Intervento di Livia Holden
La cultural expertise contro il rischio del populismo giudiziario *
Non posso iniziare il mio intervento senza ringraziare Magistratura democratica per questo invito. Ho seguito con molto interesse le attività di Magistratura democratica e ne ho ammirato non soltanto l’impegno civico ma anche accademico per la collaborazione interdisciplinare che ha saputo percorrere.
L’Università si sta rendendo conto oggi a livello globale della necessità di abbandonare la cosiddetta torre d’avorio e di contribuire a fornire soluzioni a problemi sociali. In particolare, l’antropologia e le scienze sociali in generale se ne stanno rendendo conto a livello internazionale, in quanto stiamo cercando di riflettere sempre di più su come formulare nuovi strumenti di indagine che ci aiutino non soltanto a descrivere i problemi della società ma anche a fornire potenziali soluzioni. Infatti, uno dei compiti dichiarati dell’antropologia, come è stato recentemente affermato da varie associazioni di antropologi, specialmente da quelle nordeuropee, è proprio il contributo alla risoluzione dei problemi sociali.
La magistratura è senz’altro posizionata in maniera eccellente in quello che è, in senso molto ampio, il sistema di risoluzione conflitti, e si potrebbe dire - in maniera certo molto semplicistica - che la risoluzione dei problemi della società è, in senso sempre molto ampio, anche uno dei compiti della magistratura. Guarnieri, in un volume intitolato «Giustizia e politica» pubblicato nel 2003, ha sostenuto che la magistratura italiana è tra le più indipendenti del mondo grazie ad un sistema di autogoverno basato sull’azione di organi in parte espressione della magistratura stessa.
Quindi le mie domande oggi sono: quali sono le implicazioni sociali di questo significativo livello di indipendenza della magistratura italiana? Come si posiziona la magistratura italiana rispetto al pluralismo di fatto che sta conoscendo l’Italia di recente grazie ai flussi migratori? Qual è il ruolo della magistratura italiana di fronte ai cambiamenti sociali all’interno delle maggioranze? In altre parole, qual è il ruolo della magistratura italiana rispetto alla alterità, all’applicazione di diritti o di concetti giuridici o addirittura di pratiche consuetudinarie che non fanno parte del consueto bagaglio professionale dei giudici?
Per rispondere a queste domande, vi propongo di riflettere con me sul concetto di pluralismo, sulla relazione tra alterità e discriminazione e sul pericolo che l’attivismo giudiziario possa sfociare in populismo giudiziario. Accennerò quindi alle possibili rappresentazioni della diversità in ambito giudiziario e al modo in cui queste possono finire per facilitare le derive populiste, replicando e potenziando gli stereotipi discriminatori proposti in ambito politico. Concluderò con una proposta alternativa: l’uso delle “consulenze culturali” oppure, in inglese, l’uso delle Cultural Expertise.
Parlando di pluralismo di idee, credo che Magistratura democratica sia stata innovatrice perché ha operato una rottura radicale dell’assetto istituzionale della magistratura stessa negli anni Settanta. Il principio dell’indipendenza della magistratura è centrale. Magistratura democratica negli anni Settanta combatte la magistratura longa manus del Governo per una magistratura radicata nella società, un giudice consapevole della propria autonomia attento alle dinamiche sociali e di esse partecipe. Quindi pluralismo; quindi legittima presenza di diverse posizioni culturali e ideologiche all’interno della magistratura. Dice Livio Pepino nella Storia di Magistratura Democratica: «D’altra parte, che cos’è il pluralismo delle idee se non il sale dell’indipendenza, che la fa essere confronto responsabile e non soggettivismo e casualità?». E ancora: «Che senso avrebbe il principio del giudice naturale se i giudici fossero tutti uguali e non invece portatori di legittime diversità?». Si fa strada il concetto di interpretazioni alternative. L’interpretazione della legge non è più una ricognizione meccanica del significato preesistente e immutabile della norma, ma le viene riconosciuta una valenza creativa essendo essa una scelta tra diverse opzioni possibili in base al testo della norma e al sistema in cui essa si inserisce. E la magistratura acquisisce la consapevolezza che scegliere significa privilegiare alcuni e non altri elementi di valutazione.
