XIX Congresso Nazionale di Md

L’intervento di Betta Cesqui

Avrei voluto toccare solo due  punti: il disciplinare  e che senso ha continuare a essere MD, ma non
posso non partire da ieri:

Ci dobbiamo domandare come mai uno come Luigi Ferrajoli che
dall’inizio ha sempre accompagnato la riflessione critica di MD, che di volta
in volta ha colto i passaggi essenziali nei rapporti tra politica e giurisdizione,
 ha sentito l’esigenza di dedicare il suo
intervento di ieri al problema della deontologia. Si dirà che il punto centrale
era quello dei rapporti tra essere magistrati e patrimonializzare questo come
“dote” per entrare in politica.  Ma se il
nodo fosse stato solo quello dell’improprio utilizzo della “dote” accumulata
come magistrato per spenderla in politica, 
con tutto quello che implica nel rapporto tra crisi della politica e
valori della giurisdizione, uno come Luigi Ferrajoli non aveva bisogno di
parlare anche di altro.

Invece ha posto al centro del suo discorso la deontologia
del magistrato in tutti i suoi aspetti perché è oggi un problema
essenziale  perché la magistratura è
:  a) delegittimata,  b) schiacciata dal peso della sua stessa inefficienza,
della quale porta una responsabilità solo molto parziale, c) messa in un angolo
dal predominio del e pensiero unico dell’economia, che  sembra avere in questa fase imposto  le sue regole e abbia prevalso sulla
centralità dei diritti, come abbiamo sentito nella tavola rotonda di ieri.

In queste condizioni la magistratura perde identità e senso
di se’ e con il senso di se’ perde il senso delle regole del suo stesso agire.

Luigi Ferrajoli, che ci ha sempre chiamato all’osservazione
dal punto di vista esterno, oggi vede noi dal punto di vista esterno e ci
segnala un problema enorme:  ci avverte
che stiamo perdendo il senso di noi stessi. Questo vuol dire che esiste in magistratura
un problema morale, un problema deontologico e qualche volta un problema
penale.

Il problema disciplinare non è il problema della deontologia
imposta  con la sanzione, perché dobbiamo
percepire e consolidare la corazza o lo scheletro  (perché è al tempo stesso scheletro e corazza)
della deontologia a prescindere dal momento disciplinare. I codice deontologico
presidia la normalità, mentre l’illecito colpisce la sua rottura  

Non dobbiamo consentire che tra regola deontologica e
sanzione disciplinare si accetti lo stesso rapporto che la peggiore politica
usa strumentalmente tra responsabilità politica e responsabilità penale, per
cui fino a che non è provata la seconda, non può essere messa in discussione la
prima.

 Esiste un problema
deontologico e anche un problema disciplinare, e ieri Luigi Marini lo ha detto,
non possiamo difendere i magistrati da un sistema disciplinare che i numeri ci
dicono essere tra i più rigorosi tra i sistemi disciplinari nazionali e tra i
sistemi disciplinari dei magistrati in ambito europeo se non abbiamo senso
critico e autocritico e cadiamo nella trappola 
della reazione generalizzata contro il sistema disciplinare che finisce
per essere difesa corporativa anche dell’indifendibile.

Nell’universo del disciplinare esiste una grande divisione:
i ritardi e il resto, perchè per il “resto” il nesso tra illecito e caduta
etica è più facile e più ricorrente, per i ritardi questo è meno sentito perché
è meno vero, anzi nella gran parte dei casi non è vero affatto. Però è un dato.
E’ un dato che esistono i ritardi, che questo è un problema che mina la credibilità
della giustizia e la legittimazione stessa dei giudici davanti alla società.   Condvido ogni parola del documento di Claudio
Castelli. Io penso   che bisogna  introdurre,  fino a dove si può per via giurisprudenziale e
poi per via legislativa alcuni concetti: i ritardi si accumulano nel tempo e la
dirigenza degli uffici non po’ ritenersi fuori da questo processo, il rientro
dei ritardi e l’esistenza o meno di un piano di recupero concordato con la
dirigenza ed il suo rispetto devono avere il loro peso, la previsione della sanzione
minima della censura è stato un atto di stizza autoritaria da parte del
legislatore che deve essere superata non perché tra ammonimento e censura ci
sia una gran differenza, ma perché deve essere possibile una graduazione anche
progressiva delle sanzioni per consentire alla stessa di svolgere la funzione
che in un sistema disciplinare è primario della sanzione, che è quella di
correggere i comportamenti.

Mi accorgo così che parto dai problemi generali, dal
discorso sul codice etico della magistratura e finisco per parlare di problemi
tutti interni al suo funzionamento.

Garapon, nello “Stato minimo”  ha colto il 
senso della trasformazione in virtù della quale dei temi della giustizia
si finisce per parlare come di quelli di un qualunque ramo dell’amministrazione.
Ne ha al tempo stesso indicato le conseguenze dannose,  la inevitabilità ed anche gli aspetti di
utilità. 

Oggi non si può parlare di giurisdizione senza parlare della
sua organizzazione, ma no si può parlare solo della sua organizzazione .

Noi non parliamo di organizzazione perché non ci piace più
parlare dei diritti, ma perché non si può parlare più dell’uno senza parlare
dell’altro.

