L’EMERGENZA «non può farci arretrare dal nostro quadro di garanzie.
Soprattutto: non dev’essere lacerato l’ordine costituzionale, perché il
primo obiettivo dei terroristi è proprio quello». Come dire che
un eccesso di legislazione d’emergenza finirebbe, paradossalmente, per
fare il gioco dello Stato islamico. Anna Canepa, ligure, è magistrato
della procura nazionale antimafia e della neonata direzione
antiterrorismo, con incarico di coordinamento per Lombardia e Liguria.
Partiamo
dall’arresto scattato mercoledì per i genitori della foreign fighter
Maria Giulia Sergio, colpevoli di aver pianificato un viaggio
per entrare nel Califfato. Il provvedimento è basato sul progetto d’un
trasferimento all’estero, senza comportamenti violenti in Italia o
la pianificazione di essi. Non potrebbe essere un eccesso
dettato proprio dall’ansia di rispondere, anche mediaticamente,
all’Isis?
«Sostenere lo Stato islamico, anche soltanto
con il progetto concreto di entrarvi (la famiglia Sergio aveva messo in
vendita i mobili di casa e preparato i passaporti, ndr) significa
automaticamente sostenere il terrorismo e i crimini contro l’umanità. Il
comportamento dell’Isis, che si dà come missione l’attacco ad altri
stati con le modalità che sono sotto gli occhi di tutti, è terrorismo.
Perciò credo che quegli arresti siano
giustificati, sebbene l’aspetto secondo me più importante dell’indagine
sia un altro».
Ovvero?
«Si dimostra senza
ombra di dubbio il carattere transnazionale dell’arruolamento,
un’attività in atto contemporaneamente verso più nazioni. Si
palesa quindi l’urgenza di armonizzare la legislazione in materia fra i
vari paesi, in primis la definizione di “finalità terroristica”».
In
Francia il fermo per fatti di terrorismo può protrarsi per 96 ore.
Bisogna armonizzare in quella direzione, si può cedere qualcosa in
nome della sicurezza?
«La nostra legislazione è diversa da quella della Francia e non credo ci sia bisogno di limitare le garanzie delle persone»
Un’altra
via di contrasto, che il ministro dell’Interno in persona ha ribadito
verrà intrapresa con più insistenza, è quella amministrativa,
delle espulsioni per motivi di sicurezza. Qual è la sua opinione?
«E
senza dubbio meno garantita di quella giudiziaria. E va tutelata con un
sistema che credo sia già abbastanza solido. Chi si vede notificare
il provvedimento può presentare ricorso al tribunale civile».
Un
fatto di questi giorni porta a Ceriale, in provincia di Savona. Sono
state avviate le pratiche per l’espulsione di un diciottenne
marocchino, incensurato e indagato per apologia: postava su
Facebook messaggi di “amore” per l’Iris. È giusto allontanarlo?
«Sui
reati di opinione occorre essere cauti. Ripeto: stiamo attenti a non
arretrare dalla nostra civiltà giuridica, non dimentichiamoci da dove
veniamo, la Costituzione fu concepita dopo che l’Italia visse sotto la
dittatura fascista».
Come funziona la nuova direzione nazionale antiterrorismo?
«Fa
parte della Procura nazionale antimafia e ne capitalizza le esperienze
positive, in primis con una banca dati centralizzata su tutte le
indagini in corso in Italia. Le organizzazioni terroristiche sono
assimilabili alle associazioni mafiose. E per contrastarle
vanno utilizzati gli strumenti giuridici usati contro la
criminalità organizzata».
In materia di antiterrorismo si
possono usare le intercettazioni preventive. Un termine che può evocare
intrusioni indiscriminate, aldilà del fatto che l’opinione pubblica è
mediamente terrorizzata dalla minaccia fondamentalista e più disposta
a tollerare.
«Ribadisco: non dobbiamo arretrare, ma
rendere più efficace il contrasto. Le intercettazioni preventive sono
uno strumento legale se autorizzate da un pubblico ministero, e non
hanno valore processuale. Possono rilevare notizie di reato e il loro
contenuto va successivamente distrutto. Così si contemperano le diverse
esigenze delle persone, in materia di sicurezza e privacy personale».
Lei ha una competenza specifica sulla Liguria. È un territorio a rischio?
«Il
problema non può essere circoscritto a una regione. La Liguria peraltro
ha registrato il caso di Giuliano Delnevo, morto per combattere in
Siria: evidentemente certi contatti erano arrivati anche qui».
(intervista pubblicata su Il Secolo XIX del 3 luglio 2015)