Immigrazione

 

Il tema dell’immigrazione è divenuto uno dei banchi di prova sui quali si sta giocando la tenuta stessa dello stato di diritto e dell’indipendenza della giurisdizione. 

               Da quando il nuovo Governo si è insediato abbiamo assistito a una proliferazione della decretazione d’urgenza in questa materia, accompagnata da una campagna mediatica tesa ad avallare l’idea che fosse necessario contrastare “l’invasione” dei migranti e che, quindi, occorresse far fronte a una vera e propria emergenza.

               Nello scorso aprile il Governo italiano aveva annunciato lo “stato di emergenza su tutto il territorio nazionale per fronteggiare l’eccezionale incremento dei flussi di persone migranti” che avrebbero messo a dura prova il nostro sistema di accoglienza. In realtà, c’è stata una riduzione generalizzata dei posti nell’accoglienza in Italia, specie nei centri di piccole dimensioni. Nonostante il D.L.vo n. 142 del 2015 abbia recepito la direttiva europea sull’accoglienza, con l’obbligo per il nostro Paese di adottare piani annuali di programmazione dell’integrazione e dell’accoglienza dei migranti, consultando anche le associazioni del terzo settore, nessun Governo vi ha dato seguito negli ultimi anni. In conseguenza, siamo il Paese europeo che, in rapporto alla popolazione, accoglie da sempre meno richiedenti asilo della media europea.

               Lo stato di emergenza è una misura “permanente” che ha caratterizzato gli ultimi venticinque anni nella gestione del fenomeno migratorio nel nostro Paese. E’ del tutto evidente, invece, che la migrazione sia un fenomeno strutturale, integrato nella storia dell’umanità, che come tale va gestito, sapendo che può essere una risorsa per lo sviluppo, garantito da politiche di sicurezza diverse da quelle che individuano nell’esasperazione della repressione penale la risposta alle paure sociali, alimentate da una rappresentazione distorta.

               La storia ci sta insegnando che gli esodi generati da profonde diseguaglianze economiche, squilibri strutturali di beni e servizi, guerre e carestie, non possono essere fermati con divieti e sanzioni e con il restringimento degli spazi di soggiorno regolare. Questi, invece, servono solo ad alimentare lo sfruttamento lavorativo dei migranti o il loro reclutamento da parte di gruppi criminali e sono contro l’interesse pubblico. A fronte dell’impossibilità oggettiva di rimpatriare tutti i migranti, queste scelte politiche finiscono per alimentare la marginalità sociale generatrice di una diffusa percezione d’insicurezza dei cittadini, ipnotizzati dall’ipertrofia di norme penali. 

               La riforma del sistema di accoglienza - con la riduzione drastica dell’accoglienza diffusa gestita dagli enti locali e il potenziamento dei grandi centri gestiti dalle prefetture ove, però, si riducono i servizi offerti sono il preoccupante  sintomo di una volontà politica contraria ad agevolare forme di integrazione sociale e lavorativa dei richiedenti asilo. Invece di attuare una seria programmazione per gestire il fenomeno migratorio e trasformarlo in una risorsa per il nostro Paese, si attuano politiche disumane attraverso un susseguirsi di decreti legge, utilizzati al di là dei presupposti costituzionali, che stridono con la normativa sovranazionale e con la stessa Costituzione italiana., oltre che con la realtà. L’attuale maggioranza parlamentare ha posto in essere azioni volte a rendere sempre più oneroso e complesso l’ingresso sul territorio nazionale, attraverso norme e disposizioni che, nell’intenzione del Legislatore, avrebbero dovuto avere un effetto dissuasivo sulle intenzioni dei migranti di accedere in Europa dal nostro Paese. L’aumentato numero degli sbarchi ha drammaticamente smentito questa previsione. 

               In questa linea politica, vanno intesi la frapposizione di continui ostacoli all’azione di salvataggio svolta nel Mediterraneo dalle navi  ONG; perseguita sia attraverso i fermi amministrativi previsti dal decreto “Piantedosi”, sia attraverso le lunghe rotte imposte per fare sbarcare i migranti, inclusi gli sbarchi in Libia, nonostante sia acclarato che questo Paese non possa essere definito un “porto sicuro”, secondo la normativa sovranazionale. 

Contemporaneamente attraverso la nuova normativa il governo vorrebbe restringere: 

a)     il campo di applicazione della protezione speciale, escludendola per le persone che in Italia avevano costruito una vita privata e familiare, in violazione del dovere di rispettare l’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti Umani e l’art 7 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea secondo la declinazione fattane dalla giurisprudenza delle Corti. 

b)     La possibilità per i richiedenti asilo di far valere il proprio diritto, attraverso l’estensione delle procedure accelerate, con termini inidonei a garantire l’effettività del diritto di difesa e del diritto a un ricorso effettivo; mentre si allargano le ipotesi di trattenimento dei richiedenti asilo, in contrasto con la direttiva europea che prevede che il trattenimento sia l’extrema ratio cui ricorrere in mancanza di misure alternative.

