IL RITORNO DEL
GUERRIERO
Appunti per un nuovo
programma politico di MD
Credo che ogni riflessione di un gruppo come il nostro debba
partire dalla consapevolezza del mutamento istituzionale in corso
Riepiloghiamocon la massima chiarezza il percorso in atto
perché il cambiamento ci richiama alle
nostre responsabilità di giuristi
democratici: [1]
un sistema elettorale che,
tramite il premio di maggioranza e, ancor di più, con il ballottaggio, comprime
la rappresentanza e schiaccia le minoranze, nella logica vincitore-vinti; una
sola camera con poteri politici pieni e con procedimenti dominati
dall’esecutivo; un’attività legislativa in cui la deliberazione rischia in ogni
momento di ridursi ad approvazione
veloce delle proposte governative; controllo maggioritario, rafforzato
dal premio di maggioranza, delle nomine di garanzia (presidente della
Repubblica, giudici costituzionali, membri del CSM, presidente della Camera, e
successive decisioni a questi attribuite); minaccia di scioglimento della
Camera in caso di dissenso dal Governo: tutte questioni in ballo nel processi
di riforma in corso, che restano in piedi anche nelle nuove versioni dei testi
in discussione, pur emendati rispetto agli originari.
Di
fronte a tutto questo mi chiedo dove pensi di andare quella parte della
magistratura che vuole alzare le
barricate sulle ferie o sulla responsabilità.
Esiste
perciò per noi un problema importante di comprensione delle lezioni della
storia, di come si sia arrivati a questo punto, delle forze in campo oggi,
delle possibilità di difesa non dell’esistente ma di un rovesciamento
complessivo della prospettiva. Si esige lacapacità di apprendere dalle
situazioni e di confrontarsi con onestà con i mutamenti anche sgradevoli
intervenuti per oggettive ragioni che
meritano di essere analizzate.
Credo che uno dei limiti di Md in questi anni sia stato di
avere smesso di intervenire sull’evoluzione della storia e della società,
muovendo dalle proprie premesse
culturali e politiche. La nostra voce si è fatta progressivamente flebile.
Ripiegati sulle questioni di gestione, organizzazione, realizzazione di noi
all’interno dei nostri uffici, sulle nostre aspirazioni individuali,abbiamo
trascurato il progressivo mutamento dell’ideologia e del senso comune in una
certa parte della magistratura.
Si tratta oggi di capire come
ritornare ad essere di nuovo forza di
cambiamento istituzionale e di resistenza costituzionale come negli anni sessanta e settanta;
come lavorare per la difesa della
Costituzione che significa non rifiutare a prescindere il cambiamento ma garantire una forma politica che si basa sulla democrazia partecipata, dove le
decisioni collettive procedono attraverso contributi dal basso, cioè dai
bisogni sociali, dalle idee di giustizia
e di libertà che si formano nella capitale finanziario. E quindi cercare, come
un tempo, tutti gli interlocutori, politici, sociali, culturali,
istituzionalicon i quali riprendere un percorso comune per una visione del
mondo “di sinistra” che sappia prendere atto dellecontraddizioni del mondo
reale e della necessità di una
comprensione aggiornata delle attuali linee di divisione della società non più comprese
nell’alternativa destra/sinistra.
Si tratta di riaffermare principima al contempo guardare con
occhio critico ai nuovi conflitti del
mondo globalizzato e a come essi si riflettono sul modo di essere della
magistratura, della giurisdizione, e
sull’idea di giustizia.
Senza che suoni censorio per alcuno, siamo
tuttavia consapevoli che la nostra
capacità di analisi sia stata in questi anni impari rispetto ai compiti che avremmo voluto assolvere anche
per l’evaporazione della sinistra politica e l’imprevista improvvisa scoperta di quella che è stata definita la
“parassitizzazione” delle organizzazioni di
sinistra ad opera degli agenti neoliberisti che hanno tessuto la storia
ideologica di questi ultimi decenni.
