Documento sul settore penale
Nel momento in cui Magistratura democratica celebra questo XXIV Congresso, sono all’esame del Parlamento una serie di disegni di legge di revisione costituzionale che mettono in discussione l’equilibrio di pesi e contrappesi tra poteri dello Stato, l’autonomia della magistratura e l’esercizio indipendente della funzione giudiziaria.
Sotto le affascinanti insegne della “giustizia giusta” e agitando il vessillo della separazione delle carriere come unica possibile garanzia di terzietà del giudice si intravedono progetti di controllo del potere politico sull’esercizio della funzione giudiziaria.
Lungi dal costituire una garanzia per gli accusati, l’introduzione di una rigida separazione delle carriere, rischierebbe di “cristallizzare” il ruolo dei magistrati del pubblico ministero, con il rischio di così modificarne, progressivamente, la cultura professionale, allontanando il magistrato del pubblico ministero dalla cultura delle garanzie, per orientarlo irreversibilmente ad una funzione di mero “avvocato dell’accusa” e di “avvocato della polizia giudiziaria”: polizia giudiziaria che – non è male ricordarlo – costituisce emanazione di un potere esecutivo che si vorrebbe sempre meno vincolato da lacci e lacciuoli.
Un pubblico ministero così riformato e separato rischia di allontanarsi dalla figura disegnata dal Costituente, di primo tutore delle garanzie individuali e dei diritti costituzionali. Un pubblico ministero così riformato e separato rischierebbe di modificare la propria cultura professionale, sempre meno interessata a esercitare il ruolo di “parte imparziale” e sempre più tendente a informare il proprio agire a quello di una parte esclusivamente interessata al conseguimento di un risultato.
Per questo riteniamo che l’appartenenza dei magistrati a un comune corpo professionale, espressamente voluta dal Costituente, rappresenti una positiva conquista da coltivare e valorizzare, piuttosto che un dato negativo da rimuovere e cancellare. È infatti sulla contaminazione, e non già sulla separazione, che riteniamo si debba insistere e scommettere.
La separazione delle carriere non aggiunge peraltro garanzie per gli accusati: come rivelano le statistiche, la magistratura giudicante è già oggi in grado di scostarsi dalle prospettazioni accusatorie in modo evidentemente autonomo.
Dietro il vessillo della separazione delle carriere – in questa disegno riformatore – si delineano peraltro ulteriori aspetti che suscitano grave preoccupazione.
Alla separazione delle carriere farebbe seguito la costituzione di due consigli superiori della magistratura (giudicante e requirente), con una previsione di modifica che disvela in modo evidente quale sia la vera posta in gioco: oggi il governo autonomo della magistratura è affidato alle cure di un organo collegiale presieduto dal Presidente della Repubblica, massima autorità di garanzia, per due terzi da magistrati e per un terzo da giuristi designati – con maggioranze qualificate – dal Parlamento in seduta comune. Elementi – questi – che dimostrano la cura che l’Assemblea Costituente ebbe nell’immaginare il Consiglio superiore della magistratura come “luogo” di incontro tra (tutte) le rappresentanze politiche – portatrici delle istanze sociali – e quelle della magistratura, cui dunque è assicurata autonomia. Ove approvata la riforma costituzionale, i due consigli superiori sarebbero invece composti per metà da esponenti di nomina politica. Il che garantirà alla dimensione politica di governare quella giudiziaria, così mettendo in discussione l’autonomia della magistratura. Si tratta di una preoccupazione che si fa vieppiù viva ove si consideri la fisionomia sempre più marcatamente maggioritaria che sta assumendo l’ordinamento repubblicano (fisionomia maggioritaria che mal si accorda con le istituzioni di garanzia).
Non solo. La maggiorparte dei disegni di legge costituzionale in discussione propone poi di intervenire anche sul testo dell’articolo 112 della Costituzione: così facendo, nel mettere in discussione il principio di obbligatorietà dell’azione penale e nel prevedere che essa sia esercitata nei casi e secondo i modi previsti dalla legge, si disvela – ancora una volta – quale sia la vera posta in gioco: rendere possibile il controllo delle contingenti maggioranze politiche sull’autonomo esercizio della funzione giudiziaria.
Che la messa in discussione dell’esercizio autonomo della giurisdizione sia la vera posta in gioco (e forse l’obiettivo ultimo di alcuni riformatori) è conclusione che si può ricavare anche dalla recente cronaca.
Sempre più espliciti e manifesti si fanno i segnali di insofferenza per l’indipendente esercizio della funzione giudiziaria.
