imponenti ed intollerabili, e il timore per un disciplinare ottusamente praticato, quale leva dell’efficientismo, sono ulteriori elementi che accentuano questa deriva. I sistemi di controllo dell’efficienza produttiva dei singoli Uffici e l’utilizzo di tale parametro quale misura della qualità del dirigente dell’Ufficio e dei semi-direttivi che con questi collaborano, sta inquinando i rapporti relazionali anche negli uffici giudicanti, omologandoli allo schema gerarchico schiettamente caratterizzante quelli requirenti. In questi, infatti, il rapporto di gerarchia ha trasceso la sua genesi giustificativa che riposa sulla verifica da parte del dirigente circa l’esercizio omogeneo dell’azione penale e cautelare, all’interno di un Ufficio, quale riflesso sostanziale della parità dei cittadini davanti alla legge. Sempre di più il dirigente degli uffici requirenti si percepisce quale gerente anche delle scelte che caratterizzano la discrezionalità investigativa di ciascun pubblico ministero. La deviazione in senso verticale dei rapporti orizzontali (di ispirazione costituzionale) interni alla magistratura, l’opprimente carico di lavoro e la frustrante sensazione di inefficienza sistematica della giurisdizione, allontanano sempre più magistrati dall’esercizio concreto della giurisdizione, stimolandoli a coltivare le ambizioni di carriera quale via fuga. Raggiunto l’incarico semi-direttivo o direttivo il magistrato programma e realizza una carriera parallela in questi incarichi che costituisce un aggiramento al principio di temporaneità in queste funzioni.
A ciò si aggiunga l’inefficienza del sistema delle verifiche quadriennali, ben espressa dalle recenti conferme problematiche, da parte del CSM, giunte solo dopo le sollecitazioni di alcuni consiglieri. Ne è conseguita la conferma di quasi tutti i direttivi e semi-direttivi in valutazione e persino la loro nomina in ulteriori incarichi omogenei, nonostante gravi sintomi di difettosa gestione dei rapporti personali che li avevano condotti a quell’incarico; sicché, uno dei pochi a non essere confermato – come già detto – è stato Emilio Sirianni, responsabile di conversazioni private con Mimmo Lucano, ma forse e soprattutto di essere iscritto a Magistratura democratica, il gruppo che aveva sollecitato l’esito di quelle conferme problematiche a lungo accantonate.
Questo concentrato di aspettative produttivistiche, di alterazione nei rapporti tra i magistrati e di quelli tra ciascuno di loro e la rispettiva organizzazione lavorativa, sono all’origine della stanchezza che tanti confessano di sperimentare nel portare avanti le attività quotidiane, al punto da far pensare che sia divenuta quasi una condizione cronica. Non si tratta, infatti, della sensazione positiva ed entusiasmante che si genera quando ci si impegna per realizzare qualcosa di autentico e significativo per sé e per gli altri, ma la percezione di essere prigionieri di un sogno che, frustrato nella sua ambizione di essere interpreti della complessità giurisdizionale, si è trasformato nell’incubo dell’efficienza produttivistica, delle grette ambizioni di carriera, della monotonia burocratica.
Ecco perché, come già diffusamente accennato, siamo preoccupati per gli inviti alla prudenza interpretativa rivolti dall’interno e dall’esterno della magistratura. Questi, infatti, impattano su una magistratura stanca, affannata e frustrata e si trasformano, di fatto, in inviti alla pigrizia culturale ed interpretativa, alla replica di meccanismi decisionali già noti. Sono inviti rivolti da chi sa bene che interrogarsi sulla compatibilità costituzionale delle norme e sulla loro coerenza con i principi sovranazionali richiede un grande dispendio di energie; sicché, il singolo magistrato non farà la fatica di mettere a disposizione queste energie a servizio giustizia che è chiamato a garantire, se non percepirà che i suoi sforzi non sono sprecati, perché sono indirizzati verso qualcosa di vivo.
È per questo che è la vitalità del diritto, la sua capacità di interrogare e mettere in discussione gli approdi noti, la sua natura progressivamente emancipatrice dei diritti più deboli e dei più deboli, in conformità agli articoli 2 e 3 della Costituzione, a dover costituire la spinta innovatrice e la prospettiva di senso della politica giudiziaria praticata da Magistratura democratica.
Lo dobbiamo tuttavia fare con spirito di curiosità e apertura, nella consapevolezza che non siamo solo noi i depositari e gli animatori di questa vitalità, ma che questa percorre tutta la magistratura: che è in cerca di interpreti che le diano spazi e luoghi di confronto, senza che sia troppo importante quale sia sigla, il marchio sotto il quale questo avviene.
Tra gli spunti più interessanti sul tema, vi sono state: le ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale da parte dei Tribunali di Roma e Ravenna in materia di licenziamenti; le progressive interpretazioni proposte dalla Procura della Repubblica di Milano in tema di amministrazione e controllo giudiziario (art. 34 e 34-bis D.L.vo n. 159 del 2011), con implicazioni rilevantissime sui concreti trattamenti retributivi e sui diritti di migliaia di lavoratori; il progressivo migliore bilanciamento tra diritti di sicurezza pubblica e diritti dei singoli detenuti di cui si è fatta carico larga parte della magistratura di sorveglianza; gli interventi dei magistrati dedicati alla protezione internazionale in materia di migranti; la capacità di molti Uffici di Procura di cogliere le dimensioni sistemiche della depredazione della finanza pubblica, coltivata attraverso ripetuti e solo apparentemente insignificanti micro-fallimenti di “cartiere”, funzionali ad abbassare il costo di produzione di servizi esternalizzati da imprese di dimensione internazionale. Si tratta di concrete esperienze che esprimono bene l’attuale vitalità di un potere diffuso in capo ai singoli magistrati, non sottoposto a verifiche gerarchiche e resiliente ad orientamenti culturali depressivi, che dobbiamo riuscire a fare diventare patrimonio comune di una magistratura che non intenda cedere alla deriva burocratica.
E dobbiamo farlo nonostante la stanchezza che affligge la magistratura, che, unita alla pessima gestione della crisi conseguente al c.d. caso Palamara, ha sfiancato la partecipazione associativa e lo stesso modo dei gruppi associati di modulare la loro proposta politica.
La sensazione è di procedere replicando automatismi ereditati e ritenuti ancora validi, con una progressiva sterilità nella capacità di leggere la realtà, interpretare il presente, immaginare prospettive di futuro. Nelle proposte di alcuni gruppi si percepisce l’idea di assegnare ad un nucleo di selezionati ottimati le scelte del futuro, secondo un metodo che non stimola una partecipazione dal basso consapevole e informata, ma ne sfrutta la distratta percezione del dibattito associativo, per orientarla sulla base di autorevolezze personali, fascino e/o timore del potere posto a tutela delle aspettative del singolo ovvero delle sue ambizioni di carriera.
In questo contesto, lo sforzo di quelli che si impegnano genuinamente ed intensamente nell’associazionismo giudiziario, proponendo idee e soluzioni innovative, rischia di andare sprecato se non si ricostituisce un sentimento comune nel quale tutta la magistratura possa riconoscersi.