E’ stato osservato che alla sinistra è accaduto “ciò che nel
mondo animale capita ad alcuni insetti, ai quali vengono iniettati, da altri
insetti aggressori, le proprie uova, la propria progenie, destinata a nutrirsi
del corpo ospitante che viene spolpato dall’interno. I partiti parassitizzati
dalle ideologie neoliberistiche sonogusci svuotati che ospitano la vita
altrui”.
Nei confronti della magistratura, dei suoi poteri di
regolazione, controllo, difesa procedimentale delle istanze e degli interessi,
privi oggi di rappresentanza politica e di quindi di tutela e prospettive politiche, l’intero quadro
politico muove per realizzare l’antica aspirazione all’uniformazione. Un
obbiettivo perseguito in due modi: a livello normativo con la riduzione degli
spazi di indipendenza; a livello ideologico con il ritorno delle concezioni per
cui la legge è solo autorità posta che il giudice deve
attuare senza curarsi delle ragioni e degli interessi sottostanti, della
ragionevolezza delle soluzioni adottate, della loro accettabilità sociale,
della giustizia fondata su valori condivisi. E’ concessoal più di proporre
questioni di legittimità costituzionale o di obbedire ad autorità sovranazionali come se si trattasse di sostituire a una norma interna un altro
tipo di norma che invece e fortunatamente si qualifica e caratterizza per ben
altro spessore analitico.
Giovanni
Palombarini ha fatto un lungo elenco dei momenti in cui si è verificata
l’assenza, il silenzio o quanto meno una voce flebile di
MD.
Il principale momento di silenzio chiama in causa più di ogni
altro la responsabilità del gruppo: l’assenza nel contrastare il processo involutivo delle istituzioni repubblicane.
Nulla so dei nostri interna corporis, faccio ammenda per avere
partecipato poco, pur avendo cercato di
tradurre nei fatti, nel lavoro sul campo l’essere di MD e l’essere
riconoscibile e giudicabile come tale, rivendicando di essere magistrato con una precisa collocazione politico
-culturale che si riflette sul modo di essere giudice, sul modo di stare e di
dirigere un ufficio giudiziario.
Detto questo, a me sempre che la solitudine in cui è stato
lasciato in questi anni Mimmo Gallo nelle iniziative sue e dei Comitati
Dossetti per la Costituzione sia inspiegabile.
Così come il distacco da organizzazioni e associazioni come Libertà e Giustizia, il
frastagliato universo di sigle, associazioni, comitati nei quali si è articolata la al momento debole difesa contro
il cambiamento in senso autoritario di
regime che è ciò che sta avanzando in questa fase storica, una dittatura del
presente che si traduce nell’imporre come inevitabile e necessario tutto ciò
che sta accadendo, tutte le trasformazioni che si stanno attuando perché nulla
può essere diverso da come è, tutto non può che andare in un certa direzione e
chi si oppone è un irredimibile passatista o un sabotatore. In tal modo
inducendo alla passività e alla rinuncia a qualsiasi protagonismo alternativo,
non senza accompagnare tale pressione ideologica con esplicite minacce.
Il silenzio sulla legge elettorale e su riforme
costituzionali realizzate da un parlamento delegittimato mi sembrano,
ripeto, il segno più evidente di questa
nostra autoemarginazione più o meno indotta da ogni rilevanza politica.
Eppure a me sembra che da una legge elettorale che punta a
dare tutto il potere ai “vincitori”, riducendo all’insignificanza se non al
silenzio, minoranze e oppositori, che pretende di attribuire a chi ha vinto le elezioni di potere fare a
piacimento come se il voto gli attribuisse il diritto ad avere sempre ragione,
la conseguente insofferenza verso i poteri di controllo e la magistratura in primo luogo, impaccio non tollerabile per “il vincitore”,
dovrebbe essere per noi tema principale
di discussione e azione.
