Gruppo Lavoro - Quale giudice del lavoro per il terzo millennio?

1. Il diritto del lavoro rappresenta ancora, ed in che misura, lo strumento di tutela e di emancipazione degli uomini e delle donne le cui condizioni di vita dipendono da una situazione di forte soggezione economica e sono per tale ragione soggetti “deboli”?

Questo interrogativo non può ignorare il progressivo aggravarsi di una crisi che trova le sue radici negli anni ’80 e che nel tempo è avanzata attraverso canali diversi ma tutti convergenti verso la contestuale erosione delle tutele e della capacità di organizzazione dei soggetti interessati per difenderle. Il pensiero economico neoliberista che è stato diffuso prima e sostenuto poi, proprio a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, che teorizza l’economia di mercato quale unico mezzo di propulsione per lo sviluppo a vantaggio di tutta la società e baluardo dei valori delle democrazie liberali, ha progressivamente minato la realizzazione del progetto contenuto nell’art. 41 Cost., quale punto di equilibrio tra libertà di impresa e dignità della persona, e come ragione stessa della esistenza del diritto del lavoro: che si caratterizza per essere un settore specifico del diritto civile la cui genesi risiede nella nozione pre-giuridica di subordinazione, intesa come dipendenza economica, espressione dunque di un modello di organizzazione sociale preesistente al diritto dei contratti e indissolubilmente legato al diritto delle persone.

La principale direttrice dell’involuzione è stata la precarizzazione del rapporto di lavoro, passata in Italia attraverso tutte le possibili forme elusive dei rapporti di lavoro subordinato, la moltiplicazione dei modelli contrattuali, l’enfatizzazione ipocrita delle forme di collaborazione autonoma. L’effetto di questa strategia sta nel cedimento su più piani delle tutele e della stessa capacità di mantenerle: l’isolamento dei singoli, la perdita della coscienza della condivisione di situazioni di sfruttamento salariale, l’incapacità di creare forme di coesione e rappresentanza di interessi in grado di coagulare le diverse categorie del lavoro economicamente dipendente, con conseguente perdita di capacità di negoziazione e di incisività di azione delle organizzazioni sindacali.

Né può trascurarsi sotto questo profilo l’intersezione con la normativa sull’immigrazione che, subordinando il permesso di soggiorno all’attualità di una occupazione, ha votato i lavoratori immigrati all’accettazione di rapporti a termine, anche se privi dei presupposti di legittimità, purché rinnovati, concorrendo così al dumping sociale, anticamera del successivo dumping salariale che la precarizzazione generalizzata ha poi ampiamente contribuito a diffondere.

 

2. In questa progressiva erosione culturale - prima ancora che giuridica - della stessa identità del diritto del lavoro, la giurisprudenza è stata in larga parte sopraffatta dai mutamenti e non ha saputo costituire un serio argine all’avanzare della disgregazione dei diritti, sia per inefficienze organizzative con ritardi inaccettabili nella tutela, sia per chiusure culturali che hanno impedito la necessaria comprensione delle dinamiche sociali, fino alla tentazione attuale di adattarsi a un formalismo fatto di concetti meramente enunciati, senza più il mordente del legame con l’effettiva realtà dei fatti e dei rapporti che vengono portati in giudizio. Un formalismo che si esprime, anche nelle sentenze del giudice di legittimità, in continui richiami a principi astratti, di cui si perde il collegamento con la concretezza dell’essere del rapporto di lavoro, con la sua specificità, con l’incisione dei diritti della persona, con il contenuto economico di un rapporto strutturalmente diseguale.

Per conto suo, spesso la giurisprudenza di merito, volutamente interpretando in modo riduttivo il ruolo che il codice di procedura attribuisce al giudice del lavoro, indulge in astratte disquisizioni in diritto per non dare ingresso al fatto, all’accertamento del quale viene sempre più spesso negata l’istruttoria con considerazioni formali o aprioristiche sulla formulazione dei capitoli di prova, sull’insufficienza della astratta idoneità dimostrativa dei fatti allegati, su supposte decadenze, fino ad arrivare a pronunce di inammissibilità della domanda fondate su formalismi interpretativi (poi correttamente sconfessati dal giudice di legittimità), nella pretesa, illegittima ed iniqua, che sia la parte che chiede tutela ad essere gravata dell’onere di introdurre un nuovo procedimento.

La giurisprudenza di legittimità in alcune salienti occasioni si è mostrata sensibile soprattutto all’individuazione prima ed alla tutela poi degli interessi dell’impresa, piuttosto che a marcare quei necessari limiti della attività imprenditoriale che costituiscono il presidio della dignità della persona, in un ribaltamento dell’art. 41 della Costituzione infarcito di opzioni meramente ideologiche che stravolgono e sovvertono l’impianto stesso del diritto del lavoro come espressione del 2° comma dell’art. 3 Cost.

 

3. Il dato preoccupante è quello di una giurisprudenza, di merito e di legittimità, che di fronte ai grandi cambiamenti legislativi mostra di ignorare l’ordinamento gerarchico delle fonti di diritto, sfugge al confronto con le norme di diritto comunitario e con la Costituzione per dare conto della razionalità del risultato interpretativo rispetto ai principi che le norme di legge ordinaria dovrebbero attuare. È un atteggiamento questo di subordinazione culturale al pensiero politico del momento che solo a distanza di tempo, per la felice iniziativa di pochi, finisce per trovare una sanzione in pronunce di illegittimità costituzionale: nel frattempo, però, con l’applicazione acritica delle norme poi rivelatesi incostituzionali, ha determinato il contenuto delle pronunce che hanno regolato i rapporti tra le parti, disincentivando così l’accesso alla giustizia. Con le sentenza n. 194 del 2018, che ha annullato gli automatismi sanzionatori in caso di licenziamento illegittimo introdotti dal Jobs act, la Corte costituzionale ha rimesso “il giudice del lavoro, nell’esercizio della sua valutazione discrezionale, al centro di quel delicato meccanismo che tende alla individuazione caso per caso di un punto di bilanciamento tra interessi contrapposti”: questo, dal nostro punto di vista di magistrati, è l’insegnamento più cospicuo, che più responsabilizza il nostro ruolo nel momento stesso in cui lo reintegra, a scapito della contingente volontà legislativa.