Da qui il senso di vecchio e di immobilità che si respira e che, inevitabilmente, conduce a una presa di distanza, a una sorta di indifferenza, a un calo della partecipazione e dell’impegno. Tuttavia, questa condizione non è ineluttabile ed è palpabile il desiderio di liberarsi da questa percezione di stagnazione, impegnandosi su percorsi nuovi da esplorare, nonostante gli ostacoli, gli inciampi e le fatiche quotidiane del lavoro. Ne sono un esempio: i documenti delle sotto-sezioni ANM di Busto Arsizio e di Nola che hanno provocato l’assemblea generale dell’associazione all’indomani della riforma Cartabia dell’ordinamento giudiziario; l’assemblea ANM di Milano, partecipata da remoto da moltissimi magistrati di altri distretti, in seguito all'esercizio dell'azione disciplinare da parte del ministro della Giustizia, nei confronti dei giudici della Corte d'appello di Milano, nel caso dell'imprenditore russo Artem Uss; le assemblee ed i documenti delle giunte distrettuali ANM in esito all’aggressione mediatica subita da Iolanda Apostolico. E se gli esempi citati possono apparire come reazioni estemporanee a specifiche vicende, non inquadrabili in un bisogno rigenerativo che si agita sotto la superficie apparentemente immobile dell’associazionismo giudiziario, l’elezione al CSM di Roberto Fontana, insieme alla vivacità dei contributi e delle riflessioni degli affollati luoghi di discussione da lui organizzati, sono un concreto segno che c’è bisogno di rinnovare gli schemi di partecipazione noti.
Due anni di Magistratura democratica
La conclusione di un biennio di responsabilità alla dirigenza del gruppo comporta anche la necessità di dare conto alla comunità di Magistratura democratica delle cose che si è provato a “fare”; nella consapevolezza dei nostri limiti, ma anche con la voglia di andare oltre.
Diverse sono state – nel corso di questi due anni – le iniziative di confronto e riflessione che abbiamo provato a mettere in cantiere.
Si tratta di iniziative che hanno tentato di essere fedeli a tre linee di fondo: attenzione alla tutela dei diritti e degli equilibri istituzionali; ancoraggio al carattere pratico – e non teorico – del nostro impegno professionale e associativo; apertura al confronto con gli attori sociali che popolano la vita giudiziaria e politica del Paese.
Nel convegno “Un mare di vergogna” [Reggio Calabria 1-2 ottobre 2021], organizzato insieme all’ASGI, Magistratura democratica ha sviluppato una riflessione che – senza perdere la dimensione giuridica del fenomeno – ha avuto il coraggio di confrontarsi con la viva esperienza di chi, come gli operatori umanitari delle ONG, si trovava sulla frontiera dell’Europa e dei diritti, a tutela della vita e dei diritti delle persone.
In due convegni, poi – grazie all’opera instancabile del “gruppo lavoro” – ci siamo interrogati su questioni che, purtroppo, non perdono mai d’attualità: il convegno su “Lavoro povero e salario minimo” [organizzato a Roma, con l’associazione “Comma 2” il 25 marzo 2022]; il convegno “Lavoro e impresa: confini e conflitti” [organizzato a Bologna, con l’associazione “Comma 2” e con la Rivista di Sociologia del lavoro il 5 giugno 2023].
La nostra riflessione non poteva, poi, trascurare i temi della marginalità penale; abbiamo, dunque, organizzato un seminario – aperto anche ai non iscritti al gruppo e partecipato anche da avvocati – sui temi della “Gestione dell’infermità psichica nel procedimento penale” [via Teams, 30 marzo 2022]; quindi – in collaborazione con le Camere penali, con l’associazione Antigone e con le Autorità locali garanti dei detenuti e delle persone private della libertà personale – abbiamo promosso, grazie alla disponibilità dell’amministrazione penitenziaria, tre visite presso le case circondariali di Firenze, Napoli e Torino [tra l’autunno 2022 e l’estate 2023]. È stata di un’esperienza di grande impatto, giacché si tratta di strutture detentive con gravissimi problemi strutturali, frequentando i quali nettissima è la sensazione che accanto alla pena ordinaria il detenuto sia costretto a subire un surplus di afflizione derivante dalle citate problematiche strutturali.
Ci siamo, poi, accostati ai temi che coinvolgono l’organizzazione della giurisdizione, sempre più consapevoli che questa ha un impatto immediato sulla capacità dei magistrati di rispondente efficientemente alla domanda di giustizia, senza per questo tradursi in gretti produttori di provvedimenti.
In proposito, abbiamo organizzato un seminario – aperto anche a non iscritti – sull’Ufficio per il processo [via Teams, 11 febbraio 2022] e un altro in cui ci siamo interrogati sui possibili scenari che interessano le Procure della Repubblica, nell’eterna dialettica tra orizzontalità e indipendenza interna e razionalità organizzativa, nella cornice della recente riforma dell’ordinamento giudiziario e nella prospettiva di ragionare sulla “nuova” circolare sull’organizzazione degli uffici di Procura [“Verso una nuova circolare del CSM sugli uffici di Procura”, Roma, 10 giugno 2023].
Il tema delle recenti riforme – civili e penali – è stato poi inevitabilmente al centro della riflessione di Magistratura democratica. Abbiamo, così, organizzato seminari di confronto e studio sulla riforma civile (sette incontri telematici, organizzati da Magistratura democratica con importanti esponenti dell’Accademia e del Foro, con livelli di partecipazione estremamente elevati) e sulla riforma penale (sette incontri, organizzati da Magistratura democratica, con esponenti della magistratura e con l’Organismo congressuale forense).
La riflessione del gruppo non si è però legata solo al contingente.
L’organizzazione del Convegno in memoria di Salvatore Senese è stata un’occasione importante per fare memoria delle ragioni costitutive del nostro stare insieme e per rinnovarne lo spirito e la tensione ideale [“Attualità di un’eresia: ricordo di Salvatore Senese”, Roma, 15 aprile 2023].
Sempre nello spirito di coltivare una memoria che non sia spazio nostalgico, ma autentica percezione di sé, al fine di guardare con migliore consapevolezza alle sfide del futuro, abbiamo ripreso - insieme ad ISTORETO ed alla preziosa collaborazione di Francesco Campobello, Francesco Gianfrotta e Luigi Marini - l’attività d’inventario del materiale archivistico di Magistratura democratica (collezione delle riviste Quale Giustizia e Questione Giustizia, pubblicazioni, appunti, ciclostili, manifesti, articoli, bollettini prodotti dagli anni ’60 in poi), per la loro successiva pubblicazione in un catalogo indicizzato e consultabile on-line.
L’organizzazione del convegno “Intelligenza artificiale, giustizia e diritti umani” è stata invece l’occasione per interrogarsi su un futuro che sempre più si fa presente: per non giungere agli appuntamenti con la storia senza aver provato a meditare le implicazioni dell’innovazione tecnologica sul piano dell’organizzazione e dei diritti [convegno “Intelligenza artificiale, giustizia e diritti umani”, (con Fondazione Forense e Università di Padova), Padova, 20 settembre 2022].
Altri eventi sono stati organizzati da alcune sezioni locali che, ostinatamente, continuano a farsi motori di un’attenzione al mondo dei diritti e della giustizia.