La rivitalizzazione di MD passa dalla presenza di MD in Area,
per dibattere e partecipare
all’autogoverno con soggetti che non
hanno la stessa storia ma la stessa
preoccupazione di mantenere l’attuale
assetto ordinamentale della magistratura in un sistema che va sempre più
concentrando in poche mani il potere di governo e il controllo sulle
istituzioni di garanzia.
Nella magistratura con la qualeci dobbiamo confrontare i colleghi di Area costituiscono una parte fondamentale
perché, a differenza di altri, condividono con noi i medesimi valori
costituzionali connotati in una prospettiva di emancipazione e di
trasformazione sociale.
C’è anche oggi una magistratura reazionaria con la quale non riusciamo a dialogare e al cui apparente vociferante
avanzare, sembra non si riesca ad
opporre contromosse e antidoti, una
magistratura che si fonda su due cardini,come dice Tiziana Coccoluto: “tecnicismo efficiente,
del tutto avulso da ogni consapevolezza istituzionale” cui si affianca il
modello neocorporativo che accetterebbe lo scambio tra vantaggi e tutele di status con garanzie per i
vincitori politici di non essere di intralcio alle politiche che incidono sui diritti e sulla
Costituzione, in quanto campo estraneo alla magistratura.
Questa nostra difficoltà di contrasto, il deficit di analisi
e di intervento politico a tutto campo ha diverse ragioni. Troppo ripiegati sul
tatticismo, troppo unilaterali nell’approccio al buon funzionamento delle cose
nella speranza vanadi respingere l’attacco strumentale fondato sul mancato
funzionamento del sistema.
Siamo arrivati tardi e abbiamo creduto nell’esistenza di un
campo non ostile disposto ad assecondare il nostro tentativo di trasformazione
dal basso e di autoriforma. Le disfunzioni esistenti non si risolvono senza
modifiche e riforme del sistema con investimenti e risorse che marceranno però
insieme alla riforma dei giudici.
Non è stato un errore lavorare per ridare credibilità alla
magistratura, dimostrando che ce la possiamo fare da soli; purtroppo abbiamo
attribuito effetti palingenetici alla tecnologia, da apprendisti stregoni,
dimenticando che la tecnica deve servire e non essere servita.
Per quanto riguarda il che fare non credo ai carichi
esigibili: per 40 anni i carichi
esigibili ce li siamo dati di fatto e abbiamo visto come questo abbia affossato
il sistema. In secondo luogo perché dalle prime risposte al dlgs 28/2015
emerge come il problema stia in parte anche nella testa dei magistrati, nella
loro formazione, nella loro cultura, nella loro frequente inadeguatezza al compito affidato secondo il
progetto trasfuso nella Costituzione.
Andrea Natale su questo tema ha dato le risposte che dovevano essere date,
richiamando il fondamento costituzionale del principio di offensività.
Ma questa iniziale discussione mette in evidenza l’approccio
formalistico e panpenalistico di alcuni magistrati, un certo
burocratico approccio alla questione penale, una cultura giuridica
che ha fin qui negato ingresso
nella giurisprudenza al principio di
necessaria offensività del fatto come
elemento costitutivo del reato; principio teorizzato da Marcello Gallo e dalla
scuola torinese già negli anni sessanta
e che ha prodotto quell’inflazione bulimica di processi inutili,
ininfluenti persino per la persona offesa, seppellendo gli uffici di carte e operazioni materiali, autentico
spreco di risorse, impegno, tempo.
Ancora una volta troppa solitudine nelle risposte, troppa assenza
di partecipazione, di convinzione, di
coralità; non possiamo trattare con
sufficienza questi dibattiti per il
solo fatto di essere telematici e perciò sregolati e privi di rigore analitico;
capisco tutto ma è anche lì che si forma il senso comune dei magistrati, la
loro koinè linguistica, si plasma la loro coscienza, si indebolisce o si forma
il loro intelletto.
