"Nati nel lavoro" - Documento del Gruppo Lavoro di Md
“Il clima delle fabbriche, dei posti di lavoro non dovrà essere solo quello di un complesso di macchine e di interessi egoistici, ma quello di una comunità di persone, di uomini a cui deve essere riconosciuta la tutela della loro libertà e dignità, quali portatori di sentimenti e di ideali, nella certezza e nella sicurezza del lavoro... Compiamo oggi, onorevoli colleghi, un atto di omaggio verso i lavoratori che hanno riscattato con la Resistenza il nostro paese, a quanti si sono immolati sull'altare del sacrificio nelle lotte del lavoro, ai quali va, nel momento in cui ci apprestiamo a votare a favore di questo disegno di legge, il nostro pensiero grato e riverente”.
Lavori parlamentari della L. 300/1970; dichiarazione di voto dell’On. Lobianco (DC), il 14.5.1970 alla Camera dei Deputati
L’emergenza sanitaria che viviamo ha riscritto i tempi e le priorità delle nostre vite, rimettendo al centro l’essenziale: la salute pubblica e il lavoro, il lavoro di chi salva le persone e di chi comunque se ne prende cura, uomini e donne che hanno continuato ad attraversare le nostre città, per il resto deserte, per lavorare negli ospedali, nelle fabbriche, nelle aziende agricole, nei supermercati, per consegnare beni essenziali che non credevamo avrebbero potuto mai mancarci. A loro oggi va il nostro “pensiero grato e riverente”.
Ma la pandemia ha mostrato con particolare evidenza anche l’estrema fragilità del lavoro, legata essenzialmente alla sua precarietà, che riguarda soprattutto giovani e donne mentre, non appena le ordinarie attività produttive sono riprese, è ripresa anche la drammatica sequenza delle morti operaie.
Nessuno di questi mali è nuovo. Al contrario precarietà e insicurezza sono prodotti di una lunga stagione, di un modello di sviluppo che, nel nostro paese, ha visto nella riduzione del costo del lavoro il principale strumento di competitività delle imprese, perseguito innanzi tutto spostando il rischio derivante dalla variabilità della domanda su attori sempre più periferici di lunghe filiere produttive, fino a scaricarne il peso sui lavoratori. Che lo sopportano con la precarietà dei loro contratti, con l’insufficienza di retribuzioni che non garantiscono vite dignitose, con la nocività di ambienti di lavoro in cui spesso operano, insieme a loro, esposti agli stessi rischi, i loro datori di lavoro, piccoli imprenditori le cui sorti pure dipendono da lontane committenze, solo un po’ meno poveri dei loro dipendenti.
Queste trasformazioni sono state negli anni accompagnate e anzi sostenute da una legislazione che ha ridotto le tutele dei lavoratori all’interno del rapporto e limitato le risorse assegnate agli organi chiamati a verificare il rispetto di quelle rimaste.
Una legislazione - occorre ricordare - sostenuta dal consenso della grande maggioranza dei partiti e dell'informazione mainstream, oltre che da molti cultori della materia, tutti concordi nel presentarla come inevitabile ammodernamento dei rapporti di lavoro, richiesto dai nuovi modelli economici e sociali affermatisi e funzionale all'incremento dell'occupazione oltre che alla conquista di nuovi spazi di libertà individuale per i lavoratori. Previsioni tutte puntualmente e tragicamente smentite come era facile prevedere e come è stato inutilmente previsto.
Gli effetti di simili scelte sono visibili anche nelle nostre aule, di giudici del lavoro, in primo luogo nella drastica riduzione del contenzioso, che non è una buona notizia, perché segue, non alla soddisfazione, ma alla riduzione dei diritti.
Al contrario proprio il lavoro precario, il lavoro povero e insicuro avrebbe più bisogno del processo e del giudice del lavoro pensato dal legislatore del 1973: un processo tra parti disuguali (anche rispetto alla possibilità di sostenerne i costi e i tempi e alla disponibilità dei mezzi di prova) davanti a un giudice chiamato, se non ad eliminare, ad attenuare quella diseguaglianza almeno nel processo, innanzitutto accertando la verità dei fatti, che è il primo atto di giustizia.
Le trasformazioni del lavoro, delle organizzazioni produttive, le inedite forme di subordinazione, infatti, avrebbero bisogno di un processo che le rappresentasse fedelmente, di un giudice disponibile e interessato a comprenderle nella loro materialità per poi ricondurle nelle forme della legge.
Non è il ruolo che il legislatore di questi anni ha voluto assegnare al giudice del lavoro, di cui ha inteso marginalizzare la funzione e la discrezionalità, sottraendogli il sindacato sulle scelte decisive del rapporto (a partire da quella relativa alla sua conservazione a fronte di un licenziamento illegittimo). Tendenza che pure, da ultimo, ha trovato un fondamentale argine nella giurisprudenza costituzionale.
A questa marginalizzazione ha, però, concorso anche la magistratura del lavoro, dismettendo per lo più la funzione attiva che pure la legge processuale continua ad attribuirgli, scambiando molto spesso l’imparzialità con l’indifferenza rispetto all’esito del processo e ai diritti che esso coinvolge, rinunciando a capire il mondo di fuori e affidandosi invece alle regole formali di giudizio.
Ma il mondo di fuori, le vite degli altri, le loro tragedie talvolta, non possono essere estranei al processo ed alcuni eventi, occorsi nei giorni in cui si svolge questo congresso, ci hanno costretto di nuovo a guardare alla prima di queste tragedie, quella delle morti sul lavoro.
Chi ha responsabilità istituzionali, come i magistrati, non può occuparsi di queste morti limitandosi a commentarle. Altro è il nostro dovere.
Ci spetta innanzi tutto avere consapevolezza dello scarto sensibile che sempre esiste nel mondo del lavoro tra le norme e la realtà (come dimostrano le altissime percentuali di illegalità diffuse dall’INL nei suoi rapporti annuali) ed è compito anche della magistratura agire per garantire effettività ai principi, rafforzare le politiche pubbliche di tutela del lavoro, essere consapevole che la vera prevenzione della salute si attua dando dignità e valore a chi lavora. Assicurando il rispetto di orari, riposi, salari, formazione, professionalità, stabilità nell’impiego, rappresentanza sindacale, perché la giustiziabilità dei diritti è la necessaria precondizione per un lavoro sicuro e dignitoso e perché i diritti del lavoro si tengono assieme tutti e nessuno è più dipendente da tutti gli altri diritti di quello alla salute.
Serve allora una giustizia più attenta alle ragioni di chi lavora e che intervenga per tempo. Non solo dopo l’ennesima tragedia che fa notizia, ma soprattutto in via preventiva: sulle modalità del lavoro, sulle catene illecite di appalti, sulle condizioni di igiene, sugli orari di lavoro non rispettati che aumentano i rischi per l’incolumità dei lavoratori e che, in primo luogo garantisca loro accesso davanti ad essa.
Dare risorse ed efficienza alla Giustizia, come sempre si reclama, è necessario ma da solo non basta se nel processo non c’è un giudice capace di ascoltare, disponibile a cercare.
Questo è quello che sempre dovremmo fare, che ora soprattutto dobbiamo fare, nel lavoro quotidiano, negli uffici, tornando a orientare la giurisprudenza verso la tutela effettiva dei diritti. Che è quello per cui MD è nata.
Il Gruppo Lavoro di Magistratura Democratica