Con il rischio di trascurarne alcune, ricordiamo un incontro organizzato in Veneto sul diritto dell’immigrazione; un incontro milanese sui temi della precarietà e le ricadute che essa ha sul processo penale; un altro incontro milanese sui temi della terzietà e imparzialità della giurisdizione; un incontro a Napoli sul tema del lavoro sicuro, dignitoso, paritario; la visita della sezione di Magistratura di Reggio Calabria al campo di San Ferdinando; il convegno su garanzie e maxi-processi (sempre organizzato dalla sezione di Magistratura di Reggio Calabria Reggio Calabria con la locale Unione delle Camere Penali).
Queste esperienze dicono quanto Magistratura democratica sia capace di elaborazione e di “presenza” sui temi dell’attualità; ci dicono anche che questa capacità di elaborazione e di presenza si nutre di un pensiero che arriva da lontano e che ha, anche, l’ambizione di guardare lontano.
La nostra attività in questo biennio ci ha confermato che, per ragionare di diritto e di giustizia, è fondamentale alimentarsi dal confronto con esperienze diverse dalla nostra: la costante ricerca di sinergie organizzative con associazioni, avvocatura e accademia, rappresenta, infatti, la cifra di sintesi del nostro alacre operare.
Queste esperienze, però, ci dicono anche che esse hanno bisogno di energie e impegno. Energie e impegno che ciascuno di noi è chiamato ad offrire per mantenere viva l’esperienza di Magistratura democratica.
Appunti sparsi tra giurisdizione e diritti
Intelligenza artificiale e giustizia predittiva
I benefici dell’innovazione digitale nella giustizia italiana sono innegabili, ma i loro effetti non sono neutri e, anzi, possono impattare in modo significativo sulla capacità della magistratura di garantire un progressivo affinamento nella tutela dei diritti, piuttosto che essere un fattore di conservazione del loro attuale contemperamento.
Tuttavia, la progressiva trasformazione del linguaggio in flusso di dati non è un’opzione da poter scartare, ma un fenomeno sociale con il quale occorre confrontarsi per articolare un ragionamento che ne faccia un buon uso, secondo i principi della Costituzione. Il limite oltre cui non può spingersi la giustizia predittiva è la frantumazione del contesto umano della giustizia (linguaggio, relazioni, parole, emozioni), per limitarne la capacità di mediazione e pacificazione propria del processo. Il principio del giusto processo e dell’obbligo di motivazione delle decisioni richiede che sia trasparente il modo di selezione dei dati, il sistema della loro elaborazione per poterne garantire la contestazione in contraddittorio.
Va, invece, controllata e limitata la tendenza all’automazione delle decisioni algoritmiche nel giudizio perché queste, agendo secondo un modello conservativo, creano performatività e rischiano di sostituire giudice e processo, negando spazio all’interpretazione, al conflitto tra le parti e al dissenso.
In questo scenario, è dunque indispensabile che l’innesto della tecnologia si muova in una direzione compatibile con quella tracciata dalla Carta costituzionale.
Ci limitiamo ad enumerare alcune delle cautele che ci sembra indispensabile utilizzare, per evitare che gli equilibri costituzionale possano essere stravolti.
a) il risultato fornito dagli algoritmi predittivi è necessariamente influenzato dalla qualità dei dati che vengono posti come input; ne discende che è indispensabile prevedere meccanismi che assicurino: (a.1) la qualità del dato; (a.2) l’indipendenza della fonte da cui provengono i dati; (a.3) l’indipendenza dell’autorità che raccoglie i dati; (a.4) l’accessibilità a tutti dei dati posti come input dell’algoritmo;
b) è necessario scongiurare il rischio che l’algoritmo – ove usato come strumento di supporto alla decisione – possa avere un esito discriminatorio fondato su dati personali sensibili, tra cui la razza e l’estrazione sociale; si tratta, cioè, di scongiurare l’introduzione nel sistema giudiziario di bias che assumerebbero un impatto sistemico e non sarebbero legati al singolo organo giudiziario;
c) è dunque indispensabile assicurare la verificabilità o meno della struttura dell’algoritmo; un algoritmo ha una sua struttura che non è neutra; nel concepire l’architettura di un algoritmo, il programmatore fa delle scelte che, necessariamente, influenzano il risultato dell’operazione computazionale; il programmatore può fare degli errori di progettazione; un algoritmo la cui struttura sia protetta da diritti di proprietà intellettuale e non open source è sottratto alla possibilità di controllo, verifica e confutazione da parte della parte processuale e, più in generale, della comunità degli utenti; ciò comporta non pochi problemi, tanto sotto il profilo della validazione dell’affidabilità scientifica del risultato che l’algoritmo restituisce, quanto sotto il profilo del diritto di difesa; si ritiene, pertanto, indispensabile che – laddove si voglia davvero fare un uso processuale di algoritmi predittivi da parte del sistema giudiziario (che è un sistema per sua natura pubblico) – nessun segreto possa essere posto sull’architettura degli algoritmi e dei dati che lo alimentano;
d) si deve poi elaborare un meccanismo che assicuri anche l’indipendenza di chi ha elaborato l’algoritmo; in questo senso, è indispensabile che sia assicurato il controllo del Consiglio superiore della Magistratura sulla designazione dei tecnici che si occupano del potenziamento digitale del settore giustizia, sull’introduzione di software e tools di supporto alla giurisdizione, sulla costituzione e sull’uso di banche dati (che senso ha costituzionalizzare l’indipendenza del giudice e la sua soggezione solo alla legge se non si coltiva analoga pretesa a chi si occupa delle medesime cose da un punto di vista tecnologico?)
e) l’algoritmo – anche ove usato non come strumento decisorio esclusivo, ma come mero supporto alla decisione del giudice – richiede formazione; è dunque indispensabile formare il personale giudiziario che potrebbe doversene avvalersene; anche per introdurre in tutti gli operatori la consapevolezza del fatto che il giudizio è operazione essenzialmente umana e che la tentazione del soluzionismo digitale potrebbe determinare una deresponsabilizzazione del giudice, spingendolo ad adeguarsi ai precedenti, senza riconoscere che – quello a lui sottoposto – è un caso diverso che solo la sensibilità umana riesce a cogliere nel suo senso e valore; si tratta di un esito che determinerebbe una cristallizzazione della giurisprudenza, rendendola meno sensibile ai cambiamenti sociali (e, di fatto, rendendoli meno probabili). E la formazione – giuridica, tecnica, sociale e deontologica – del magistrato ci sembra indispensabile per cogliere questi nuovi rischi.
Migranti e diritti
Il tema dell’immigrazione è divenuto uno dei banchi di prova sui quali si sta giocando la tenuta stessa dello stato di diritto e dell’indipendenza della giurisdizione.
La stampa ha riportato la volontà del Governo di spostare la competenza dalle sezioni specializzate in materia di immigrazione ai giudici di pace, giacché i giudici ordinari non darebbero sufficienti garanzie di terzietà. Il fondamento giustificativo della proposta è quella di aggirare un’elaborazione interpretativa sgradita, sottraendo la competenza ai Tribunali ordinari, per affidarla a giudici che godono di più limitate guarentigie della loro indipendenza. Si palesa, quindi, un’evidente insofferenza ad ogni controllo di legalità, anzi, la rottura della stessa legalità costituzionale.