 Almeno io credo che
sia così. 

Spero che sia così.

Pongo come condizione che sia, così ogni volta che mi si
chiede di parlare di organizzazione e di impegnarmi sui suoi temi.

Poi però finisce spesso che dei diritti si parla poco, come
se la loro rafforzata tutela fosse un follow up    automatico della migliore organizzazione,
della migliore dirigenza.

Questo (la necessità di parlare di organizzazione per
realizzare i diritti  )mi  sembra di capire che stia al centro della
crescita del progetto di AREA. 

Confesso che questo grande processo di trasformazione verso
Area è un tema che non solo non mi entusiasma, ma che  trovo anche un   po’ noioso.

 Mi chiedo sempre più
spesso cosa porta Md in questo processo e cosa ne rimane alla fine? Anzi c’è
ancora, alla fine, quello che Md ha rappresentato negli ultimi quaranta anni ?

Quello che ci porta è la sua storia, quello che ne rimane
dipende da noi.

Mi domando a volte “cosa ci faccio qui?” . Se lo domandava
anche Chatwin, ma lui stava facendo un trekking in Nepal e capisco che fosse un
po’ spaesato.

Me lo domandavo proprio ieri, andando via da qui non
sull’onda di un entusiasmo travolgente e poi ho pensato, ad esempio,  alla elaborazione giurisprudenziale (compresa
la questione pregiudiziale sollevata dalla cassazione ), e ai contributi che
hanno portato alla sentenza El Dridi  della Corte di giustizia che ha demolito
l’impostazione culturale del sistema dell’espulsione degli stranieri,  alla recente sentenza della Prima sezione
della cassazione sull’affidamento del minore in sede di separazione, non per
quello che ha affermato, ma per quello che ha dato per scontato (la prevenzione
nei confronti delle coppie omosessuali come pregiudizio culturale), al fatto
che abbia un senso preoccuparsi del significato in termini di dilagare della
spregiudicatezza economica del possibile affermarsi di una diversa
interpretazione del nesso causale tra atti di disposizione  e fallimento che si sta affacciando in Corte
di cassazione, per trovare qualche conforto. Penso poi alla circolare del
Procuratore di Milano sulla scelta delle misure anche in relazione alla
sentenza della CEDU e leggo, tornando a casa, l’informazione provvisoria sulla
sentenza delle SS UU sull’uso di gruppo e capisco meglio che cosa vuol dire
portare dentro la giurisdizione i valori costruiti da Md.

Non si tratta di innestare impennate rivoluzionarie, ma il
deposito ragionato di una riflessione sui diritti che conduce a decisioni
giuridicamente solide e alla introduzione di valori condivisi nella interpretazione
giurisprudenziale. Le “mattane” di MD ( e ce ne sono state) alla fine lasciano
il tempo che trovano. Il lavoro serio, paziente, documentato consolida invece i
risultati.  Ancora ieri Rodotà si
meravigliava positivamente della capacità della corte di cassazione di farsi
motore di avanzamento dei diritti. E le sentenze non sono certo “targate” Md,
ma il lavoro che culturale che ci sta dietro è quello che Md ha costruito.

Penso questo e la domanda si trasforma subito da “che ci sto
a fare” a  “che posso fare”

Occorre evitare che il “come eravamo” diventi un freno o una
mitologia, con una certa   tendenza
selettiva della memoria che spinge verso il lifting
delle passate imprese.

Il passato di Md può correre il rischio di avere la
solennità funerea di una lapide o la retorica di un monumento (e del monumento
la marmorea o ferrea immobilità ) .

Siccome cammino sempre a testa bassa guardando per terra,  qualche giorno fa ho pensato a cosa serve il
passato di MD.

Vi voglio parlare di Gunter DEMNING che, come magari già
sapete,  è un artista tedesco che dal
1995 sta disseminando l’Europa di “pietre d’inciampo” (scandalon, in greco,
come mi ha ricordato Claudio Viazzi)  di
piccoli sanpietrini d’ottone con i nomi dei deportati della seconda guerra
mondiali  che vengono messi davanti alle
porte dove le persone abitavano ( ce ne sono in mezz’europa e in Italia a Roma
e Genova) . Naturalmente il paragone con il riferimento storico non c’è
assolutamente, ma quello che mi ha colpito è che non sono lapidi, perché fanno
parte della pavimentazione, la gente li calpesta normalmente, solo che li vede
per forza, e non sono monumenti, perché il monumento è per definizione un
oggetto incombente che ci sovrasta.

Allora io penso che la storia di MD, tutto quello che ha
costruito e che fa parte del nostro patrimonio culturale deve continuare ad
essere la costante memoria che contribuisce alla costruzione di ogni gesto
quotidiano, che comincia con la nostra uscita di casa. Non penso che tutto
quello che MD  è stato deve essere  la nostra “pietra d’inciampo” (il paragone
sarebbe improprio e privo di senso ) ma deve essere in qualche modo la nostra
“maniglia d’inciampo” cioè la costante leva, il costante strumento con il quale
noi continuiamo ad aprire le porte verso nuove stanze,

come lo costruiamo questo percorso lo impareremo poi strada
facendo

Betta Cesqui