Il ruolo del giudice, quale soggetto attivo del processo e dell’interpretazione giurisprudenziale che costituisce presidio della legalità innanzitutto costituzionale, va dunque rivendicato come imprescindibile in un sistema a organizzazione gerarchica delle fonti nel quale l’ispirazione ideologica della maggioranza politica del momento non può comunque travolgere regole e principi.

E all’indipendenza culturale e alla capacità di presidiare i valori costituzionali con interpretazioni coerenti ispirate a una razionalità di sistema vanno ascritte recenti pronunce di merito come la decisione sui riders Foodora, o altra in materia di contratti a termine, a breve pubblicate e commentate su Questione giustizia on line, che offrono una prospettiva di largo respiro e realizzano, radicandosi nella realtà del rapporti giuridici e del loro contenuto economico-sociale, quella che è la vera funzione dell’attività giurisdizionale, momento autonomo di attuazione dell’ordinamento giuridico.

 

4. La crisi economica ha sicuramente portato a un ulteriore arretramento globale di tutele e condizioni di lavoro e l’aumento dei morti sul lavoro ne è un portato, con la costante diminuzione delle condizioni di sicurezza, viste come costo per l’impresa e impossibili da attuare realmente rispetto a rapporti di lavoro del tutto precari se non addirittura a settimana o giornata.

L’attuale situazione di sotto retribuzione e precarietà, che nel nostro paese si nutre impunemente anche di caporalato più o meno legale, dalle forme di mero reclutamento della manodopera all’uso indiscriminato delle esternalizzazioni anche nel settore pubblico con completa dissociazione tra il soggetto che beneficia del lavoro e il soggetto che fa da tramite per la gestione del rapporto, impone il ripensamento di una organizzazione sociale che ponga nuovamente al centro il diritto al lavoro come mezzo per una esistenza libera e dignitosa, e come principale titolo di legittimazione alla partecipazione alla vita politica del paese

La globalizzazione quale giustificazione alla riduzione dei diritti e delle tutele porta in sé l’ipocrisia di una interdipendenza non ineluttabile ma volutamente creata dai medesimi soggetti economici che ne hanno beneficiato, spostando la produzione nei paesi più poveri per avvantaggiarsi del costo inferiore della manodopera, di una tassazione ridotta, della inesistenza di regole da rispettare a tutela dei lavoratori o per la difesa dell’ambiente. È l’espressione massima del rifiuto di associare il concetto di responsabilità etica prima ancora che economica alle scelte del fare impresa, presentato come risultato pressoché meccanicistico, privo di centri di imputazione che abbiano un volto.

Oggi questo spostamento è sempre meno favorevole, ma solo un diverso ruolo dell’Unione europea che intervenga finalmente nel settore della tutela dei diritti sociali e nel riequilibrio delle legislazioni degli Stati Membri può portare a risultati apprezzabili di contenimento di questa libertà di impresa senza regole.

 

5. È necessario riaffermare e trovare la forza per riaffermare i valori di solidarietà e preminenza del bene collettivo all’interno di idealità forti che rivendichino alla politica le scelte fondamentali per una organizzazione sociale che ponga al centro la dignità della persona e il diritto a una vita libera dal bisogno.

È indispensabile stabilire – anche nel nostro Paese, come nelle democrazie più avanzate - meccanismi inderogabili di tutela dei livelli salariali, come primo ed imprescindibile portato di una lotta senza quartiere allo sfruttamento lavorativo, uniti ad una rete di protezione universale che possa restituire dignità al lavoro e separarlo in modo netto dalle troppe forme di sfruttamento e schiavitù.

Il reddito di cittadinanza che sta per essere varato anche in Italia, se pure nella configurazione data sconta innanzitutto inaccettabili profili di discriminatorietà, ha comunque il merito di aver portato nella discussione pubblica il tema della necessità ineludibile di strumenti universali di sostegno reddito e di contrasto alla povertà.

È ormai urgente la definizione di un range di tutele universali e comuni ad ogni forma di rapporto lavorativo, perché la storia di questi anni ha dimostrato, se mai ce ne fosse bisogno, che la cittadella del diritto del lavoro arroccata intorno allo schema tipico del contratto a tempo indeterminato ha finito per essere assediata prima, e debellata poi, dall’accerchiamento costituito dalle tante forme alternative di lavoro precario a cui era negata ogni seria tutela.

Si impone un forte cambio di prospettiva, che richiede lungimiranza e capacità di conformare i diritti e le protezioni rispetto ad un mondo di lavoratrici e di lavoratori che, al di là della dimensione digitale pure divenuta strumentario reale, ha urgente bisogno ed ha diritto ad un lavoro dignitoso.

Il giudice del lavoro, secondo lo stesso insegnamento del Giudice delle leggi, continua ad essere il perno del controllo sulla effettiva rispondenza delle riforme al quadro costituzionale ed ai principi sovranazionali. La sua reale indipendenza culturale, e la sua capacità di mantenersi libero da condizionamenti e da spinte omologatrici, saranno i presupposti irrinunciabili per la costruzione di un sistema di garanzie e di tutele capace di ristabilire la dignità del lavoro.