Mozione finale approvata dal Congresso
Discutendo in questo Congresso di giurisdizione e diritti, non possiamo ignorare che sull’altra sponda del Mediterraneo è in atto una catastrofe del diritto dei più deboli e della giustizia. La guerra in corso a Gaza, insieme all’attentato terroristico che l’ha generata, si confermano come eventi che cagionano sofferenze indicibili all’umanità, come recita il preambolo della Carta delle Nazioni Unite.
La guerra, che Hans Kelsen ha definito “un omicidio di massa”, è portatrice di una sua logica intrinseca che interroga il senso e, comunque, travolge ogni limite che il diritto ha posto alla condotta delle operazioni belliche a tutela delle ragioni dell’umanità. Come giuristi, come magistrati, come cittadini europei siamo dalla parte delle vittime, di tutte le vittime. Al tempo stesso questo ci impone di continuare a riflettere su un assetto mondiale che da oltre settant’anni, in violazione di tutte le risoluzioni ONU e degli Accordi di Oslo, nega ancora il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese.
Quello che è successo, e sta ancora accadendo, contraddice tutte le Carte dei diritti dell’Uomo e mette in discussione i valori sui quali si basano gli ordinamenti fondati sulle Costituzioni democratiche.
Coerentemente con i principi costituzionali ed europei del ripudio della guerra e delle cessioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia, ci uniamo alla società civile nel chiedere l’immediato cessate il fuoco, la liberazione degli ostaggi e la attivazione di effettivi corridoi umanitari per la popolazione civile.
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Il senso profondo dell’autonomia e dell’indipendenza del giudiziario - messe a rischio da riforme costituzionali che nel loro insieme consentirebbero a una maggioranza politica di erodere la separazione dei poteri - è da cercare nel dovere del giudice, correlato alla valenza contro-maggioritaria dei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione e dalle Carte internazionali, di prestare tutela ai diritti che nascono dalla miriade di conflitti - economici, sociali, relazionali, di e sul genere - che attraversano una società in continuo movimento.
Viviamo un’epoca in cui i conflitti non sono più evidenti e frontali e la realtà dei bisogni delle persone, e in particolare delle minoranze, è complessa, variegata e sfaccettata. La crisi delle tradizionali mappe di pensiero impone sempre di più al giudice di mettere “il naso fuori”, interrogare la concretezza delle vite e dei corpi delle persone.
Essere garanti dei diritti significa, in primo luogo, assumere il compito di apprendere i fatti nella loro interezza, essere sicuri che le donne e gli uomini sui quali incidono le decisioni dei giudici possano prima di tutto in esse riconoscere le loro vite, le storie e i drammi esattamente ricostruiti. Per questo motivo su quelle vite è necessario interrogarsi, come chiamava a fare il “giudice democratico” di Bertolt Brecht.
L’ “officina della realtà” - scrutinata in questo Congresso attraverso la voce di molti testimoni dei tanti conflitti che la attraversano - ci fa comprendere che separare i diritti sociali dai diritti civili, creare identità corporative attorno ai singoli diritti e atomizzarle è pericoloso. I tanti conflitti orizzontali tra portatori di bisogni nascondono, in realtà, una difficile lotta tra domanda di diritti e potere, tra libertà e autorità. È proprio la conoscenza del reale che consente al giudice, ogni volta che uno spezzone di quella lotta arriva al suo banco, di affrontare il suo lavoro con equilibrio, senza logiche pregiudiziali.
Per essere all’altezza di questa responsabilità, ciascun magistrato deve compiere un enorme sforzo culturale, di osservazione e comprensione dei fenomeni sociali, di verifica dei fatti, di analisi del tessuto normativo. Deve, soprattutto, costantemente interrogare la legge, misurandola al metro delle promesse costituzionali. La Costituzione è una polemica contro il presente: essa chiama ogni magistrato a lavorare perché ciascuna persona possa realizzare il suo destino individuale e di comunità, in modo pieno e libero.
Per essere all’altezza di questa responsabilità occorrono magistrati autonomi e indipendenti, che coltivino la fatica e l’inquietudine del dubbio, senza accontentarsi di pigre formule interpretative. Il magistrato è chiamato ad esercitare non la “legis-lazione”, ma nemmeno una sterile “legis-dizione”; è responsabilità del magistrato esercitare la “giuris-dizione”, così restando sempre ancorato ai concreti fatti sottoposti al suo giudizio e alla tutela dei diritti delle singole persone in esso coinvolti.
