Speciale
XIX Congresso Nazionale di Md
Autogoverno, magistrati fuori ruolo, direttivi, natura e fini dell’ANM, processo costitutivo di Area e questione, sempre attuale, dei rapporti fra magistratura e mezzi di informazione: dal congresso di Napoli ad oggi è pressoché solo su tali temi che ci siamo confrontati. Che sono poi gli stessi che monopolizzano la discussione anche all’interno di “Area”
Temi senz’altro ineludibili per chi faccia politica giudiziaria, ma già dalla loro enunciazione emerge, con evidenza, la raffigurazione di una magistratura tutta compresa nel riflettere su se stessa. Si percepisce un vuoto.
Il venir meno o l’affievolirsi di una presenza che non circoscriva l’orizzonte della propria azione culturale e politica all’interno della corporazione e delle proprie istanze. Al quale la definizione di “corrente interna all’associazione nazionale magistrati” vada stretta. Un soggetto che continui ad esser percepito ed a percepirsi come comunità d’intellettuali, di giuristi, di sinistra e consapevole del fatto che è proprio sul terreno dei diritti e della loro tutela e declinazione che la categoria politica della “sinistra” conserva ancora un senso.
Un soggetto, pertanto, impegnato in una prospettiva di cambiamento, non solo della magistratura, ma del Paese e che, in fondo, muova da alcune semplici idee (per dirla con le belle parole di Beniamino Deidda): che applicare la legge voglia dire “prima di tutto farsi garante dei diritti dei più deboli” e che non sia possibile equidistanza fra i forti e i deboli per l’evidente ragione che i primi non hanno bisogno della legge, avendo già la forza [1].
Un soggetto che avverta il bisogno di “uscire tra la gente” (mia irriverente traduzione dello “scendere tra il popolo” di Ramat[2]) e da lì guardare alle vicende della giurisdizione, vicende che non si esauriscono nei problemi di risorse e mezzi, di organizzazione ed efficienza, di interlocuzione con la politica, di esposizione mediatica ed “apparenza” d’imparzialità.
Un soggetto che sappia guardare nei luoghi meno illuminati della giurisdizione, che ne sappia interpretare le contraddizioni e diagnosticare tempestivamente i mali. Che sappia guardare con disincanto agli affreschi agiografici dei tribunali di frontiera, eroici baluardi a presidio di legalità e giustizia e sia ancora capace di esercitare la fatica della distinzione. In grado di leggere i peana sui magistrati silenziosi che, ogni giorno, “indossata la giacca o il tailleur d'ordinanza, accompagnano i figli a scuola e poi vanno in ufficio senza altro pensiero che mantenere il giuramento di fedeltà alla Repubblica”,[3] per quel che sono: rappresentazioni di cartapesta, buone, al più, per una tornata elettorale. Un soggetto consapevole dell’esistenza d’una magistratura che, non solo non disdegna frequentazioni ed appartenenze opache, ma, anzi, quasi le esibisce, che fa promesse e ne chiede, mai sazia dell’erogazione illecita di servizi di vario genere.
Consapevole che una consistente parte della magistratura si è fatta, storicamente, garante di equilibri politici e sociali fondati sulle diseguaglianze e sui privilegi.
Un soggetto che, pertanto, non si senta disarmato di fronte allo squallore di un caso Giglio o Giusti o Staffa. Amareggiato, sì, ma non attonito. Addolorato, persino, ma non annichilito.
C’è bisogno di un soggetto che sappia affrontare il problema delle “esternazioni” dei magistrati e del loro rapporto con i media ed i partiti politici, munendosi di strumenti d’analisi un po’ più sofisticati dell’equivoco concetto di “apparenza d’imparzialità”. Che ad essi si approcci senza mutuare il lessico dai Talk show.
Capace di comprendere e dire che il problema è l’inesorabile, inestricabile, rapporto determinatosi fra processo penale e media ed, in esso, fra uffici requirenti e media; d’intendere l’oggettiva connotazione politica che, in tal modo, è venuta assumendo l’azione delle Procure, potenzialmente accentuata dalla loro ristrutturazione in senso gerarchico.