Si vede che questi cambiamenti avvengono anche attraverso un dialogo con il mondo accademico. La giurisprudenza alternativa viene vista come terreno di impegno culturale e prioritario. Essa è consistita nella traduzione sul piano giurisprudenziale delle posizioni di non subalternità al sistema, di rifiuto della falsa neutralità, di fedeltà agli imperativi sovraordinati della Costituzione (il progetto emancipatorio di cui all’articolo 3 capoverso, ma anche l’articolo 41 che pone all’iniziativa economica il limite invalicabile della sicurezza, libertà e dignità umana). Giurisprudenza alternativa, dunque, per indicare la promozione di scelte giudiziarie nelle quali si affermi la prevalenza degli interessi funzionali all’emancipazione delle classi subalterne, cui del resto la Costituzione accorda specifica tutela, sugli interessi ad essi virtualmente contrapposti e che non sono protetti da analoga garanzia costituzionale. All’epoca di queste innovazioni, Magistratura democratica aveva una carica dirompente di rottura con il passato. Una rottura che non è stata solamente ideologica ma anche tangibile attraverso il rafforzamento di un’indipendenza reale e istituzionale che ha permesso la lotta alle mafie, la lotta alle corruzioni di vario tipo.
Per parlare di alterità e di discriminazione, dobbiamo venire ai giorni d’oggi. La domanda che vorrei porre oggi riguarda la relazione odierna tra indipendenza, pluralismo di idee e il pluralismo giuridico di fatto che riguarda il contesto sociale e multiculturale dell’Italia odierna.
La posizione giurisprudenziale dell’Italia di oggi nei confronti del pluralismo giuridico di fatto, con cui si sta confrontando di recente a seguito dei flussi migratori, si è sviluppata essenzialmente intorno al concetto di reati culturalmente orientati o di reati culturalmente motivati. Questo concetto, che è stato recepito senza particolare scrutinio nell’Europa continentale, è stato formulato dall’antropologo del diritto olandese Strijbosch. Strijbosch descrive la difficoltà degli individui appartenenti a minoranze etniche i cui valori siano in contrasto a volte con quelli della maggioranza, per cui tali individui si potrebbero trovare a vivere il dilemma di scegliere tra seguire o disobbedire ai precetti della propria comunità oppure a quelli della maggioranza. Questo concetto ha avuto un grande successo negli Stati Uniti perché è stato collegato al concetto di Cultural Defense che poi è stato recepito in alcune prassi dell’Europa continentale in quanto potenziale ragione per l’applicazione di circostanze attenuanti che permetterebbero una diminuzione della pena.
Nel 2017 la Corte di cassazione ha posto un netto rifiuto riguardo all’opportunità di seguire dei ragionamenti giuridici che portino alla diminuzione della pena per ragioni culturali in senso ampio, incluse ragioni religiose. Si trattava del porto del kirpan, il pugnale che tutti i Sikh devono possedere e anche portare addosso. Secondo la difesa, il porto del pugnale era giustificato dal credo religioso per essere il kirpan uno dei simboli della religione Sikh ed era stata per questo invocata la garanzia posta dall’articolo 19 della Costituzione sulla libertà di professare liberamente la propria religione. La Corte di cassazione passò in rassegna i casi pratici in cui si ritiene sussistente il giustificato motivo, come il porto di un coltello da parte di chi si stia recando in un giardino per potare gli alberi o dal medico chirurgo che porta il bisturi nella borsa, ritenendo che lo stesso comportamento posto in essere dai medesimi soggetti in contesti non lavorativi non è giustificato e integra il reato. La Corte di cassazione concluse che il porto del kirpan, in quanto comportamento riconducibile ad un fattore culturale e religioso che possa orientare le azioni del soggetto agente, fuoriesce dal cosiddetto giustificato motivo. E quindi non ritenne configurabile la scriminante in causa per una serie di argomentazioni traslate dal piano generale dei principi del diritto penale e da quello particolare dell’inderogabile rispetto della sicurezza pubblica.
Molti in Italia si sono già espressi in merito. Il mio suggerimento qui è che alle opposizioni binarie tra “cultura sì” o “cultura no” c’è un’alternativa che è data dal concetto di Cultural Expertise. Questo concetto è ora emergente nelle scienze sociali ed è stato formulato nel 2009 (vd. Holden, L. ed. Cultural Expertise and Litigation, 2011 e Holden, L. ed. Cultural Expertise and Socio-Legal Studies, 2019), quando invitai a Parigi gli allora più noti esperti degli ordinamenti giuridici dell’Asia meridionale che venivano regolarmente designati in quanto esperti nei processi in cui giudici o avvocati ritenevano di poter beneficiare di una perizia indipendente e neutrale riguardo al contesto socio- antropologico e legale dei fatti, soprattutto in Inghilterra, qualche volta in Olanda e in altri ordinamenti del nord Europa.