La materia della protezione internazionale, infatti, è complessa perché, riguardando i diritti fondamentali della persona, è regolata da fonti europee multilivello che si innestano su una normativa interna la cui progressiva stratificazione è turbata dagli strappi indotti dalle ripetute modifiche dettate dall’emozione del momento. Questo ha determinato la necessaria specializzazione dei giudici che se ne occupano, con competenze e formazione (obbligatoria) specifiche e con la necessità di avvalersi di saperi multidisciplinari. Ed infatti, le sezioni dei Tribunali che curano la protezione internazionale dei migranti si sono organizzate avvalendosi della presenza nei tribunali degli operatori dell’Agenzia dell’Unione Europea per l’Asilo e dell’Unhcr. I giudici specializzati hanno affrontato un contenzioso in continuo aumento, riuscendo a dare una risposta di giustizia efficiente e di qualità, grazie a progetti organizzativi adeguati al contenzioso da affrontare, garantiti dal CSM. Per questo è incomprensibile - se non intendendola quale manifestazione di intolleranza verso un giudice libero ed indipendente - la proposta di smantellare il sistema organizzativo e di competenze, maturato in questo delicato settore del diritto.
Da quando il nuovo Governo si è insediato abbiamo assistito a una proliferazione della decretazione d’urgenza in questa materia, accompagnata da una campagna mediatica tesa ad avallare l’idea che fosse necessario contrastare “l’invasione” dei migranti e che quindi occorresse far fronte a una vera e propria emergenza.
Nello scorso aprile il Governo italiano aveva annunciato lo “stato di emergenza su tutto il territorio nazionale per fronteggiare l’eccezionale incremento dei flussi di persone migranti” che avrebbero messo a dura prova il nostro sistema di accoglienza. In realtà c’è stata una riduzione generalizzata dei posti nell’accoglienza in Italia, specie nei centri di piccole dimensioni. Nonostante il D.L.vo n. 142 del 2015 abbia recepito la direttiva europea sull’accoglienza, con l’obbligo per il nostro Paese di adottare piani di programmazione dell’integrazione e dell’accoglienza dei migranti, consultando anche le associazioni del terzo settore, nessun Governo vi ha dato seguito. In conseguenza, siamo il Paese europeo che, in rapporto alla popolazione, li accoglie in minor numero.
In verità, lo stato di emergenza è una misura “permanente” che ha caratterizzato gli ultimi venticinque anni nella gestione del fenomeno migratorio nel nostro Paese. È del tutto evidente, invece, che la migrazione sia un fenomeno strutturale, integrato nella storia dell’umanità, che come tale va gestito, sapendo che può essere una risorsa per lo sviluppo, garantito da politiche di sicurezza, diverse da quelle che individuano nell’esasperazione della repressione penale lo strumento di sedazione delle paure sociali.
La storia ci sta insegnando, ove ce ne fosse stato bisogno, che gli esodi generati da profonde diseguaglianze economiche, squilibri strutturali di beni e servizi, guerre e carestie, non possono essere fermati con divieti e sanzioni e con il restringimento degli spazi di soggiorno regolare. Questi, invece, servono solo ad alimentare lo sfruttamento lavorativo dei migranti o il loro reclutamento da parte di gruppi criminali. A fronte dell’impossibilità oggettiva di rimpatriare tutti i migranti, queste scelte politiche finiscono per alimentare la marginalità sociale generatrice di una diffusa percezione d’insicurezza dei cittadini, ipnotizzati dall’ipertrofia di norme penali.
La riforma del sistema di accoglienza - con la riduzione drastica dell’accoglienza diffusa gestita dagli enti locali e il potenziamento dei grandi centri gestiti dalle prefetture ove si diminuiscono drasticamente i servizi offerti sono il preoccupante - è il sintomo di un volontà politica contraria ad agevolare forme di integrazione sociale e lavorativa dei richiedenti asilo. Invece di attuare una seria programmazione per gestire il fenomeno migratorio e trasformarlo in una risorsa per il nostro Paese, si attuano politiche disumane attraverso un susseguirsi di decreti legge, utilizzati al di là dei presupposti costituzionali, che stridono con la normativa sovranazionale e con la stessa Costituzione italiana.
L’attuale maggioranza parlamentare ha posto in essere azioni volte a rendere sempre più oneroso e complesso l’ingresso sul territorio nazionale, attraverso norme e disposizioni che, nell’intenzione del Legislatore, avrebbero dovuto avere un effetto dissuasivo sulle intenzioni dei migranti di accedere in Europa dal nostro Paese. L’aumentato numero degli sbarchi ha drammaticamente smentito questa previsione.
In questa linea politica, vanno intesi il boicottaggio dell’azione di salvataggio svolta nel Mediterraneo dalle navi ONG; perseguita sia attraverso i fermi amministrativi previsti dal decreto “Piantedosi”, sia attraverso le lunghe rotte imposte per fare sbarcare i migranti, inclusi gli sbarchi in Libia, nonostante sia acclarato che questo Paese non possa essere definito un “porto sicuro”, secondo la legislazione internazionale. Contemporaneamente, si sono ristretti:
a) il campo di applicazione della protezione speciale, escludendola per le persone che in Italia avevano costruito una vita privata e familiare, in violazione del dovere di rispettare l’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti Umani e l’art 7 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea secondo la declinazione fattane dalla giurisprudenza delle Corti.
b) la possibilità per i richiedenti asilo di far valere il proprio diritto fondamentale, attraverso l’estensione delle procedure accelerate, con termini inidonei a garantire l’effettività del diritto di difesa e del diritto a un ricorso effettivo; mentre si allargano le ipotesi di trattenimento dei richiedenti asilo, in contrasto con la direttiva europea, che prevede che il trattenimento sia l’extrema ratio cui ricorrere in mancanza di misure alternative.
In conseguenza si aumenta il numero di migranti in condizione irregolare sul territorio, nonostante costoro lavorino con contratti regolari, abbiano una stabile abitazione, presso la quale, spesso hanno trasferito la famiglia.
A fronte di ciò non si attivano canali legali di ingresso. L’aumento delle quote di ingresso di chi ha già un’offerta di lavoro in Italia, infatti, non sembra centrare l’obiettivo. Le quote di ingresso in questi anni non hanno funzionato, non solo perché stabilite in misura infima rispetto alle reali esigenze e perché recanti una procedura di attivazione particolarmente complessa (nonostante le semplificazioni introdotte dall’art 2 del decreto legge n. 20 del 2023), ma soprattutto perché pochissimi sono i datori di lavoro disposti a reclutare una persona sconosciuta che vive all’estero, le cui capacità lavorative non hanno la possibilità di sperimentare preventivamente.
Anche solo immaginare, infine, che il traffico di esseri umani si combatta con l’innalzamento esorbitante delle pene per i c.d. scafisti, è solo un’illusione che alimenta il mito del panpenalismo, al fine di anestetizzare le paure sociali e tacitare le coscienze, individuando un nemico da combattere, anzi da abbattere.
La tecnica legislativa, poi, lascia – ancora un volta – molto a desiderare. La previsione penale, infatti, è strutturata con una formula così ampia e indeterminata che pone seri problemi di aderenza ai principi costituzionali, autorizzando interpretazioni che potrebbero estenderne l’applicazione anche a chi interviene per garantire aiuti umanitari. Applicare tale fattispecie di reato a chi “dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato” pone sullo stesso piano condotte profondamente diverse tra loro, con una pena edittale minima elevatissima.
