Torniamo a parlare di Afghanistan
Il 10 giugno scorso si è svolto, al Palazzo di giustizia di Milano, il convegno Torniamo a parlare di Afghanistan, sulla situazione della popolazione afghana, la questione dei diritti civili e i problemi della giurisdizione della protezione internazionale.
L’iniziativa era stata programmata per marzo, ma la deflagrazione del conflitto in Ucraina ne ha comportato lo slittamento a giugno: il senso del titolo, torniamo a parlarne, racchiude proprio l'impegno di Magistratura democratica di non considerare la tematica dei diritti civili in modo separato, per parti, lasciando che ogni nuova emergenza occulti la precedente, relegandola a tweet in cronologia; e cercando invece di seguire il filo rosso delle costanti e sistemiche violazioni dei diritti globali, in cui la politica occidentale ha grandi responsabilità. Da questo punto di vista, la situazione ucraina e quella afghana presentano infatti molte similitudini, a cominciare dal fatto che entrambe sono il risultato dell’irrisolta tensione e dell’alternanza storica di forze tra l’ex Unione sovietica e gli Stati Uniti.
Nella guerra dei quarant’anni, in Afghanistan, si sono alternati regimi comunisti di ispirazione marxista, sostenuti dai sovietici, e violenti colpi di stato di gruppi radicali sostenuti dall’America, in funzione destabilizzatrice del blocco sovietico. Come ha vissuto la popolazione civile questa continua alternanza di violenza e di stabilità? Quali immagini si disegnano davanti a loro quando sentono evocare la “democrazia occidentale” e il suo tentativo di “esportazione” forzata?
Amin Wahidi ha quarant’anni, è un regista ed è nato a Kabul, dove ha vissuto la maggior parte della sua vita fino a quando, nel 2007, è stato costretto a lasciare il Paese, mentre girava il film Le chiavi per il paradiso, sul tema degli attentati suicidi, e a chiedere asilo in Italia.
Amin ci ha parlato della popolazione afghana dal punto di vista del suo gruppo etnico, gli Hazara, spiegandoci la costante discriminazione di cui sono stati e sono vittime nel Paese, nel quale costituiscono una minoranza religiosa, essendo per la maggior parte sciiti, ma non una minoranza etnica, anche se la loro stima sul territorio è molto approssimativa a causa della continua persecuzione che stanno subendo.
Gli Hazara, ci ha spiegato Amin, sono amici dei diritti, amano la libertà, l’espressione, l’arte e tutte le manifestazioni della bellezza del mondo, sono per la parità di genere, eppure sono stati di fatto ignorati dall’Occidente ed esclusi dai negoziati di questi ultimi anni, sino all’ultimo indicibile accordo: quello che ha siglato il disimpegno degli Stati Uniti lasciando ai Talebani l’equivalente in armi di 7 miliardi di dollari, il che ha significato consegnare loro il Paese e il destino del suo popolo.
Si dice che gli occidentali abbiano investito in Afghanistan, negli ultimi vent’anni, tre trilioni di dollari, che però si sono letteralmente volatilizzati: in ghost schools, ghost hospitals; di fatto hanno arricchito i signori della guerra e il paese è stato letteralmente consegnato, chiavi in mano, a un gruppo terroristico.
Antonio di Muro, di UNHCR Italia, ci ha spiegato le difficoltà incontrate nel rapportarsi con il regime per riuscire a fare arrivare aiuti alla popolazione civile, in questo periodo assediata da una carenza assoluta di cibo e di denaro, tanto che è comune la prassi di vendere i figli e persino i reni, per garantirsi un lavoro un salario minimo.
Ugo Panella, il fotoreporter conosciuto per aver catturato immagini iconiche vita del Paese, come la foto di Layla che si toglie il burka e sorride, ci ha raccontato delle strade dell’oppio, del tabù della tossicodipendenza e del controllo militare che i Talebani esercitano sul territorio, soprattutto sulle donne: ancora afflitte dal Dress code e dalla irrilevanza pubblica, il che significa impossibilità di fare quasi tutto nonostante moltissime famiglie siano conduzione femminile perché gli uomini, compagni, padri, fratelli e figli, sono morti nel conflitto.