La reazione alla non
punibilità per irrilevanza del fatto mi sembra alla base delle incertezze e dei dissensi di fronte ai programmi di
gestione del carico penale con la scelta di accantonare i processi a
prescrizione certa.
Sulla prescrizione va
tuttavia detto con onestà che sette anni e mezzo per definire un processo non è
affatto poco anche con tre gradidi giudizio e l’inflazione delle fattispecie.
Il problema è semmai da quando far decorrere questo tempo, e
il congelamento dei tempi imputabili
all’amministrazione nel passaggio da un grado all’altro, da un ufficio ad un
altro. Che in sette anni e mezzo non si riescano a fare indagini e celebrare
tre giudizi, è difficilmente spiegabile; ma se il processo rallenta perché le
cancellerie impiegano anni per i loro adempimenti, il diritto dell’imputato a non stare sulla
graticola per un tempo che somma la pena del processo alla pena inflitta, dovrà
essere rivendicato davanti alla politica e non alla giustizia.
A me sembra che siano la cultura, la formazione, l’ideologia
del magistrato italiano, il formalismo,
il tecnicismo, l’uso del diritto senza riguardo al suo scopo e agli interessi
in gioco, puro esercizio di logica concettualistica, il non sapere andare alla
sostanza delle cose, ad avere in gran
parte contribuito a creare l’arretrato, in ciò assecondati da una classe
forense a sua volta interessata a
trascinare, complicare, ritardare influendo sulla legislazione, sull’interpretazione e sulle prassi.[2]
Si impone un radicale mutamento di paradigma giuridico, un’esigenza di legalità diversa da quella che ci è stata tramandata
dalla modernità e che ancora oggi è l’ideologia dominante della magistratura
italiana malgrado tutto ciò che è accaduto dal Congresso di Gardone ad
oggi (la fedeltà alla lettera della
legge, l’ansia di trovare nel testo scritto una risposta a tutti problemi,
l’indifferenza all’equità, alla giustizia, agli scopi costituzionalmente e ora
convenzionalmente orientati della giurisdizione).
Non entro nel merito del processo Eternit ma desidero portare
all’attenzione di questo Congresso che non MD ma un’onesta dottrina ha scritto su un’accreditata rivista che “il diritto non giusto non è diritto ma il
suo contrario”, contraddicendo un’autorevole procuratore generale che
considera doveroso per il giudice
produrre ingiustizia, sotto la copertura
del diritto, postulando che le strade del diritto e della giustizia possano e debbano
quando è il caso divaricarsi.
E’ agevole dimostrare che solo convenzioni interpretative del
diritto portano a quella conclusione, non essendo affatto da escludere
un’onesta alternativa opzione interpretativa – semmai dovendosi chiamare in
causa il problema del mutamento di interpretazione in malam partem che potrebbe
incidere, eventualmente, sull’elemento soggettivo del reato, aprendo però per
il futuro la strada all’imporsi di una diversa linea interpretativa -.
Tutto questo rispecchia
il ritorno di un’ideologia conservatrice nella parte preponderante della magistratura italiana, il suo
rientrare nell’alveo di una concezione dell’interpretazione tutta dalla parte
del potere autoritativo, con il rifiuto di un approccio aperto alle ragioni
della società e dell’adeguamento dell’interpretazione
all’equità fondata su principi di ragionevolezza, coerenza, sui valori costituzionali comuni, oggi
frontiera più avanzata del principio di legalità anche in campo penale.
Anche su questo c’è stato relativo silenzio in MD e temo che in fondo quel ragionamento così convenzionale, così radicato, così
strenuamente ribadito nei dibattiti
telematici possa trovare consensi anche
tra di noi, visto che non si è trovato tempo per rispondere a chi ha
esplicitamente teorizzato che il problema della giustizia è
responsabilità dei magistrati democratici: estendendo l’area della tutela dei
diritti avrebbero provocato l’intasamento dei ruoli processuali.