È in questa prospettiva che Magistratura democratica si impegna a proseguire nel suo lavoro culturale svolto nel costante confronto con la società civile, gli operatori di giustizia e la cultura giuridica, di cui Questione giustizia è voce viva e feconda.
Per essere all’altezza di questa responsabilità, ciascun magistrato deve poter avere fiducia in un sistema di governo autonomo che privilegi professionalità e credibilità, e che contrasti al contempo carrierismo e gerarchizzazione, che stanno sempre più penetrando negli uffici giudiziari del Paese, specie requirenti.
Per essere all’altezza di questa responsabilità ciascun magistrato e ciascun gruppo associativo deve accettare di non essere portatore di verità assolute. Per questa ragione, Magistratura democratica deve coltivare il gusto del confronto e dell’incontro nella casa comune dei magistrati: l’Associazione Nazionale Magistrati, alla quale Magistratura democratica deve continuare ad offrire il proprio punto di vista, mettendolo a disposizione della comune riflessione, della comune azione.
Per essere all’altezza di questa responsabilità ciascun magistrato deve ricordare che non basta declamare i diritti, ma è necessario offrire degli stessi un’effettiva e compiuta tutela. Per questo è necessario che Magistratura democratica continui a impegnarsi concretamente sul terreno dell’organizzazione del servizio Giustizia: che non è mai neutra, potendo piuttosto incidere significativamente sulla stessa possibilità che i magistrati interpretino, in maniera autentica, il ruolo di tutela dei diritti fondamentali che la Costituzione ha loro assegnato, senza essere affannati da carichi di lavoro opprimenti, alimentati da richieste di gretto efficientismo.
Per essere all’altezza di questa responsabilità, ciascun magistrato – oltre a essere messo in condizioni di lavoro sostenibili – deve poter operare in condizioni di autonomia e indipendenza. Per questo esprimiamo profonda preoccupazione per i disegni di riforma della Costituzione: ove approvati, essi determinerebbero infatti una concentrazione di potere capace di mettere in discussione i sapienti equilibri disegnati dalla Costituzione repubblicana. È in nome di questa preoccupazione che avvertiamo il dovere di partecipare al discorso pubblico, per ragionare insieme a tutta la comunità repubblicana sui pericoli che discendono da alcune proposte di riforma in cantiere.
Queste preoccupazioni non sono il frutto di un pregiudizio politico nei confronti dell’attuale maggioranza parlamentare, ma muovono dalla verifica, che è anche un monito, di quanto ci hanno raccontato – nel corso della sessione del congresso organizzata da Medel – i magistrati della Turchia, della Polonia, dell’Ungheria. In questi Paesi, infatti, i segnali di arretramenti della democrazia, non sono stati preannunciati da eventi eclatanti, ma piuttosto da processi di silenzioso svuotamento dall’interno e di subdola manipolazione delle istituzioni, rivendicati come essenziali per dare seguito alla volontà popolare.
Da questo osservatorio è apparso chiaro che:
1) l'attacco all'indipendenza della magistratura è parte del progetto più ampio che comprende non solo l’alterazione degli equilibri della democrazia, ma la regressione per i diritti e libertà;
2) il dissenso verso i valori della democrazia liberale - come insegnano i casi esemplari di Polonia e Ungheria - non è solo un dissenso per le sue regole, le sue procedure e le sue istituzioni. è un dissenso sull'idea stessa di democrazia come forma di società, come pluralismo, critica, diversità, partecipazione, impegno collettivo per i diritti e le libertà.