Anche l’individuazione del nemico da abbattere con la sanzione penale è frutto di strabismo. L’esperienza dei processi penali celebrati contro i c.d. “scafisti” ci insegna, infatti, che chi si assume il rischio di condurre l’imbarcazione che ospita i migranti è di regola una persona altrettanto vulnerabile, alla quale si affida il timone in cambio della gratuità del viaggio o altri modesti vantaggi. Insomma: il più povero tra poveri, non certo il gestore del traffico e neppure un tassello della criminalità organizzata transnazionale che organizza il traffico di esseri umani. Per i timonieri degli scafi la pena prevista dall’art 12 del D.lvo n. 286 del 1998 (TUI) è già oggi elevatissima; se, per come è usuale, le persone trasportate sono più di cinque, la pena prevista va da cinque a quindici anni. Non erano necessarie, perciò, né inasprimenti delle pene, né nuove fattispecie di reato che non servono a garantire maggiore sicurezza sociale e non tutelano meglio - neppure indirettamente - la vita delle persone che attraversano il mare cercando una prospettiva dignitosa di futuro.
Il conflitto di diritti ed aspettative nel mondo del lavoro
Il diritto del lavoro e la giurisprudenza del lavoro sono oggi l’ambito che più si presta a una chiara lettura delle direttrici assunte dalle moderne dinamiche economico-sociali, consentendo di decodificarne il significato, specie quello del rapporto tra giurisdizione e politica.
Dopo il sopravvento delle ideologie neoliberiste di von Mises, von Hayek e della scuola di Chicago, che negli anni ’80 le ha portate alle estreme conseguenze, applicando alla macroeconomia criteri aziendalistici di massimizzazione del profitto e proponendoli come garanzia del perfetto funzionamento dell’economia di mercato, si è cercato di tradurre questi criteri in principi di diritto. Si sono sostenuti interventi legislativi di liberalizzazione del mercato del lavoro, affermando che avrebbero assicurato il mantenimento dei livelli di occupazione e l’incontro di domande e offerta, ribaltando così la lettura del primo e del secondo comma dell’articolo 41 e degli articoli 4 e 35 della Costituzione, pur restando immutati il testo delle norme, nonché i principi e i valori che le ispiravano.
Si è trattato di una scelta politica e ideologica, i cui fondamenti erano stati già messi in forte dubbio nel 2013 dagli studi di OSCE, FMI e Banca mondiale, che l’avevano nei decenni precedenti sostenuta; studi che avevano evidenziato come la riduzione o eliminazione delle tutele per i lavoratori non erano correlate ai livelli di occupazione, ma a una redistribuzione del reddito a favore dei profitti e delle rendite. In Italia, ciononostante, si è continuato a procedere in quella direzione, creando nella giurisprudenza disorientamento nella ricerca delle linee interpretative delle dinamiche dei rapporti contrattuali da valutare alla luce dei principi costituzionali; soprattutto in presenza di una giurisprudenza di legittimità che di quell’orientamento ha fatto, almeno a tratti, l’espressa, evocata chiave interpretativa di disposizioni fondamentali in materia di licenziamenti ed esternalizzazioni.
È un pensiero economico che si salda con la Law and Economics che vorrebbe ogni aspetto giuridico definibile in termini di costi certi per l’impresa, al fine di consentirle adeguate politiche di bilancio.
Questa impostazione che tutto vuole leggere in termini di utilità economica, non tiene conto dei principi della nostra Carta costituzionale, ispirata a valori non monetizzabili e diretti a tutelare i diritti fondamentali che li esprimono. È una impostazione che, benché continuamente riproposta dal pensiero dominante, è oggi in piena crisi.
In questi ultimi anni la Corte Costituzionale ha messo un freno alle derive neoliberiste sul piano normativo e giurisprudenziale, riaffermando i principi e i valori di cui agli articoli 4, 35 e 41 della Costituzione quali capisaldi dello sviluppo di una organizzazione sociale che pone al centro l’uomo, la sua dignità e il lavoro quale primario titolo di partecipazione alla vita democratica.
È drammaticamente esplosa una questione salariale, con il c.d. lavoro povero, che non garantisce spesso nemmeno i livelli di sussistenza considerati dall’Istat per definire la soglia di povertà. Le dinamiche contrattuali, favorite dai ripetuti interventi normativi di riduzione delle tutele, che lo hanno consentito e che hanno determinato l’intervento di parte della giurisprudenza di merito e del sistema penale, sono giunte all’esame del giudice di legittimità che ha riaffermato che i principi di cui all’articolo 36 della Costituzione, di una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto e di sufficienza per una vita dignitosa, non sono disponibili nemmeno dalle parti sociali e nemmeno da quelle maggiormente rappresentative.
È un richiamo potente alla centralità della giurisdizione quale momento di realizzazione concreta dei valori costituzionali nella singola specificità di ogni rapporto di lavoro per il quale al giudice è chiesta tutela. Ed è bene rimarcarlo: tutela, termine volutamente stravolto per orientare la pubblica opinione, in quello di garanzia, per dividere tra lavoratori garantiti e non garantiti, quando invece la distinzione è tra lavoratori che hanno una qualche tutela e lavoratori che di fatto non ne hanno.
È evidente come tutto questo sottolinei l’intrinseca politicità della funzione giurisdizionale, quando esprime valutazioni comparative tra interessi in conflitto sulla base dei più alti principi a contenuto politico, quello costituzionali. Una politicità che, nell’ultimo ventennio, quando ha avuto un valore positivo, di promozione dei diritti come voluto dalla Costituzione, è stata ed è tutt’oggi rimproverata di essere espressione di uno schieramento di parte. Tuttavia quelle stesse voci hanno taciuto quanto, nel recente passato, quella medesima politicità si è espressa in modo regressivo, attraverso pronunce che hanno ridotto i diritti dei soggetti contrattualmente più deboli e ampliato i margini di libera azione e discrezionalità non sindacabile delle imprese. Una giurisprudenza dotata di un significato, misurato da scelte interpretative orientate in ossequio alla contingente maggioranza politica, giacché elaborata in violazione dei principi fondamentali, come ha ritenuto la Corte costituzionale.
In questi ultimi anni, dunque, con le recenti sentenze della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione in tema di salario minimo costituzionale è stata riaffermata la centralità della giurisdizione.
Non può però essere taciuto che una ripresa di questo ruolo dipende anche dalla riattribuzione al giudice del lavoro del potere di regolare le spese processuali secondo criteri non di stretta soccombenza, considerando la specificità di ogni vicenda portata al suo esame, perché non vi può essere effettività di tutela se il rischio della soccombenza con condanna alle spese a favore del datore di lavoro funziona da potente deterrente in relazione a retribuzioni mensili medie inferiori a quello che è l’importo di una parcella professionale calcolata al minimo e sulle quali non vi sono margini di risparmio (pur non dando possibilità di accedere al gratuito patrocinio). I dati SICID confermano una drastica riduzione del contenzioso del lavoro su tutto il territorio nazionale, significativo di una rinuncia a chiedere la tutela che costituisce il plastico effetto di quella previsione che deve allarmare la capacità del sistema di dare risposte adeguati al bisogno di tutela dei diritti deboli che percorrono l’intero settore del lavoro.
La giustizia civile quale luogo di tutela dei diritti fondamentali
La giustizia civile sta vivendo una fase di profonde trasformazioni che stanno modificando le caratteristiche di questo settore della giurisdizione e anche il modo di operare di giudici ed avvocati.