Un soggetto capace di comprendere e dire che il pericolo per gli equilibri processuali e per gli stessi assetti costituzionali proviene da quei magistrati che trasferiscono sul palcoscenico mediatico la materia del processo, che, addirittura, fanno del processo lo strumento della propria affermazione personale. E che la sua forma più grave non si manifesta neppure con le interviste e le partecipazioni a trasmissione televisive, ma con la torsione verso finalità mediatiche del contenuto di atti processuali.
Un soggetto che sia, quindi, capace di comprendere che sono questi i veri problemi e non l’uso infelice di un’espressione suggestiva o il contesto “partitico” in cui è pronunciata e che unirsi al coro di chi per questo si scandalizza rischia di escludere dal proprio orizzonte culturale il momento della reciproca trasmissione di conoscenze fra magistratura e politica, fra magistratura e società, che, invece, è momento ineludibile di un impegno a difesa e sostegno di una democrazia purtroppo sempre più traballante.
O, per cambiare argomento, c’è bisogno d’un soggetto che sia in grado di comprendere e di dire che la “macelleria messicana” della Diaz non è un fatto isolato e casuale. Perché, al di là dello specifico di una destra feroce ed assetata di rivalsa e di un apparato di sicurezza ancora incrostato d’ideologia fascista ed incapace di liberarsi dei troppi elementi di continuità con quel regime, c’è dell’altro. Come l’antefatto degli scontri alla Questura di Napoli e le repliche –pur in tono decisamente minore- a Roma ed in altre grandi città dimostrano.
Che sia in grado di dire che, al di là di tutto questo, c’era e c’è una prepotente richiesta di repressione del dissenso da parte del nuovo potere economico e finanziario. Dissenso mal tollerato in epoca di pensiero unico, perché d’ostacolo al modello di società che quei poteri perseguono ed in alcuni contesti, come nel caso dell’Alta Velocità in Val di Susa, anche in grado di pregiudicare o anche solo ritardare l’esito perseguito di enormi investimenti di capitali.
Non si fosse costretti nei limiti di un intervento congressuale, il catalogo delle ragioni che richiedono la presenza di un simile soggetto potrebbe continuare a lungo: che si ragioni di danni all’ambiente ed alla salute o di diritti dei lavoratori; di identità sessuali o di scelte di procreazione; di atti di disposizione del proprio corpo o di dichiarazioni di fine vita.
E’, nel complesso, un’azione politico-culturale che non può essere affidata ad Area. Perché, all’evidenza, non è questa la sua azione, né è questo il suo ruolo e dirlo non è manifestazione d’arroganza, ma la banale constatazione che, da quando l’idea di Area ha preso forma, non è mai attorno a questi temi che si è andata consolidando.
Ben venga un’Agorà, allora, in cui potersi confrontare sulle questioni dei direttivi, dei fuori ruolo, dell’autogoverno, del disciplinare...
Che ci sottragga allo splendido isolamento del passato e proponga i punti di vista e le difficoltà dei molti colleghi che invocano rigore e trasparenza in ognuno di questi ambiti e non disponibili a confrontarsi in altri “luoghi”, politicamente più caratterizzati. E si strutturi, dunque, Area in base a tali specifiche finalità e non come nuovo “soggetto”, termine che lascia intendere ben altro.
Per il resto, per un’azione culturale e politica che abbia, invece, come prospettiva quel più ampio orizzonte di cui ho provato a parlare, un soggetto c’è già.
Magari un po’ ammaccato, rattrappito, persino intimorito a tratti, ma c’è ancora e si chiama Magistratura Democratica.
Emilio Sirianni
[1] Dal saluto di Beniamino Deidda ai colleghi, Aula Corte d’Assise d’Appello di Firenze, 5 novembre 2012
[2] Capitolo VII “E non poter scendere fra il popolo”, in appendice al volume “crisi della giurisdizione e crisi della politica”
[3] Mail di Vincenzo Giglio, della quale non ho conservato la data, in risposta alla mia intervista sulla magistratura in Calabria, quest’ultima comparsa sul Sole24Ore, se non erro, nell’ottobre 2007
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