Il saluto del Vice Presidente del CSM, Fabio Pinelli
Ringrazio caldamente Magistratura Democratica per l’invito a questo Congresso nazionale. Il tema posto al centro dei lavori – “Conflitti e diritti in un mondo in movimento” – evoca l'accentuato dinamismo, ma anche l’instabilità, della dimensione sociale e giuridica del nostro tempo, in cerca di nuovi criteri ordinatori. Un tema davvero interessante e sono sinceramente rammaricato di non poter intervenire a un dibattito che, senz'altro, sarà particolarmente stimolante, come è del resto nella tradizione di Magistratura Democratica.
Vorrei comunque, per parte mia, farvi giungere alcune rapide considerazioni con questo breve scritto.
È certamente vero che il mondo è "in movimento", alla ricerca di risposte ai nuovi bisogni sociali e individuali. Ma si tratta di processi che chiamano in causa la solidità delle reti collettive e delle basi giuridiche del vivere assieme. Infatti, da tempo si va evidenziando un disfacimento dei rapporti tra gli individui nella crisi della coesione sociale intorno a principi condivisi. Ciò genera sempre maggiori conflitti nella ricerca di nuovi diritti. Quanto meno la società è coesa, tanto più si accentuano le istanze dei singoli tese alla promozione di diritti personali che non tollerano il confronto con la dimensione collettiva.
E’ questa una società fortemente disgregata, "liquida", le cui tensioni conflittuali non riescono più ad essere contenute dai corpi intermedi, tradizionali regolatori del conflitto. Le formazioni familiari, politiche, sindacali, religiose e solidaristiche, un tempo vere agenzie di mediazione sociale, sembrano avere smarrito la loro originaria funzione, lasciando spazio al conflitto interindividuale che puntualmente sfocia – in assenza di altri canali di sbocco – nella domanda giudiziaria. Oggi ogni conflitto finisce nella giurisdizione, anche se non ogni conflitto può essere risolto con le forme del diritto.
In questa cornice assai densa di problemi prolificano, al di fuori di un quadro d’insieme, i nuovi diritti, non sempre derivanti da reali esigenze collettive e non ancora coperti da una precisa disposizione di legge, ma evocati innanzi al giudice cui si chiede una risposta di tutela. Eppure, questi nuovi diritti possono essere giudizialmente riconosciuti laddove previsti dalla legge, perché il magistrato è con questa soltanto che si deve confrontare.
Si tratta, a mio modo di vedere, di una precisa responsabilità della politica, non tanto del giudice. La politica deve sapersi confrontare con i fermenti collettivi per coglierne l’essenza e trarne le scelte necessarie, anche di natura legislativa, assumendosi la relativa responsabilità. Diversamente, nel disordine normativo che deriva dall’assenza della politica, il giudice finisce per essere non solo interprete, ma creatore di norme nel tentativo di colmare gli spazi lasciati vuoti dalla politica. E, come in un circolo vizioso, l'ipertrofia delle norme, ma anche dei diritti, rischia di innescare ulteriore conflittualità, tanto nel corpo della società quanto all'interno dell'architettura istituzionale, tra i poteri dello Stato e rispetto al potere giudiziario.
Il giudice, chiamato in causa come arbitro del conflitto, diviene così il punto di crisi, chiamato in causa dalla politica per le sue esondazioni e dai singoli per la sua incapacità di fornire soluzioni efficaci alle più disparate domande di giustizia.
Ecco dunque che il magistrato si pone al centro del tema oggetto delle vostre riflessioni per il problema della sua legittimazione nella società del conflitto.
Sul magistrato grava oggi una enorme responsabilità: quella di risultare un credibile ed autorevole organo di risoluzione dei conflitti in un "mondo in movimento"; quella di essere un punto fermo ancorato alla legge e ad essa soltanto, in un dinamismo a volte privo di una direzione univoca, in una evoluzione dei diritti che, se non supportata adeguatamente dall'attività legislativa, espressione questa della volontà popolare, finisce con l'essere una involuzione della dimensione giuridica nel suo complesso.
Questa è la grande sfida che il quadro politico-istituzionale e, per quanto di sua competenza, l'organo di governo autonomo della magistratura, hanno di fronte. La moderna società complessa deve potersi affidare, per la legittima tutela dei diritti di ciascuno, a magistrati riconosciuti come soggetti autenticamente autonomi e indipendenti nell’espressione del loro giudizio e nell'esercizio delle loro funzioni.
E questo riconoscimento collettivo del magistrato deve essere considerato anche da un'altra prospettiva: quella dei doveri di chi è chiamato a questo ruolo di composizione del conflitto. Guardando a società fortemente polarizzate, come la nostra, ci si accorge che esse hanno bisogno di figure terze in grado di risolvere in modo credibile i conflitti, soggetti che per il loro specifico ruolo costituzionale hanno doveri più stringenti di qualsiasi altro funzionario pubblico. Mi riferisco ad attori della giurisdizione che siano anzitutto proiettati nella dimensione del dovere: perché essere magistrato è un potere ma anche, e vorrei dire soprattutto, una responsabilità e un servizio per il Paese.
È anche da come si sceglie di essere al servizio della collettività – e di apparire terzi e indipendenti, non solo di esserlo – che dipende il modo in cui viene avvertita la genuinità del giudizio e l’autorevolezza dell’istituzione. Da questo servizio reso alla collettività da ogni singolo magistrato passa la tenuta del sistema sociale e la stessa sopravvivenza, nel contesto di tumultuosi mutamenti, della cornice politico-istituzionale.