Dopo l’emergenza Covid-19, il tema della efficienza, già presente da tempo nelle analisi di settore, ha assunto un’assoluta centralità a seguito dell’individuazione degli obiettivi di rendimento, molto stringenti, previsti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).
È largamente condivisa l’idea (che, in origine, era stata proprio dei settori della magistratura più attenti al tema della efficienza) secondo cui la giustizia civile è “una componente essenziale del sistema istituzionale di un’economia, in quanto a essa è affidata la tutela giuridica dell’investimento e dello scambio, i due momenti caratterizzanti dell’attività economica [……] tanto che le inefficienze nell’amministrazione della giustizia hanno effetti quantitativamente rilevanti sull’economia, attraverso molteplici canali”.
È opportuno ribadire, di fronte a una ricorrente narrazione secondo la quale il rendimento della magistratura italiana è inadeguato, che negli ultimi anni, anche grazie ad una serie di misure di tipo legislativo ed organizzativo, vi è stata, nel settore civile, una rilevantissima riduzione dei procedimenti pendenti, passati da 5.700.105 alla fine del 2009 a 2.813.983 al 31 marzo di quest’anno con una flessione di oltre il 50%, nonostante la crescente incidenza dell’alto numero di procedimenti legati alla “protezione internazionale” e, per altro verso, degli accertamenti tecnici preventivi in materia di previdenza. Negli ultimi anni la diminuzione si è assestata sopra il 6% annuo.
Si tratta di un risultato importante che è conseguenza del grande impegno dei magistrati, ma anche della collaborazione di settori del ceto forense, spinta dal modello virtuoso degli “osservatori sulla giustizia civile”.
Tuttavia, qualche considerazione preoccupata deve farsi su alcuni aspetti del processo di cambiamento in atto, accelerato fortemente dalle ultime riforme processuali.
Torna la “eterna illusione” delle riforme processuali come strumento salvifico capace di risolvere il problema della funzionalità del sistema; la “riforma Cartabia” è applicata da troppo poco tempo per poter valutare se le critiche sollevate da più parti sono fondate; il nodo principale resta quello della adeguatezza delle risorse sia di personale che di strumenti informatici (come è apparso evidente dagli immediati miglioramenti che hanno fatto seguito alla assunzione, sia pur a tempo determinato, di addetti all’Ufficio per il processo e addetti ad altre attività di cancelleria).
Ma la giustizia civile non rileva solo per la sua maggiore o minore efficienza; la giustizia civile è il luogo della tutela dei diritti fondamentali ed è importante anche occuparsi della qualità del processo e, più in generale, della qualità della giurisdizione, nel momento in cui la cosiddetta rivoluzione digitale porta a riconoscere nuovi diritti fondamentali ed a configurare nuovi potenziali limiti ai diritti esistenti.
In questo ambito emerge qualche preoccupazione.
L’adozione, durante l’emergenza Covid-19, di nuove modalità di trattazione dei processi attraverso udienze “telematiche” e “cartolari”, poi consacrate dall’introduzione nel codice di procedura civile degli artt. 127-bis e 127-ter c.p.c. comporta un’oggettiva attenuazione del principio di oralità del processo civile.
Se è certamente vero che c’è una fascia numericamente rilevante di processi a carattere seriale e ripetitivo, nei quali non vi sono spazi conciliativi, che trovano un grande vantaggio in una trattazione, come quella cartolare, che consente, alle parti e ai giudici, di risparmiare la limitata risorsa del tempo di udienza è altrettanto vero che i processi più complessi e quelli nei quali, per il tipo di questioni trattate, c’è uno spazio o una convenienza per le parti ad una definizione conciliativa non possono che essere trattati in presenza, anche alla luce della rinnovata funzione che assume la prima udienza nel “nuovo” processo di cognizione introdotto dalla riforma Cartabia.
C’è poi il rischio che lo spostamento del lavoro giudiziario fuori dagli uffici incida negativamente sulla capacità di confronto e di elaborazione collettiva dei magistrati, anche su temi più ampi del solo lavoro giudiziario, che è stimolata ed arricchita dal quotidiano rapporto personale (dove lo stato della edilizia giudiziaria lo consente).
Un secondo profilo problematico attiene alla tendenza, che si vede emergere con forza, a conformarsi sempre, forse comodamente, agli orientamenti della giurisprudenza di legittimità. Se l’omogeneità e la prevedibilità delle decisioni costituiscono certamente un valore importante, c’è, però, il rischio di una omologazione passiva che potrebbe diventare un ostacolo allo sviluppo di nuovi orientamenti giurisprudenziali tanto più necessari in un momento in cui la società ed i rapporti economici ed interpersonali subiscono, come si è visto, a causa di innovazioni tecnologiche e organizzative, profonde modifiche.
L’impatto delle nuove tecnologie sui rapporti sociali, economici e personali richiede non solo paradigmi interpretativi aggiornati ma una continua capacità del diritto e della giurisprudenza di conformarsi alle novità (si pensi, solo per fare un esempio, al tema, sempre più invasivo, dei dati e della loro gestione e dei rapporti telematici); in questo si può trovare oggi il senso della “insopprimibile politicità della giurisdizione e di quella civile in particolare” che ci ricordava Carlo Verardi.
L’Ufficio per il processo
Sotto il profilo organizzativo la novità di questi anni è la stata l’inserimento, sia pur a tempo determinato, negli uffici giudicanti dei funzionari addetti all’Ufficio per il processo.
L’idea di organizzare l’attività giurisdizionale attraverso la struttura dell’Ufficio per il processo è nata quasi venti anni fa da esperienze pratiche realizzate in alcuni uffici giudiziari e dalla elaborazione di gruppi associativi, in particolare di Magistratura Democratica e della magistratura progressista più in generale.
L’Ufficio per il processo non è pensato come un modello fondato sulla assistenza al singolo magistrato, ma come una modalità organizzativa elastica, composta da addetti, personale amministrativo e giudici onorari, capace di conformarsi alle necessità dei singoli uffici e dei singoli settori dell’attività giudiziaria.
Il massiccio inserimento, all’inizio del 2022, di oltre quattromila addetti, ha consentito un innegabile salto di qualità di questo modello che, in precedenza, si era basato unicamente sul contributo dei tirocinanti e dei magistrati onorari, nei casi, assai rari, in cui questi ultimi potevano esservi destinati.
I risultati sono stati certamente positivi, soprattutto in quegli uffici dove l’apporto degli addetti UPP è stato destinato, in via più o meno esclusiva, alla collaborazione all’attività giurisdizionale (studio dei fascicoli, predisposizione di bozze di provvedimenti, controllo della regolarità degli atti, ricerche di giurisprudenza, massimazione e predisposizione degli archivi di giurisprudenza); la realizzazione pratica del modello organizzativo pensato in astratto ha confermato la bontà dell’idea e l’adozione definitiva del modello consentirebbe un ulteriore salto di qualità.
Un assetto stabile dell’Ufficio per il processo è in grado di fare emergere davvero le potenzialità del modello organizzativo, consentendo di investire, in una prospettiva di lungo periodo, non solo sugli apporti in termini di produttività, ma anche su quelli di tipo qualitativo che gli addetti possono offrire.