L’Avvocato Ezio Menzione, dell’Osservatorio degli Avvocati minacciati dell’Unione Camere Penali Italiane, ci ha parlato dei progetti delle Camere penali per consentire alle avvocate e agli avvocati che più si sono esposti negli ultimi anni per i diritti di lasciare il Paese, il che ha consentito di aprire una finestra sullo stato dell’Avvocatura e della giurisdizione: che ruolo hanno le giuriste e i giuristi nella battaglia per le libertà civili e in quali condizioni lavorano? Domande assillanti, come i Tribunale sono aperti? hanno un margine di indipendenza dal regime? che tipo di conflitti sono loro devoluti? e la popolazione vi ha libero accesso? sono risuonate nell’aria senza risposta, come nella celebre e immortale canzone di Bob Dylan.
La seconda parte del convegno è stata invece dedicata alla protezione internazionale: il Dott. Costantino Giordano, Coordinatore nazionale dell’EUAA, e la Dott.ssa Silvia Lucia Frugoni, EUAA external expert presso la Sezione specializzata per la protezione internazionale presso il Tribunale di Brescia, hanno illustrato il ruolo della European Union Agency for Asylum e della sua fonte principale, la Country Guidance Afghanistan: il metodo di strutturazione e di revisione periodica, la natura non vincolante ma orientativa per l’interprete e il supporto informativo e conoscitivo che intende fornire ai sistemi giuridici europei e che può essere valorizzato dal Giudice nel senso del maximum standard della protezione.
Infine, la dott.ssa Mariarosa Pipponzi, Presidente della Sezione specializzata in materia di protezione internazionale presso il Tribunale di Brescia, e l’Avv. Paola Regina, componente della Commissione diritti umani dell’Ordine Avvocati di Milano, hanno concluso il convegno parlando del ruolo concreto della protezione e illustrando casi pratici e la giurisprudenza euro-unitaria rilevante, nonché le problematiche applicative inerenti agli strumenti di tutela, in particolare lo status di rifugiato.
Con gli altri organizzatori, il Consiglio dell’Ordine e la Camera penale di Milano, ringrazio chi ha partecipato all’incontro, dal vivo o da remoto, e invito chi non ne avesse avuto la possibilità a vederlo sul nostro canale YouTube
La mia impressione, proseguendo insieme a Emmedi questo viaggio di ricerca e di ascolto dei diritti negati ‒ che ci porta lontano dalla sicurezza e dall’arroganza occidento-centrica dei diritti solo formalmente enunciati ‒ è che il formante di genere dimostri ancora una volta la propria attinenza primaria all’oppressione in tutte le sue forme: dove c’è dell’oppressione lì c’è il pugno di ferro del genere-conforme che pone le donne in posizione subalterna agli uomini, possiede e abusa dei loro corpi, nega la differenza femminile e la sua possibilità di delineare una trascendenza alternativa a quella delle grandi religioni patriarcali, e relega la differenza sessuale a un binarismo esasperato in cui gli uomini esercitano la forza e il potere cominciando dal possesso tribale delle donne.
Quando ho chiesto ad Amin quale fosse la condizione in Afghanistan della popolazione l.g.b.t.q.a.i.+ (ricordate le terrificanti dichiarazioni rilasciate dal Giudice talebano Gul Rahim l’anno scorso, con le quali annunciò che quando fossero tornati al potere, i talebani avrebbero perseguito e giustiziato le persone omossessuali tramite lapidazione o seppellimento sotto il crollo di un muro?) la sua risposta è rimasta quasi soffocata: è un tabù assoluto, non se ne sa nulla, la sola dichiarazione di esistenza equivale per loro a una condanna a morte.
Grazie a Emmedi per l’impegno in questo viaggio, grazie a tuttƏ voi per renderlo possibile, to be continued…
Fabrizio Filice.
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