Abbiamo visto (a Milano) il Ministro della Giustizia annunciare davanti al Parlamento l’imminente esercizio di azioni disciplinari fondate su una – da lui ritenuta – erroneità della decisione: un inedito illecito disciplinare per l’assunzione di decisioni non gradite. Abbiamo visto (a Catania e Firenze) esponenti del Governo in carica accusare magistrati della Repubblica di disapplicare la legge in materia di immigrazione nel nome di pregiudizi ideologici (quando invece hanno applicato il diritto UE, preminente sul diritto nazionale); esponenti di Governo che hanno alimentato (o quantomeno avallato) fenomeni di aggressione mediatica di quegli stessi magistrati che hanno assunto decisioni sgradite, al punto da dichiararsi “basiti” per il contenuto delle loro decisioni, fino ad auspicare le dimissioni di quei magistrati sgraditi: altro inedito. Abbiamo assistito (a Firenze) ad una campagna di stampa estremamente aggressiva – alimentata da esponenti politici e accompagnata dalla ancillare iniziativa disciplinare (e, in questo caso, anche penale, a seguito di iniziativa del parlamentare indagato dai pubblici ministeri) – nei confronti di pubblici ministeri, ancora una volta accusati di agire solo in ossequio ad un loro pregiudizio ideologico.
Non siamo più di fronte a fisiologiche critiche al contenuto di decisioni che si ritengono errate. Si tratta di chiare manifestazioni del fastidio che la contingente maggioranza politica coltiva verso l’esercizio indipendente della funzione giudiziaria.
Con il disegno riformatore il sogno di far riaccomodare i leoni sotto il trono sarà a portata di mano. La riforma costituzionale – ove approvata – renderà più facile il controllo della magistratura da parte delle contingenti maggioranze politiche. Tanto più per il fatto che la riforma si innesta in un quadro ordinamentale e culturale – sul quale più volte Magistratura democratica si è pronunciata in senso critico – che ha visto sempre più l’affermazione di logiche di gerarchia e burocratizzazione nell’esercizio della funzione giudiziaria.
La riforma dell’organizzazione degli uffici di Procura ha determinato un’enorme concentrazione nelle mani del Procuratore della Repubblica di maggiori e delicati poteri, in tema di assegnazioni e revoche dei procedimenti, criteri di organizzazione delle sezioni e gruppi di lavoro e comunicazione con i mezzi di informazione. Ciò nel nome di un impiego più razionale delle risorse umane, tecnologiche ed economiche e di un uniforme esercizio dell’azione penale.
Ma la riforma – letta alla luce dei quindici anni di esperienza sinora trascorsa dal suo avvento - non è servita a risolvere in modo efficace i problemi, che vengono (non di rado strumentalmente) denunciati soprattutto nella conduzione delle attività inquirenti.
La riforma degli uffici di Procura non ha posto fine ad iniziative investigative non tarate sulla concreta possibilità di contestare efficacemente nel contraddittorio processuale specifiche condotte di reato; al contrario si registrano, talora, alcune “indagini-scenario”, in cui si cerca di investigare su fenomeni sociali o su situazioni generalizzate, più che specifiche responsabilità penali per ipotesi di reato tassativamente previste. Emergono talora, nella prassi delle Procure, modalità di comunicazione dei risultati investigativi improntate all’obiettivo del clamore mediatico: in sostanza, alle cadute di stile a livello diffuso nelle esternazioni di alcuni sostituti procuratori nel periodo precedente al 2006, si sono succedute analoghe deviazioni, sia pure oramai concentrate a livello dei dirigenti degli uffici inquirenti, alcuni dei quali si sono resi autori di esternazioni quantomeno incaute o ingiustificatamente semplificatorie e superficiali. È talora emersa persino l’insofferenza di alcuni magistrati inquirenti per l’attività di controllo fisiologicamente affidata ai GIP.
Soprattutto, la riforma sta imprimendo nella vita delle procure della Repubblica una curvatura marcatamente gerarchica: l’attribuzione di responsabilità di organizzazione e direzione di un ufficio viene a volte interpretata come attribuzione di poteri autoritari, che mortificano l’autonomia dei sostituti procuratori e sacrificano l’idea di magistratura come potere diffuso che tuttora viviamo come fattore di garanzia (essendo fattori di garanzia i meccanismi che ostacolano la concentrazione di poteri e assicurano possibilità di controllo sul loro esercizio).
Non servono né alla magistratura né soprattutto al Paese, uffici inquirenti con “un uomo solo al comando” e tanti solerti, ma non autonomi “funzionari”.