In questo senso, un auspicio che oggi accomuna larghissima parte della magistratura è non solo la proroga delle assunzioni già in essere e l’immissione di nuovo personale a termine, ma la configurazione di una struttura stabile, nella quale da un lato mantenere l’investimento di formazione già profuso nei confronti degli addetti attualmente in servizio e dall’altro assumere nuovo personale. L’Ufficio per il processo, dunque, come struttura di personale permanente, deputata al supporto alla giurisdizione e in grado di contribuire alla stabilità degli uffici, anche a fronte del turn over dei magistrati. Nella stessa direzione, anche l’estensione del modello ai settori attualmente esclusi (come quello della Magistratura di Sorveglianza) e agli uffici di procura si rivelerebbe fruttuosa.
Anche con riferimento all’Ufficio per il processo, chiaramente, i problemi emersi sono legati alla situazione e alle scelte contingenti: negli uffici dove la gravissima carenza di personale amministrativo ha reso indispensabile l’utilizzazione degli addetti anche (e talvolta soprattutto) per gli adempimenti amministrativi, il supporto all’attività giurisdizionale è stato ridotto e gli effetti sulla attività giudiziaria limitati; il carattere temporaneo del rapporto di lavoro, contestuale a massicce assunzioni nella Pubblica Amministrazione, ha fatto sì che una percentuale molto alta di addetti, dopo il periodo di formazione, abbia lasciato gli uffici giudiziari preferendo, ovviamente, le assunzioni a tempo indeterminato; negli Uffici del Nord ed in alcune realtà periferiche del resto d’Italia non si è potuta realizzare, nemmeno all’inizio, la copertura integrale dei posti in organico ed attualmente il numero degli addetti è molto ridotto.
La preannunciata assunzione di un secondo gruppo di addetti potrebbe contribuire ad attenuare temporaneamente le problematiche, che tuttavia potranno avere una soluzione definitiva solo con una adeguata copertura degli organici del personale amministrativo (caratterizzato peraltro da una elevata età media, a seguito del blocco, quasi ventennale nelle assunzioni), con un potenziamento dell’organico dei magistrati, e con la previsione di figure stabili di addetti, capaci di acquisire e mantenere una professionalità adeguata a supportare l’attività giurisdizionale dei magistrati.
Solo a queste condizioni la scommessa dell’ufficio per il processo può essere vinta e si potrà puntare a rendere l’organizzazione giudiziaria adeguata alle necessità di questi tempi.
Da ultimo, è necessario richiamare l’attenzione sull’importanza di una gestione partecipata all’interno degli uffici giudiziari del modello organizzativo dell’Ufficio per il processo, sia nella sua fase attuale legata agli obiettivi del PNRR, che nella prospettiva di una sua, auspicata, stabilizzazione. La gestione dell’Ufficio per il processo, infatti, rappresenta un concreto banco di prova per valutare le tendenze gerarchiche e verticistiche, oppure le scelte di coinvolgimento sui temi organizzativi, nella gestione degli Uffici. Anche questa è una scommessa che chiama in causa tutta la magistratura e gli organi dell’autogoverno, chiamati alla promozione delle buone prassi e ai controlli.
Questione Giustizia, Parole di Giustizia, la comunicazione di Magistratura democratica
Le energie culturali, gli stimoli, le sollecitazioni e la profezia visionaria di Questione Giustizia sono state fondamentali per la capacità di approfondire ed elaborare, con tempestività e sagacia, i temi connessi all’epoca delle grandi riforme, quelle praticate e quelle annunciate, con uno sguardo sempre attento alla concretezza delle questioni nuove che hanno attraversato il mondo della giurisdizione e quello dei diritti. La redazione di Questione Giustizia ed ancora di più la sua direzione collettiva, guidata da Nello Rossi, ci hanno fornito importanti chiavi di lettura per decifrare l’incalzare dei temi che hanno investito la giurisdizione, l’autogoverno e l’associazionismo, con interventi che hanno amplificato l’autorevolezza della rivista, riconosciuta quale soggetto perspicace e affidabile nel dibattito pubblico sui temi della giustizia.
Al contempo, Magistratura democratica anima con l’Associazione Giuseppe Borrè e l’Università di Urbino il festival annuale Parole di Giustizia che sta riscuotendo un grande successo di pubblico e consente di parlare dei diritti da prospettive che non riguardano solo la giurisdizione, ma ci aprono a nuovi orizzonti nei quali si inserisce l’operare della magistratura. L’ambizione è quella di farne una realtà itinerante: un impegno che ci chiamerà ad un’ulteriore fatica, ma che ci offrirà la possibilità di continuare a dialogare e a contaminarci con esperienze culturali e sociali che non sempre possiamo incontrare (e talora nemmeno intuire) restando chiusi nei nostri palazzi di giustizia.
Il nostro Gruppo comunicazione è, poi, animatore della Newsletter di Magistratura democratica e autore di documenti e prodotti editoriali audiovisivi.
A partire dal novembre 2021 sono stati prodotti 51 video, comprensivi dei 2’MD, in cui voci interne ed esterne alla magistratura affrontano, con una comunicazione sintetica ed evocativa, temi della giurisdizione e dei diritti; di documentari e presentazioni (tra i più visti i documentari “Dal campo di San Ferdinando”, la presentazione dei candidati di Magistratura democratica al CSM, le interviste sul referendum ANM sul sistema elettorale); ad essi si aggiungono le registrazioni integrali di eventi e convegni organizzati da Magistratura democratica; dei Consigli nazionali di Magistratura democratica; e le registrazioni integrali dei seminari sulla riforma della giustizia civile.
Tutto questo materiale, insieme a realizzazioni precedenti, è presente sul canale YouTube di Magistratura democratica, ora riorganizzato, che è passato dal novembre 2021 ad oggi da 432 a 735 iscritti. Le visualizzazioni complessive dei materiali audiovisivi, diffusi anche attraverso i social e le chat, dal novembre 2021 ad oggi è stato di 61.879.
La Newsletter di Magistratura democratica si è trasformata da luogo di semplice “rilancio” di materiali a uno strumento di comunicazione che caratterizza il gruppo, elaborato quindicinalmente con contenuti specifici, oltre a quelli derivanti dalla vita di Magistratura democratica, che viene oggi diffuso a tutti i magistrati oltre che a qualificati interlocutori esterni.
Dalla media di 30 visualizzazioni – con lettura effettiva di contenuti – del 2021 si è saliti a partire dal 2022 e per i quarantadue numeri pubblicati, a una media di oltre 300 visualizzazioni, divenute oltre 400 per gli ultimi numeri.
Tutti i contenuti comunicativi sono ospitati dal sito internet di Magistratura democratica; e vengono rilanciati su Facebook (pagina visitata negli ultimi due anni da 44.106 utenti) e Twitter.
A questi risultati ha contribuito la “militanza digitale” degli iscritti di Magistratura democratica, che con ancora maggiore convinzione è auspicabile operi nel prossimo futuro per rendere evidente la ricchezza di idee del gruppo.
