Con l’emanazione del d.l. 17 febbraio 2017, n. 13 (Disposizioni
urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione
internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale),
il Governo
ha scelto di operare mediante lo strumento della legislazione di urgenza
introducendo
modifiche di sistema che presentano profili di estrema delicatezza per
la salvaguardia di principi costituzionali ed internazionali, e che non
appaiono idonee a risolvere le attuali problematiche del sistema di
protezione internazionale
italiano.
Peraltro difetta il
necessario presupposto dell’urgenza, trattandosi di disposizioni che non sono
di immediata applicazione (alcune di esse si applicano addirittura trascorsi
180 giorni dall’emanazione del decreto), ma che sono finalizzate a ridisegnare
completamente la tutela giurisdizionale nella materia della protezione
internazionale.
Nel merito le previsioni
relative ai procedimenti in materia di protezione internazionale appaiono avere l’effetto di allontanare il
cittadino straniero dal Giudice, limitando le
possibilità di contraddittorio, anche mediante l’utilizzo della videoregistrazione
dell’audizione del richiedente asilo, strumento che può essere considerato utile
alla verifica e all’integrazione istruttoria solo se viene garantita la
comparizione delle parti e la presenza di un mediatore linguistico-culturale.
L’uso della videoregistrazione
dell’audizione del richiedente potenzialmente sostitutivo dell’audizione dello
straniero da parte del giudice non è conforme all’obiettivo indicato dalle disposizioni
previste dal legislatore dell’Unione europea, orientate a rafforzare i diritti
dei richiedenti protezione internazionale. A tal proposito
occorre osservare che il diritto dell’Unione valorizza la valutazione piena e
diretta del giudice ex nunc di tutte
le fonti di prova. A tal fine appare essenziale l’ascolto diretto e personale
del richiedente, essendo spesso le dichiarazioni rese dallo stesso gli unici
elementi su cui si basa la domanda (art. 46 della Direttiva 2013/32/UE)
Lo stesso risultato di obiettiva riduzione
delle garanzie processuali viene prodotto dall’eliminazione del grado di
appello, come denunciato dalla stessa Associazione nazionale magistrati –
sezione Cassazione che, nel proprio comunicato del 14.02.2017, ha evidenziato
l’irragionevolezza di tale scelta in un ordinamento processuale come il nostro
in cui la garanzia del doppio grado di merito è prevista anche per controversie
civili di ben minor valore rispetto all’accertamento se sussista o meno in capo
allo straniero un fondato rischio di persecuzione o di esposizione a torture,
trattamenti disumani e degradanti o eventi bellici in caso di rientro nel
proprio Paese, e l’inevitabile trasferimento nel giudizio dinanzi alla Corte di
cassazione delle criticità e delle disfunzioni che si dichiara di voler eliminare.
La previsione di sole 14
sezioni specializzate per trattare i principali procedimenti aventi come
interlocutori le persone straniere renderà inoltre più difficoltoso il diritto di
difesa della parte, che si
troverà lontana dal Foro di discussione della propria controversia, ostacolando
sotto il profilo logistico la concreta possibilità di accesso alla
giurisdizione.
L’accentramento dei procedimenti in pochi
Tribunali rischia di accentuare le attuali difficoltà degli Uffici
giudiziari coinvolti, che
vedranno ulteriormente aumentare il carico di lavoro.
In relazione
alle novità in tema di prima identificazione e di
rimpatrio degli stranieri irregolari, si osserva che appare persistere
una prevalente ottica repressiva
del fenomeno, con l’accentuazione degli strumenti di rimpatrio forzoso,
attraverso alcune modifiche di dettaglio della disciplina del rimpatrio
(come
la previsione del trattenimento anche per gli stranieri non espulsi ma
respinti, o l’allungamento del termine di trattenimento per coloro che
hanno
già scontato un periodo di detenzione in carcere), ma, soprattutto, con
la
decisione di dare inizio all’apertura di numerosi nuovi centri di
detenzione
amministrativa in attesa del rimpatrio (ora chiamati Centri di
permanenza per i
rimpatri, invece che CIE).
Da anni risulta chiaro come
un sistema efficiente di rimpatri non possa basarsi solo sull’esecuzione
coattiva degli stessi, ma debba, in primo luogo, riformare le norme in materia
di ingresso e soggiorno, aprendo canali di ingresso regolare diversi da quello,
ora quasi unico, della protezione internazionale, così dando maggiore stabilità
ai soggiorni, oggi resi precari da disposizioni eccessivamente rigide,
riducendo così il ricorso all’allontanamento per ipotesi limitate e comunque
incentivando i rimpatri volontari,con strumenti normativi e finanziari
specifici).
Appare
quindi necessaria una più ampia e organica revisione delle strategie di governo
dei flussi migratori, con la rivisitazione delle norme del TU immigrazione che impediscono
un ordinato programma di regolarizzazione ed inserimento controllato dei
migranti, prendendo atto del fallimento, sotto il profilo dell’effettività e
della sostenibilità economica, di un approccio esclusivamente orientato
all’allontanamento forzoso di soggetti le cui precarie condizioni sociali e
civili interpellano peraltro il tema della garanzia dei diritti fondamentali.
In tal senso insoddisfacente è la scelta di non fornire alcuna
disciplina dei centri definiti “punti di crisi” (gli hotspot della terminologia
europea), per il cui funzionamento si rinvia a testi normativi (la cd. legge
Puglia del 1995) che non contengono alcuna precisazione circa la natura di
questi luoghi e le funzioni che vi si svolgono.
Si deve rammentare la recente
decisione della Grande Camera della Corte EDU (sentenza Khlaifia del 15
dicembre 2016), che ha condannato
l’Italia proprio in relazione al più noto di questi centri (quello di
Lampedusa), ritenendoli luoghi chiusi, in cui lo straniero viene privato della
libertà senza alcuna base legale e senza alcun controllo dell’autorità
giudiziaria, in violazione di due tra le norme più importanti della
Costituzione e della CEDU, le norme sulla libertà personale (art. 13 Cost. 5
CEDU).
In moltissime occasioni,
poi, le istituzioni europee e il Consiglio d’Europa hanno invitato l’Italia a
disciplinare per legge le fasi di prima accoglienza e di identificazione dei
migranti, come avviene in pressoché tutti i Paese europei.
La
normativa di nuova introduzione non appare coerente con tali sollecitazioni,
muovendosi piuttosto nel senso della ulteriore destrutturazione della
disciplina legale dei fenomeni, affidando al potere amministrativo di polizia
la gestione di centri che sono a tutti gli effetti, e per periodi di tempo
spesso significativi, dei luoghi di privazione di libertà.
In
conclusione, il complessivo contenuto del decreto legge, nel limitare
oggettivamente l’accesso alla giurisdizione dei migranti, e rafforzare il ruolo
della gestione amministrativa delle procedure in cui si evidenziano
delicatissimi profili di tutela delle libertà individuali, ripropone forme di
diritto speciale per gli stranieri, in materie che riguardano i principi fondamentali
di pari dignità e di uguaglianza di tutte le persone.
Le gravi criticità menzionate
pongono in ombra ulteriori aspetti, anche positivi, contenuti nel decreto
legge.
Per tali ragioni si auspica
che in sede parlamentare si tenga conto delle gravi criticità evidenziate per
pervenire ad una riforma complessiva della protezione internazionale e del
testo unico sull’Immigrazione che ne elimini gli aspetti di maggiore iniquità e di inefficacia.
22 febbraio 2017 ASGI
– Magistratura democratica