               A fronte di ciò non si attivano canali legali di ingresso. L’aumento delle quote di ingresso di chi ha già un’offerta di lavoro in Italia, infatti, non sembra centrare l’obiettivo. Le quote di ingresso in questi anni non hanno funzionato, non solo perché stabilite in misura infima rispetto alle reali esigenze e perché recanti una procedura di attivazione particolarmente complessa (nonostante le semplificazioni introdotte dall’art 2 del decreto legge n. 20 del 2023), ma soprattutto perché pochissimi sono i datori di lavoro disposti a reclutare una persona sconosciuta che vive all’estero, le cui capacità lavorative non hanno la possibilità di sperimentare preventivamente. L’incontro tra domanda e offerta di lavoro a livello planetario, in un Paese dove non funzionano neanche a livello locale, è una finzione che in questi anni ha aiutato solo chi lucra sulla pelle dei migranti.

               Anche solo immaginare, infine, che il traffico di esseri umani si combatta con l’innalzamento esorbitante delle pene per i c.d. scafisti, è solo un’illusione che alimenta il mito del panpenalismo, al fine di anestetizzare le paure sociali e tacitare le coscienze, individuando un nemico da combattere, anzi da abbattere.

               La previsione penale, poi, è strutturata con una formula così ampia e indeterminata che pone seri problemi di aderenza ai principi costituzionali, autorizzando interpretazioni che potrebbero estenderne l’applicazione anche a chi interviene per garantire aiuti umanitari. Applicare tale fattispecie di reato a chi “dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato” pone sullo stesso piano condotte profondamente diverse tra loro, con una pena edittale minima elevatissima. 

               L’esperienza dei processi penali celebrati contro i c.d. “scafisti” ci insegna, infatti, che chi si assume il rischio di condurre l’imbarcazione che ospita i migranti è di regola una persona altrettanto vulnerabile, alla quale si affida il timone in cambio della gratuità del viaggio o altri modesti vantaggi. Insomma: il più povero tra poveri, non certo il gestore del traffico e neppure un tassello della criminalità organizzata transnazionale che organizza il traffico di esseri umani. Per i timonieri degli scafi la pena prevista dall’art 12 del D.lvo n. 286 del 1998 (TUI) è già oggi elevatissima; se, per come è usuale, le persone trasportate sono più di cinque, la pena prevista va da cinque a quindici anni. Non erano necessarie, perciò, né inasprimenti delle pene, né nuove fattispecie di reato che non servono a garantire maggiore sicurezza sociale e non tutelano meglio - neppure indirettamente - la vita delle persone che attraversano il mare cercando una prospettiva dignitosa di futuro.

È di questi giorni, infine, la notizia di un accordo bilaterale siglato dalla Presidente del Consiglio con il Presidente albanese per la detenzione su suolo albanese di circa 3.000 migranti al mese.

Nel protocollo si stabilisce che sono a carico dello Stato italiano notevoli spese che includono la costruzione in Albania delle strutture e il trasporto tra i due Paesi dei migranti, del personale tecnico, amministrativo e giudiziario, coinvolti nelle procedure. Un aggravio significativo per l’Erario, rimesso - tuttavia - alla discrezionalità del decisore politico.

Il protocollo presenta criticità sul piano giuridico in ordine alla compatibilità con la normativa interna e sovranazionale.

L’articolo 80 della Costituzione stabilisce che i trattati che comportano un impegno finanziario o modifiche legislative devono essere ratificati con legge.

Non vi è dubbio che il protocollo comporti importanti impegni di spesa per lo Stato italiano, ma stride anche con diverse norme di legge sia nazionali che europee.

In primo luogo quelle sulle procedure per le domande di asilo che attualmente possono essere avanzate solo nel territorio dello Stato membro, alla frontiera, nelle acque territoriali e nelle zone di transito. E l’Albania non rientra in nessuna di queste opzioni per l’Italia”.

Inoltre, deroga alle norme sulla giurisdizione e sulla competenza non solo dei Tribunali, ma anche delle Commissioni Territoriali e degli organi deputati a ricevere le domande di asilo. Inoltre, è diritto fondamentale del richiedente asilo rimanere nello Stato membro durante l’esame della domanda e le procedure di frontiera è prevista solo per domande proposte in frontiera e nelle zone di transito.

Ai magistrati spetta garantire l’effettività dei diritti sanciti dalla Costituzione e dalle Carte sovranazionali. Perché non è possibile rassegnarsi all’idea che un diritto fondamentale protetto dalla Costituzione e dalle carte sovranazionali possa essere svuotato di effettività da prassi amministrative o da una esternalizzazione delle responsabilità che gravano sulla Repubblica italiana.

Siamo piccoli giudici comuni. Ma ci muoviamo in una dimensione costituzionale ed europea. Il nostro impegno non può che partire da questo: misurare l’effettività dei diritti fondamentali al metro di Costituzione, Carta dei diritti fondamentali dell’UE, Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.

In questa attività – che è studio delle fonti, che è osservazione e tentativo di comprensione della contemporaneità – Magistratura Democratica spenderà il suo impegno.