Occorre conservare un potere di condurre investigazioni diffuso e ramificato, che negli ultimi cinquant'anni (dalla storica sentenza della Corte Costituzionale del 1973 sull’obbligo di idonea motivazione per gli atti di revoca delle assegnazioni nelle Preture, seguita dalla risoluzione del 23 aprile del 1975 con cui il CSM aveva espresso il generale principio della revocabilità dell’assegnazione di un procedimento penale nella fase dell’istruzione solo per “gravi motivi che devono essere precisati nel relativo provvedimento”) ha costituito garanzia da indebite interferenze del potere politico o di altri settori, sia esterni che interni alla magistratura – si pensi soltanto al vantaggio di avere giovani sostituti procuratori operanti in territori diversi da quelli di origine e quindi del tutto liberi da condizionamenti ambientali, che a volte possono pregiudicare l'azione dei loro dirigenti.
È necessario, pertanto, salvaguardare ed interpretare in modo costituzionalmente orientato le previsioni normative primarie e secondarie che regolamentano diritti e facoltà dei sostituti procuratori in tema di assegnazioni e revoche dei procedimenti nonché nella materia delle richieste cautelari.
È per queste ragioni che Magistratura democratica esprime profonda preoccupazione per i disegni di riforma costituzionale attualmente in discussione. Essi – saldandosi ad un tessuto ordinamentale sempre più improntato a logiche gerarchiche (più che di responsabilità funzionale) – può determinare una perdita di autonomia della magistratura (e non solo di quella inquirente: ché la perdita di autonomia della prima non può che riversare effetti anche sui contenuti dell’autonomo esercizio della funzione giudicante).
È per queste ragioni che Magistratura democratica avverte il dovere di partecipare al dibattito pubblico per portare elementi di riflessione che mettano in discussione questo disegno riformatore.
Ma non può evidentemente bastare. Occorre che anche la magistratura sviluppi una diversa cultura professionale e appronti necessari meccanismi ordinamentali.
Sul piano culturale, occorre investire su una figura professionale che rinunci alla spettacolarizzazione della giustizia e – sul piano interno – rifiuti gerarchizzazione degli uffici, burocratizzazione della funzione, conformismo e quieto vivere.
Perché il “garantismo” nell’esercizio della giustizia penale e il “pubblico ministero come organo di garanzia” non restino mere etichette, occorre un serio lavoro – interno alla magistratura – culturale e organizzativo.
Sul piano culturale, promuovendo la figura di un pubblico ministero come primo garante della legalità del procedimento penale. Sul piano ordinamentale, rafforzando la posizione ordinamentale dei sostituti procuratori della Repubblica all’interno degli uffici requirenti e quella dei giudici per le indagini preliminari all’interno degli uffici giudicanti (spesso oberati da carichi di lavoro e urgenze non facilmente governabili e, dunque, non sempre messi nelle condizioni di operare in condizioni ottimali). Non è un caso che quasi tutti gli uffici GIP del Paese manifestino segni di sofferenza organizzativa.
Si tratta di profili sui quali possono incidere decisioni e comportamenti di tutti gli attori della giurisdizione.
I dirigenti degli uffici giudiziari possono fare molto.
Negli uffici requirenti, i procuratori della Repubblica possono farsi interpreti di un esercizio della responsabilità direttiva informato a logiche di razionalità organizzativa e non al principio di gerarchia: immaginiamo un dirigente che – nell’esercitare la responsabilità di assicurare l’uniforme esercizio dell’azione penale e la vigilanza sull’esercizio del potere cautelare – non esercita un potere gerarchico, ma si fa interprete e garante di una linea di condotta dell’ufficio maturata ed elaborata collegialmente, nel contesto di periodiche riunioni di ufficio di cui deve farsi promotore: ciò deve valere nell’elaborazione del progetto organizzativo, nell’assegnazione degli affari – e quando ritenuto necessario – nella revoca delle assegnazioni, nella elaborazione della disciplina dei visti.
Negli uffici giudicanti, i dirigenti assicurare analoghi meccanismi di trasparenza e, soprattutto, assicurare una distribuzione delle risorse all’interno degli uffici che consenta al giudice penale (e al GIP in particolare) di esercitare il necessario e celere controllo, a garanzia della posizione di tutte le persone coinvolte in un procedimento penale.
Molto può fare l’organo di governo autonomo della magistratura.
Nell’elaborare le circolari sull’organizzazione degli uffici requirenti e giudicanti, il CSM dovrà adoperarsi per costruire modelli organizzativi informati alla responsabilità condivisa tra i magistrati dell’Ufficio, con decisioni di cui i magistrati incaricati di funzioni direttive e semidirettive – siano esse giudicanti o requirenti – debbono essere garanti più che autori investiti di una preminenza gerarchica.
Ove questa tendenza culturale trovasse corpo nelle regole ordinamentali e ove il corpo della magistratura assumesse una responsabilità condivisa nella gestione degli uffici giudiziari, a guadagnarne sarebbero non i magistrati italiani, ma le garanzie per i consociati.
Magistratura democratica si impegna a lavorare per questo.