Avevo sei anni, ero in macchina con i miei genitori e stavo tornando a casa dopo il saggio della prima elementare, che si era tenuto nel palazzetto dello sport di Grottaglie, a circa trenta chilometri da Taranto. 

Era stata una giornata di festa, tra canti e danze, scenografie colorate e famiglie felici. 

Durante il viaggio mio padre aveva acceso lo stereo, e pochi secondi più tardi mamma e papà avevano incrociato i loro sguardi, improvvisamente preoccupati, senza dirsi una parola. Riuscii solo a sentire, in maniera nitida, una frase – “e adesso cosa succederà?” – e poi fu il silenzio per tutta la sera. 

Mi ha sempre colpito la circostanza che non abbia conservato nessun ricordo dei miei primi anni di vita, ed in particolare – pur essendomi sforzato più volte – nessun ricordo di prima infanzia, oltre a questo, in cui la mente mi fa rincontrare i miei genitori, che non ci sono più. 

E non so se è stata pura casualità, ma la vita ha poi voluto che il 23 maggio del 2017, venticinque anni dopo, fossi ad un corso della Scuola superiore della Magistratura, insieme ad altri colleghi appena nominati come uditori, ad osservare un minuto di silenzio per la morte di Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Francesca Morvillo e Giovanni Falcone. 

A trent’anni dalla strage di Capaci ancora oggi la fotografia più conosciuta di Giovanni Falcone, quella in cui è insieme a Paolo Borsellino, è presente in moltissimi uffici di magistrati, tra cui il mio, che pure ho vissuto quegli anni difficili e quell’evento esclusivamente attraverso documentari, racconti, libri, nonché l’immagine di due persone semplici che, a distanza di centinaia di chilometri, si interrogavano sul futuro.

Posso quindi dire di non conoscere davvero nulla di quel momento storico; eppure quell’istantanea è lì, non per retorica e non soltanto per coltivare la memoria, ma soprattutto come monito per non scoraggiarsi nell’impegno quotidiano, non sottrarsi alla ricerca – anche complessa – della verità, lavorare con entusiasmo e speranza, non disperdere i risultati che dal 23 maggio 1992 sono stati raggiunti e la tanta strada che è stata percorsa, anche nella coscienza della società civile, dopo e soprattutto grazie alla strage di Capaci. 

Come cittadino – oltre che come magistrato – avverto però la necessità di conoscere ancora tutta la verità, senza la quale nessuna ferita può dirsi definitivamente rimarginata: la commemorazione è necessaria ma non è sufficiente, se non è accompagnata dal costante, concreto e attuale sostegno – in tutte le sedi, istituzionali e non, e con tutte le forze possibili – in favore delle famiglie delle vittime e di quanti tuttora lavorano duramente in silenzio contro le associazioni mafiose e per far luce su ciò che, in questa specifica vicenda, è realmente è accaduto e non è stato ancora accertato.

Francesco Sansobrino