Intervento di Marco Patarnello

Magistrato di sorveglianza, Tribunale sorveglianza di Roma

Tutela dei diritti e spirito del popolo

Le interessanti riflessioni di Paolo Borgna pubblicate in questi giorni su Questione giustizia on line in tema di riforma del processo penale e di comune cultura della giurisdizione mi spingono a proporre alla discussione congressuale alcune considerazioni. Nell’ambito di una riflessione più complessa sul processo penale, Borgna conclude il proprio ragionamento mettendo sull’avviso quanti salutarono con grande entusiasmo il ruolo di creatore di diritto e di diritti svolto dalla giurisprudenza soprattutto negli anni ‘70, evidenziando come la creazione continua di diritti possa finire con l’essere il Cavallo di Troia dell’impetuoso travolgimento della legge ad opera dello “spirito del popolo”.

 

Perché Borgna fa questa riflessione? Posto che compete all’autore fornire la risposta giusta a questa domanda e che la nostra Rivista valuterà se sia utile, come credo, chiedergli di approfondire e sviluppare quella riflessione, proverò a formulare delle ipotesi o comunque qualche considerazione che mi è venuta in mente già da un po’ e che mi pare legata tanto al tema posto da Borgna quanto, soprattutto, al nostro Congresso, precisando che si tratta di riflessioni molto grezze, appena abbozzate, che non ho sottoposto ad alcun vaglio critico, né ad alcuno dei molteplici approfondimenti e verifiche di cui pure avrebbero bisogno.

 

L’attività di creazione del diritto e dei diritti non è a costo zero. Temo che sia un’illusione ottica la soddisfazione creativa che si prova interpretando la legge in termini tali da enucleare un diritto ex novo o da ampliare l’applicazione -e dunque la portata- di un diritto già esistente. Poiché in natura nulla si crea o si distrugge, ma semplicemente si trasforma, l’attività creativa di diritto implica una domanda preventiva necessaria a “pesare” fino in fondo il significato politico e sociale dell’innovazione che ci si avvia a varare: da dove ricavo, da dove sottraggo lo spazio “di diritto” necessario per enucleare, per generare un nuovo diritto? Con quale materiale? Alcune volte la risposta a questa domanda è agevole: in una disputa fra lavoratore e datore di lavoro l’arricchimento della sfera giuridica dell’uno implica un impoverimento della sfera giuridica dell’altro e dunque gli strumenti a disposizione e i valori in gioco consentono una scelta pienamente consapevole e meditata. Più difficoltosa la risposta in altre occasioni: quando si stabilisce che - in quello che può apparire il silenzio normativo - una coppia omosessuale può adottare un figlio, con quale materiale giuridico viene prodotto questo nuovo diritto? Cercando di avvicinarmi ad un terreno che mi è più congeniale, cioè quello del processo penale, quando nell’ambito del reato continuato si stabilisce che la prescrizione decorre dalla consumazione del singolo reato, quale spazio giuridico si è utilizzato per ampliare la sfera di tutela dell’autore del reato?

 

Non è questa la sede per rispondere a ciascuna di queste domande, che peraltro sono solo una piccolissima parte degli specifici interrogativi che dovrebbero porsi in questa prospettiva, ciò che voglio dire è che anche quando sembra che l’enucleazione di un diritto sia a “costo zero”, vale a dire quando si amplia la sfera giuridica di un soggetto senza apparentemente sottrarre alcuna parte del proprio diritto ad un altro soggetto specifico, in realtà si restringe sempre lo spazio di azione - e quindi lo spazio giuridico - di qualcuno: verosimilmente quello dello Stato o al massimo lo spazio giuridico libero potenzialmente a disposizione della comunità.

 

Questa occupazione non è neutra e pochi ne sono consapevoli più di un gruppo di magistrati come il nostro. Ed è la ragione per la quale l’interpretazione creativa di diritto viene operata sempre sulla base della gerarchia di valori contenuti nella Carta costituzionale. Tuttavia, mentre nella piena chiarezza circa la titolarità dello spazio giuridico in contesa (locatore/locatario, lavoratore/datore di lavoro, socio/organo sociale, ecc.) l’intervento creativo di diritto, non spendendo una “moneta” di tutti, non presenta particolari problemi (se non quelli propri dell’attività ermeneutica), anche perché si muove in un perimetro chiaro, in cui i contendenti dispongono degli strumenti e delle leve della lite, quando non vi è alcun titolare dello spazio in contesa l’illusione di una creazione meramente ampliativa di diritto può far abbandonare cautele indispensabili. Cercando di essere più chiari, voglio dire che ampliando la sfera dei diritti individuali si è apparentemente migliorata la qualità della vita dei singoli individui, ma si è occupato uno spazio con conseguenze ancora non adeguatamente esplorate, su cui, forse, solo adesso vengono più compiutamente in evidenza le conseguenze. Vorrei che questo nostro gruppo, che tanta parte ha avuto in questo processo, esplorasse con attenzione, sebbene forse con ritardo, la portata completa di questo percorso, in tutte le sue conseguenze. Tanto per avvicinarsi al mio particolare interesse per il processo penale: un processo penale molto attento ai diritti, ma naufragato in una durata infinita e privo di alcun risultato potremmo giudicarlo un processo garantito? O dovremmo constatare che è un processo ingiusto? Se la comunità chiede ai suoi giuristi di amministrare o realizzare un processo giusto, non gli chiede di renderlo innanzitutto efficiente, come precondizione per qualsiasi valutazione sul suo grado di giustizia? Quando noi tutti, magistrati, avvocati, noi di MD, ci interroghiamo sulle garanzie del processo, non abbiamo innanzitutto il dovere di interrogarci su come rendere il processo efficiente? Questo non perché il diritto del singolo debba essere trascurato o cedere il passo, ma perché sull’altro piatto della bilancia c’è il diritto della comunità ad un ordinamento che tuteli effettivamente chi ha bisogno dell’intervento dello Stato. Se il processo non funziona, non produce i risultati che deve assicurare lo spirito del popolo si accosta alla porta e bussa e chiede conto di ciò che accade e la risposta non può essere semplicemente “non sono fatti tuoi”. La risposta deve essere razionale e lucida, ma ci deve essere. E forse questo discorso non vale solo per il diritto, ma, con i dovuti distinguo, vale anche per altri campi, economia, sicurezza, salute. Se il popolo constata che cresce il divario sociale ed una parte si impoverisce e resta priva di risorse e in definitiva chiede più giustizia sociale non basta ricordare i limiti di bilancio (il rispetto dei diritti dell’imputato, nell’ambito del processo penale), ma occorre anche indicargli come, rispettando i limiti di bilancio, si riequilibra il divario ridistribuendo la ricchezza disponibile (l’efficienza, nell’ambito del processo penale). Sto cercando malamente e confusamente di dire che con la parola populismo si mettono insieme cose molto diverse e non sempre unificabili fra loro e che non sempre si tratta semplicemente di pulsioni emotive o di spinte egoiste e irrazionali. Tocca vedere caso per caso. Ciò da cui noi magistrati democratici non possiamo sottrarci è la necessità di rispondere a queste domande sullo specifico della giurisdizione e dei diritti, approfondendo adeguatamente tutti i profili in gioco e mettendone in evidenza la coloritura politica di ciascuno di essi. Avendo, però, ben presente che essere garantisti e attenti ai diritti è un’attività complessa che implica una visione complessiva delle esigenze in gioco.