All’epoca la Cultural Expertise fu definita sapere specializzato che permette agli esperti di scienze sociali di fornire ai giudici quelle informazioni che riguardano il contesto socio-culturale dei fatti e delle persone coinvolte nel processo e per il beneficio della Corte, nel senso di assistere ma non informare direttamente il processo decisionale. Quest’ultima precisazione è importante perché sottolinea una differenza fondamentale tra la Cultural Expertise e la Cultural Defense. Mentre la Cultural Defense è una forma particolare di Cultural Expertise, quella che viene usata dall’avvocato difensore allo scopo di ottenere una mitigazione della pena (con le cosiddette circostanze attenuanti), la Cultural Expertise è un procedimento neutrale, in senso processuale, e ha come scopo esclusivamente quello di assistere l’autorità decidente.
Facciamo un esempio pratico: i cosiddetti «Honour Killing»” che purtroppo si sono verificati anche in Italia tra alcune comunità diasporiche. Questi delitti in genere hanno una copertura mediatica che mobilizza le frange populiste che sostengono che alcune popolazioni siano portatrici di valori contrari ai principi delle maggioranze locali o autoctone. Molto spesso si tratta di agende politiche rivolte a sostenere atteggiamenti discriminatori di più largo raggio. In termini molto generali, le scelte editoriali dei media possono spiegarsi con l’attrazione dilagante che stanno esercitando i vari tipi di populismo a livello globale. Quello che ha fatto la magistratura in Italia fino ad ora è stato prendere distanza dalle istanze di difesa culturali che porterebbero a condonare dei crimini. In alcuni rari casi ha accolto le istanze della difesa culturale riconoscendo qualche circostanza attenuante. E non intendo qui commentare il merito delle decisioni. Vorrei però far presente un rischio non indifferente che è quello di dimenticare l’impegno della magistratura a difesa dei gruppi vulnerabili, degli oppressi e dei gruppi sociali svantaggiati.
Sebbene condivida le posizioni che diffidano delle interpretazioni culturaliste che condonano tout court, il rischio è quello di passare dall’attivismo sociale al populismo giudiciale e dare per scontato in ogni caso che interi gruppi minoritari giustifichino dei comportamenti reprensibili. A causa di una certa paura o forse anche a causa di una mancanza di conoscenza o di una mancanza di strumenti adeguati per valutare gli argomenti culturali, la magistratura ha finito per confermare, sebbene formalmente negandola, la tesi molto superficiale secondo cui certe minoranze condonano comportamenti che per le maggioranze sarebbero altamente reprensibili.
Nel caso per esempio degli «Honour Killing» in Pakistan, bisogna sapere che anche se coloro il cui onore è stato leso subiscono forti pressioni sociali, la legge in Pakistan non ha mai condonato l’«Honour Killing». E anzi di recente è stata adottata una legge anti-«Honour Killing» che di fatto agisce come aggravante dell’omicidio. Quindi in questi casi la presenza di un esperto potrebbe aiutare a dissipare facili stigmatizzazioni, spiegando appunto che da una parte ci sono delle pressioni sociali ed economiche che spiegano accademicamente e quindi descrittivamente la frequenza degli «Honour Killings» ma che, d’altra parte, questi fatti non sono quasi mai giustificati tout court dalla società e ancora più spesso non lo sono dalla legge. E quindi io ritengo che la Cultural Expertise, non in quanto Cultural Defense ma in quanto perizia culturale, sottoposta alle regole delle consulenze e perizie della procedura penale, potrebbe essere di aiuto per i giudici.
Vorrei concludere evidenziando che la Cultural Expertise è già presente implicitamente quando la magistratura si impegna direttamente in considerazioni e argomenti culturali o esplicitamente quando viene designato un esperto culturale. Il problema è che fino ad ora vi è stata una mancanza di riconoscimento di questo fenomeno: ciò comporta il rischio che la Cultural Expertise non sia sottoposta ad un adeguato vaglio e quindi possa veicolare delle discriminazioni implicite o esplicite, specialmente in quest’epoca di populismo. Sono convinta che la magistratura italiana sia stata particolarmente accorta nel mantenere l’indipendenza che ha consentito a questo Paese di difendere i propri strumenti di controllo democratico fino ad ora.
Vorrei concludere dicendo che in questa fase molto delicata, in cui si sta verificando una situazione di multiculturalismo di fatto in concomitanza con un populismo dilagante, se la magistratura non considera l’apertura agli aspetti culturali, il rischio potrebbe essere che si passi dall’attivismo giudiziario al populismo giudiziario.
* Trascrizione dell’intervento (a cura di Paola Iofrida) tenuto il 2 marzo 2019 al XXII congresso nazionale di Magistratura democratica, nell’ambito della Tavola rotonda «Le regole sotto attacco. Stato di diritto e pulsioni demagogiche»