Intervento di Mario Ardigò

“Compagni! Posso chiamarvi compagni?”, così iniziò uno degli interventi al Congresso di Bologna del 2016. Ci fu un brusio in aula.“Compagni” evoca il socialismo, la parola proibita, e anche il comunismo, oggi ancor più sconveniente.

 

Questo congresso si svolge nel palazzo dove ha sede una delle più potenti agenzie culturali cattoliche. Alle origini, i cristiani impegnati nella propaganda e nella costruzione e cura delle comunità di fedeli si chiamavano reciprocamente compagno, nel greco antico koinonòs. Lo attesta Paolo di Tarso nella seconda lettera ai Corinzi, 8,23, chiamando compagno, “koinonòs” il suo collaboratore Tito. L’imperatore Costantino, in via di cristianizzazione, convocando il primo concilio ecumenico svoltosi a Nicea nel 325, definì sé stesso compagno vescovo, koinonòs epìskopos, per l’unità del mondo. Fratelli si nasce, amici si diventa, per essere compagni è necessario un particolare impegno nel lavorare per l’unità. Nella visione cristiana questo impegno comprende tutti, tutta l’umanità, come se fosse un’unica famiglia e quell’unità ha il nome di agàpe, termine del greco antico che richiama l’immagine di un lieto convito al quale nessuno sia escluso. Quel termine è molto importante per la fede cristiana perché è scritto che O teòs agàpe estìn, il Fondamento è agàpe. Questo è il centro della fede cristiana: si è impegnati ad essere compagni al servizio dell’agàpe. Il servizio è il modo cristiano per esercitare il potere: «I re delle nazioni le signoreggiano, e coloro che esercitano autorità su di esse sono chiamati benefattori. Ma con voi non sia così; anzi il più grande fra di voi sia come il minore e chi governa come colui che serve.  (Vangelo secondo Luca 22,26; versione Diodati 1607).

 

La visione socialista non è diversa. Risulta infatti essere stata costruita a partire da quella.

 

La sua polemica antireligiosa è volta allo svelamento dell’impostura mediante la quale la fede nell’agàpe è stata storicamente strumentalizzata fin dall’antichità per asservire le masse, invece di liberarle e salvarle. Perché, dunque, si dovrebbe esitare a definirsi socialisti e compagni, se non ci si vergogna di essere cristiani nonostante la loro atroce storia? Da essa si deve imparare, facendone memoria realistica e purificata, che significa ripudiandone il male senza distogliersi dal bene. Invito a leggere il testo di una conferenza tenuta dal teologo Karl Barth nel 1911 nel paese in Svizzera dove prestava servizio, oggi edita da Marietti in un libretto dal titolo Poveri diavoli. Cristianesimo e socialismo. Scrisse Barth: «Il socialismo è il movimento di coloro che non sono indipendenti sul piano economico […] Il proletario non è necessariamente povero, ma nella sua esistenza è necessariamente dipendente dalle possibilità economiche e dalla buona volontà di colui che gli dà il pane, il padrone della fabbrica. È qui che interviene il socialismo: esso è e vuole essere un movimento proletario. Esso vuole rendere indipendenti coloro che non lo sono, con tutte le conseguenze che ciò può comportare per la loro esistenza materiale, morale e spirituale. […] Chiunque legga senza pregiudizi il Nuovo Testamento, dovrebbe restare colpito dal fatto che ciò che Gesù è stato, ha voluto, e ha ottenuto, considerato da un punto di vista umano, era esattamente un movimento dal basso. Credo che nessuno abbia il diritto di dire che la socialdemocrazia è non cristiana e materialista per il fatto d’essersi posta come obiettivo l’introduzione di un ordinamento sociale più favorevole agli interessi materiali del proletariato. Gesù si è opposto alla miseria sociale affermando, con le parole e con i fatti, che essa non deve esistere. Certamente, egli ha fatto ciò infondendo negli uomini lo spirito, che trasforma la materia. […] Egli ha operato dall’interno verso l’esterno. Ha creato uomini nuovi, per creare un mondo nuovo.».

Il mondo è quello che è. Ci si consola pensando che poteva andarci peggio. Il passato ritorna: poteva accadere, ce l’avevano detto. «Su queste strade se vorrai ritornare/ai nostri posti ci troverai/morti e vivi collo stesso impegno», cantò Calamandrei. Ecco questo è il momento. Per reagire serve organizzare un movimento dal basso, nella società, per ricostituire un’agàpe. Servono compagni.

Qualche giorno fa Luigi Saraceni, ospite della trasmissione di radio Rai Tre Fahrenheit ha ricordato: «Non entrai in magistratura, entrai in Magistratura democratica». C’era, all’epoca, un lavoro da fare, che non era molto diverso da quello che ora ci è richiesto, e per farlo era necessario un impegno da compagni che poteva essere svolto in Md meglio che altrove, e in particolare meglio che da soli.

Ogni organizzazione serve per un certo lavoro da fare in società. Ora serve farlo da compagni, con una visione di agàpe, quella che porta a individuare un bene comune a tutta l’umanità, ben oltre il contingente bene pubblico nazionale. Occorre farlo all’interno della nostra categoria, ma anche nella società, intrattenendo relazioni con altre formazioni.

È in questione un modello di civiltà, occorre avere prospettive ampie. Occorre riprendere argomenti del passato, approfondirli, svilupparli nel nostro oggi. Nell’opera sociale non si parte mai da zero, come se si potesse, e anzi si dovesse, fare piazza pulita di una lunga storia.È la giustificazione degli impazienti e degli incolti e degli impazienti incolti: ma intervenire sulla società è come farlo sul corpo vivente di una persona, se lo si fa da impazienti incolti si trasforma l’intervento in una autopsia.

L’esperienza di Area serve a fare un certo lavoro, per cui essa è utile e indicata. Ma, appunto, il mondo è quello che è e ora c’è anche altro da fare e bisogna farlo da compagni, con quello spirito. Ritrovando quello spirito, senza alcuna remora, senza alcuna esitazione. Suscitandolo nei più giovani. Mantenendoci come Md. È infatti infondendo un nuovo spirito che si cambia il mondo, e, cambiandolo, lo si salva.