Dall’osservatorio che Medel ci ha offerto abbiamo potuto comprendere dove conduce questo processo di regressione democratica nel quale i sistemi giudiziari indipendenti finiscono sotto attacco, prima che riforme strutturali sovvertano le regole e i principi, amputando ruolo e competenze della Corte Costituzionale e dei Consigli di Giustizia, a conclusione di una reiterata, abituale comunicazione volta a delegittimare la giurisdizione. La "tolleranza reciproca" e la "tolleranza istituzionale" sono essenziali alla democrazia: resistere alla tentazione di prendere il controllo sui contropoteri, sugli organi di garanzia, sulla libera stampa, è questo il criterio di giudizio della nostra attualità che ci viene dalla lettura di queste esperienze estere. Un processo regressivo dei rapporti istituzionali fa vacillare non solo le fondamenta dell’Unione europea, quelle basate sui valori dei suoi trattati istitutivi e della sua Carta dei diritti fondamentali, ma la stessa Europa che abbiamo voluto costruire per segnare un punto di non ritorno rispetto al passato di guerre e totalitarismi, con un sistema comune di valori irrinunciabili e inderogabili, consacrati nella Convenzione EDU.
La consapevolezza delle sfide che riguardano il modo di essere del magistrato nello scenario futuro, ci impone la concreta verifica dello stato attuale degli assetti della giurisdizione, verificando il lavoro giudiziario, lo stato degli uffici, le condizioni di lavoro, la capacità di dare una risposta alle domande di giustizia che vengono dalla collettività.
In primo luogo, riteniamo indispensabile ripensare alla geografia giudiziaria, perequando i carichi di lavoro, che oggi i dati statistici rivelano come caratterizzati da intollerabili sperequazioni territoriali.
In relazione al diritto penale, poi, riteniamo necessario ripensare agli strumenti deflattivi, intervenendo piuttosto che sui meccanismi procedurali, sulla ipertrofia di norme incriminatrici che rivelano la tendenza del Legislatore a scaricare sulla giurisdizione penale la risoluzione di problematiche sociali ed economiche, attribuendole scopi performativi ad essa estranei (emblematica di questa tendenza, è la recente novella dell’art. 362 co. 1 ter c.p.p.).
La tendenza alla progressiva gerarchizzazione degli uffici si sta accompagnando a una forte spinta a privilegiare un’impostazione burocratica del lavoro giudiziario che genera anche l’omologazione alle interpretazioni prevalenti. Sono due volti della stessa medaglia; ed infatti, gli obiettivi quantitativi, pur necessari a dare effettività alla domanda di giustizia, sono divenuti l’unico parametro di valutazione dei dirigenti ed il timore - fortemente enfatizzato, in maniera strumentale, benché smentito dagli oggettivi dati statistici relativi alle valutazioni di professionalità e ai procedimenti disciplinari - di conseguenze negative per coloro che non raggiungono gli obiettivi, costituiscono la preoccupazione costante per i tutti i magistrati, specialmente quelli più giovani. Si tratta di effetti a cui non è estraneo il modo in cui la Scuola Superiore della Magistratura orienta la formazione dei magistrati in tirocinio che va, profondamente ripensata.
Questo modello di gestione degli Uffici non è accettabile e va ribaltato: i dirigenti devono essere capaci di gestire le risorse (spesso limitate), dando conto, anche agli interlocutori esterni, del lavoro fatto e dei risultati ottenuti, rendendo conoscibili gli orientamenti giurisprudenziali e costruendo rapporti efficaci con gli altri Uffici, con gli avvocati, con il personale amministrativo. All’interno dell’Ufficio va rilanciata la prospettiva del lavoro di team.
A questo scopo, immaginiamo il rafforzamento del ruolo dell’ufficio del processo (messo in concreta condizione di operare attraverso la stabilizzazione dei suoi addetti), con la creazione di plurimi gruppi di lavoro nei quali maggiore deve essere il ruolo e la responsabilità di ciascun magistrato che vi opera.
La prospettiva deve essere quella di una gestione collettiva dell’ufficio di cui il dirigente torni ad essere – in coerenza con l’art. 107 della Costituzione – solo il magistrato chiamato a coordinare l’attività giudiziaria. Questo spirito, innovando le forme di coinvolgimento dei singoli magistrati nella gestione dell’Ufficio, può essere anche un modo per rinnovare le attuali forme di partecipazione alla sua gestione ed organizzazione. Queste, infatti, si sono - sin qui - rivelate sterili occasioni, inadeguate al fine di garantire un percepito, consapevole e responsabile coinvolgimento di ciascun magistrato alle scelte organizzative dell’Ufficio.
Questi sono gli obiettivi di Magistratura democratica che pensiamo possano diventare patrimonio di tutta la magistratura italiana.