Mi sembra perciò necessario assumere di nuovo l’iniziativa
culturale e politica come Magistratura Democratica, lavorando sui due
fronti,quello interno ordinamentale e associativo dentro Area e quello del
dibattito politico per una diversa concezione del principio di legalità al
tempo del renzismo e della semplificazione maggioritaria e verticistica del
potere normativo.
Il nostro compito principale è oggi di lavorare in una realtà profondamente modificata e che rischia
di sottrarci la piattaforma costituzionale cui avevamo ancorato la nostra
indipendenza dalla politica.
Va preso attoche la torsione in senso ultra maggioritario e
autoritario del sistema politico mette in discussione il principio di legalità,
come era stato prefigurato dai costituenti e come era stato letto fin qui,
divenuto mera apparenza (decreti legge, maxi emendamenti con annessa questione
di fiducia, decreti legislativi liberi, testi blindati rispetto alla stessa
maggioranza parlamentare, delegificazione, potere regolamentare, ordinanza di
protezione civile)
Oggi è difficile
riconoscersi in quella soggezione alla legge che era soggezione al
diritto e ai suoi valori; la legalità è sempre più di partesenza alcuna
considerazione per la necessità per le minoranze di non sentire la legge come
imperio, avendo partecipato e
contribuito alla sua formazione; la legge discussa ed emendata in parlamento
con il contributo dei rappresentanti di tutti i gruppi sociali non appartiene
ad alcuno e tantomeno al principe e rispecchia criteri di giustizia nella
legislazione, nutrendosi di questo l’autonomia interpretativa dei giudici.
In conclusione e legato a tutto questo, segnaloin questa fase
storica l’esperienza dei tirocini formativi nei tribunali.
Per come la vedo, essaattribuisce al potere diffuso della
magistratura il compito e la speranza di
formare i futuri magistrati e
professionisti forensi. Una formazione che per necessità di cose è basata
su una visione non teoretica del diritto
ma pratica, fondata sulla discussione razionale, sul contraddittorio,
sull’analisi delle differente istanze, interessi, ragioni delle parti, filtrati
alla luce dei principi, all’esito dei quali la decisione del giudice non è applicazione della legge, frutto di un mero
processo cognitivo del fatto e del diritto ma la risoluzione del caso alla luce
di una serie di elementi tra cui i diversi significati del testo rilettialla luce di una serie di principi e
valori.
In tal modo la speranza è di avere non magistrati formati sui
testi dei manuali ma magistrati sensibilie attenti alla complessità di elementi
testuali e valoriali. I nuovi giuristi “ dovranno essere istruiti sulla natura
e sul fine del sapere giuridico che, in quanto sapere pratico, non è
l’adaequatio alla cosa diritto ma l’”agire giustamente “ in un’accezione non giusnaturalistica ma
storica e culturale. Ferma l’educazione all’etica del limite, i giovani
giuristi della nuova legalità che ci sono stati affidati “devono essere
preparati a svolgere il compito fondamentale che consiste…nella riduzione “de
iniquo ad aequum, nella umanizzazione di una società – di cui il diritto è
struttura ordinante- sempre più disumanizzata dalla tecnica e dal
finanzcapitalismo”.
I nuovi magistrati che proverranno dall’esperienza dei
tirocini formativi, sviluppata con
magistrati inevitabilmente portatori
di una concezione pratica della legalità, anche in un sistema di civil law,
fruiranno non solo di una offerta formativa ma di una vera e propria politica
culturale in grado di promuovere“capacità progettuali e immaginative” di coltivare “lo spirito critico e l’abito della libertà responsabile….che
sensibilizzi il giurista novizio ai valori della Costituzione tramite la
conoscenza del contesto storico e spirituale in cui essa è maturata…”.
In questo humus MD potrà trovare nuova vita.