Le prospettive di Magistratura democratica
Margine è una parola indoeuropea senza etimologia, marginale appunto. Il margine è dove qualcosa finisce, ma anche dove qualcosa comincia; rende la realtà misurabile, stabilisce un rapporto con il diverso, con l’estraneo, definisce ciò che non è né al di qua né al di là, la “soglia”; il margine è un luogo di passaggio, di trasformazione. Dalla prospettiva del margine si può cogliere il tragico paradosso delle teorie della crescita, continua e senza limiti, che alimenta e dilata le disuguaglianze economiche, le disarticolazioni sociali, il saccheggio della natura e del paesaggio. Posto al margine è anche quel “luogo” in cui il pensiero si articola, rimanda, instrada su vie laterali che offrono spunti inattesi che stimolano la creatività e il desiderio del nuovo, del non ancora pensato. Assumere il punto di vista del margine consente di occupare una posizione privilegiata, giacché è proprio qui che si sta anticipando la futura umanità con le sue esperienze di radicale rinnovamento delle regole del vivere, a partire da nuovi sentimenti di cura e restituzione di senso nei confronti del territorio e delle sue comunità.
Per questo, a partire dal significato emancipatore degli articoli 2 e 3 della Costituzione, che quella del margine è una prospettiva che ben si adatta a Magistratura democratica; da qui è più facile intendere la Giustizia come spazio di regolamentazione tra diritti diseguali, in cui il criterio della relazione di cura della parte più debole prevale sul rapporto di mero potere; la protezione prevale sulla forza.
E non è forse di una cultura della cura di cui abbiamo bisogno mentre siamo immersi in una cultura della guerra? La guerra è l’esatto contrario della cura: l’altro è nemico da eliminare, la natura e l’habitat vengono distrutti, alla logica della riparazione e della custodia si sostituisce quella della distruzione, alla solidarietà si sostituisce il paradigma dell’inimicizia. E la mitezza si oppone alla prepotenza, alla soperchieria e all’abuso, al prevalere sull’altro con la forza: “Opposte alla mitezza sono l’arroganza, la protervia e la prepotenza” (Norberto Bobbio).
È la mitezza che deve essere la nostra cifra collettiva, anche nel nostro modo di interpretare e partecipare all’associazionismo, coltivando il senso del limite. Questo passa dalla consapevolezza che non bastiamo alla magistratura: la nostra elaborazione radicale; la nostra capacità di lettura integrata - meglio: integrale, ma non integralista - della giurisdizione; il nostro anti-corporativismo di cui è espressione la nostra tendenza a cercare il punto di vista esterno alla magistratura, di essere “letti”, interrogati, criticati da chi non fa parte della corporazione ed è però oggetto della stessa o più semplicemente la osserva; l’utilizzo di un canone interpretativo della protezione quale criterio generale che guida il nostro modo di essere attori della giurisdizione, chiamati a tutelare i diritti deboli, quale esplicazione del principio di solidarietà costituzionale che chiede al soggetto forte di farsi protettore e garante dei soggetti deboli; persino la nostra ambizione ad essere tra i tutori dei diritti fondamentali, specie in funzione contrastante alle eventuali maggioranze politiche contingenti che dovessero indebolirli. Dobbiamo essere consapevoli che tutto questo non basta alla magistratura e che questa non sarebbe migliore se fosse integralmente composta da magistrati di Magistratura democratica. La trama costituzionale chiede e pretende anche molto altro rispetto a quello che noi siamo ed è proprio dalla comune trama costituzionale che il confronto associativo diventa lievito per una magistratura migliore perché capace di essere espressione delle plurali sensibilità culturali che la percorrono. Riconoscerlo ci aiuterà a non piegarci alla logica binaria: amico/nemico, ad accettare i nostri limiti e farne il campo di azione per andare oltre.
Magistratura democratica non deve essere più percepita come settaria o aristocratica, deve essere piuttosto un gruppo che ha l’attitudine a creare spazi aperti al confronto e alla contaminazione, perché il recupero della nostra specificità nell’agone associativo non è stato solo l’orgoglio di tornare ad alzare un nobile vessillo, ma è, soprattutto, la voglia di mettere a disposizione della magistratura la nostra identità culturale, per tornare a discutere le nostre convinzioni, metterle in discussione e scoprire come queste si declinano e si misurano con le sfide della modernità.
Come declinare questa ambizione nella concretezza del nostro agire e dei futuri impegni elettorali, a partire dai Consigli giudiziari, così come nelle modalità operative degli eletti al CSM ed al CDC ANM è uno dei grandi temi congressuali, su cui chiediamo al gruppo di confrontarsi, per offrire alla nuova dirigenza indicazioni e proposte che orientino il futuro di Magistratura democratica. Si tratta, in particolare, di intendere come la radicale identità del gruppo e la sua partecipazione ai luoghi di rappresentanza, debba coniugarsi con la spirito di confronto, apertura e contaminazione che deve caratterizzarci.
Questa dirigenza ha cercato di essere un’intelligenza collettiva; uno spazio per recepire ed interpretare gli stimoli che sono venuti dagli spazi di discussione del gruppo. Ed è in coerenza con questo spirito di apertura e confronto che auspichiamo l’introduzione di modifiche statutarie che aumentino il numero dei componenti del Consiglio nazionale e dell’Esecutivo. Ampliare gli spazi di discussione interni è, dunque, un impegno vitale anche per il futuro del gruppo, perché più questi spazi saranno vivaci e stimolanti, meglio la prossima dirigenza riuscirà a orientare la rappresentanza del gruppo. Per questo, anche su questi temi, chiediamo al momento congressuale indicazioni e proposte che immaginino le forme di comunicazione interna ed esterna che dovranno caratterizzarci.
Sullo sfondo vi è il tema più ampio della struttura organizzativa di Magistratura democratica. Dobbiamo iniziare a chiederci se l’articolazione del gruppo per Sezioni territoriali risponda ancora ad un’autentica esigenza funzionale o se non si debba pensare ad un’organizzazione più snella. Tuttavia, in realtà, questo tema di intreccia con le nuove forme e modalità dell’associazionismo a cui si è sopra già accennato. È necessario, dunque, compiere uno sforzo di immaginazione e proposta capace di intuire verso quali percorsi di condivisione si svilupperà l’associazionismo giudiziario e adeguare ad essi la nostra struttura organizzativa, senza mai perdere di vista quello che deve restare un marchio di fabbrica del gruppo: la sua capacità di garantire una partecipazione diffusa e consapevole che consenta a qualunque iscritta e iscritto di stimolare il dibattito, introdurre temi nuovi, criticare le scelte della dirigenza.
Stefano Musolino
Questa relazione è frutto di un lavoro collettivo, fatto di scambi e confronti che hanno coinvolto tutta la dirigenza nazionale e locale di Magistratura democratica, a partire dall’Esecutivo Nazionale.
Tuttavia, un ringraziamento speciale per gli specifici contributi apportati va a: Silvia Albano, Ottavia Civitelli, Andrea Natale, Simone Silvestri, Elisabetta Tarquini, Anna Terzi, Francesco Vigorito.
Dopo il trascorso biennio, conclude la sua esperienza di Presidente di Magistratura democratica Cinzia Barillà. La sensibilità, la capacità di mantenere e coltivare relazioni empatiche, l’intelligenza emotiva e la duttilità politica che Cinzia ha donato al gruppo non saranno facilmente sostituibili; certo Cinzia continuerà a contribuire alla crescita del gruppo da una posizione più defilata che le consentirà di potersi dedicare meglio alla cura dei suoi affetti, ma a noi mancherà molto la sua capacità di guardare alle nostre dinamiche da una prospettiva specialmente attenta ai bisogni delle persone. La ringraziamo, consapevoli dei grandi sacrifici personali che le ha comportato questo oneroso incarico, sapendo di potere sempre confidare su di lei per il futuro che ci attende.