Imparziali non indifferenti: i giudici del lavoro e il lavoro che cambia
In questi ultimi anni è emersa nella giurisprudenza del lavoro una reazione al tentativo compiuto nei decenni precedenti di ridurre gli spazi della giurisdizione attraverso interpretazioni letterali restrittive, dirette a creare uno schermo non valicabile tra la formulazione lessicale delle norme e la realtà economico sociale del mondo del lavoro e della previdenza, indicando nel legislatore, molto spesso inteso come legislatore storico, l’unico interprete dei valori costituzionali e negando al giudice l’attività di interpretazione sistematica, intesa in senso proprio e corretto, di attribuzioni di significato coerenti con i precetti espressi dalle fonti superiori in un ordinamento a organizzazione gerarchica.
Questa impostazione formalistica era ed è in se stessa una mistificazione. Nega che l’attività di interpretazione implichi necessariamente una scelta di significato, di cui quello riduttivo è uno tra i diversi possibili, nega che l’ordinamento abbia valori fondanti che indicano criteri di scelta tra più significati, nega che l’interpretazione letterale contenga in realtà una scelta di significato, che semplicemente non esplicita quale sia il bilanciamento tra i valori in conflitto e in definitiva nega la funzione stessa della giurisdizione che è risoluzione di conflitti, quali si manifestano nel concreto svolgersi dei rapporti giuridici nell’evoluzione del substrato economico sociale di cui sono espressione.
Soprattutto questa impostazione, che viene anche oggi da taluno celebrata come misura della imparzialità del giudice, ha mostrato il suo limite intrinseco, come dimostrano le recenti sentenze della Corte di cassazione sul salario minimo legale. Queste pronunce, di fronte alla non più negabile realtà di una distorsione degli strumenti legali di regolazione delle relazioni industriali e di disciplina negoziale dei rapporti di lavoro, ha preso le mosse dalla elaborazione giurisprudenziale dell’art. 36 della Costituzione fondata sulla natura precettiva della disposizione costituzionale ad obbligatoria applicazione da parte del giudice e dunque da una interpretazione di sistema che trae direttamente la regola dalla norma costituzionale. La magistratura del lavoro viene chiamata a un corretto svolgimento del ruolo attivo, che le è istituzionalmente affidato in un ordinamento democratico, di controllo giurisdizionale di conformità dei rapporti negoziali al principio di legalità.
Analogamente, attivata da giudici di merito dissenzienti rispetto a una giurisprudenza di legittimità volta a teorizzare un formalismo riduttivo delle tutele, la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittime sia la normativa che limita gli ambiti valutativi, di intervento e sanzionatori della tutela giurisdizionale del c.d. jobs act, sia le interpretazioni restrittive della legge Fornero adottate dalla giurisprudenza di legittimità nell’ottica neoliberista propagandata dal legislatore storico (e talora espressamente richiamata in sentenza quale argomento a supporto).
Queste pronunce riaffermano la gerarchia delle fonti e dei valori, gerarchia non disponibile dal legislatore e alla cui attuazione sono primariamente chiamati i giudici di merito e di legittimità nell’attività interpretativa e applicativa del diritto.
A maggior ragione questa riaffermazione di ruolo deriva dalle sentenze della Corte di Giustizia, che chiama ripetutamente i giudici nazionali all’interpretazione conforme rispetto a norme che per loro natura hanno e non possono che avere formulazioni ampie, dovendo essere applicate in sistemi nazionali diversi e la cui interpretazione viene affidata agli organi dei singoli Stati, e così per il controllo di legittimità ai giudici, che devono realizzare una coerenza tra il sistema nazionale e quello dell’Unione. A questo proposito non si può tacere delle vicende che il giudice di legittimità ha originato, rispetto a diritti quali le integrazioni per i nuclei familiari, vicende nelle quali è toccato alla Corte Costituzionale e alla Corte di Giustizia richiamare i principi di gerarchia delle fonti e di interpretazione conforme alle fonti sovraordinate. Vicende che hanno dilatato inutilmente la realizzazione di diritti la cui funzione è intrinsecamente connessa alla tempestività del loro esercizio.
Vi è quindi un mutamento, almeno in una parte della giurisprudenza, sollecitata da queste pronunce e dalla frontiera del diritto antidiscriminatorio e di sicurezza sociale dell’Unione, che, entro i tipici, ma ampi confini dei divieti di discriminazione, impone al giudice l’esame nel merito delle scelte datoriali, contrariamente alle previsioni degli articoli 30 della legge n. 183/2010 e 1, comma 43 della legge n. 92/2012, e comunque l’esame di compatibilità della legislazione vigente o di nuova emanazione con la normativa europea.
Si apre la prospettiva di una riappropriazione di una funzione giurisdizionale a cui è coessenziale la cognizione del fatto che origina il conflitto, espressione della concreta realtà dei rapporti su cui le decisioni sono destinate ad incidere e delle loro molteplici e non prevedibili manifestazioni in connessione con l’evoluzione continua del sistema sociale ed economico a cui una interpretazione rigida e formale non può dare risposta. È attraverso l’applicazione diffusa degli operatori alle molteplici realtà che la norma assume significato e si inserisce nell’ordinamento. È rimessa all’interprete la verifica della razionalità degli effetti regolativi sulla fattispecie concreta e della coerenza sistematica, in un sistema gerarchico rimettendo l’esame alle Corti superiori quando le possibili, alternative, attribuzioni di significato non la consentano.
Il giudice del lavoro è chiamato oggi a operare su molteplici fronti, aperti da un arretramento dei diritti, ma anche dalla frammentazione dell’organizzazione del lavoro connessa a esternalizzazioni al ribasso di costi e sicurezza: l’aspetto retributivo, la sicurezza sul lavoro, la corretta identificazione dei soggetti obbligati, l’elusione delle responsabilità nella gestione del rapporto, pongono problemi nuovi che costituiscono una sfida che non può essere affrontata con atteggiamenti formalistici e passivi, che snaturano il diritto del lavoro in un diritto neutrale senza più funzione di tutela della parte debole del rapporto, qual è al contrario assunto dalla Carta Costituzionale.
L’aumento degli infortuni sul lavoro, e in particolare di quelli mortali per inosservanza di elementari misure di sicurezza, sono la spia di un arretramento culturale e di sensibilità rispetto a questi problemi, quale ha trovato anche espressione nell’arretramento della elaborazione della giurisprudenza penale, a cui va prestata la massima attenzione e il massimo contrasto, essendo frutto di una concezione del lavoro servente al profitto del sistema economico e non quale strumento di emancipazione della persona secondo la visione della Carta Costituzionale.
Il gruppo lavoro di Magistratura democratica