Il video dell’intervento
«Dobbiamo
rifare noi stessi». Furono queste le ultime parole scritte, prima della
fucilazione, dal diciannovenne partigiano Giacomo Ulivi, citate in un bel
saggio di Alessandro Galante Garrone.
Parole
scritte da un giovane e destinate ai giovani. Parole di denuncia e insieme di
speranza.
Le
prendo a prestito per dire che anche la
magistratura oggi deve “rifare se stessa” e recuperare la sua identità che
sembra perduta.
Viviamo
un tempo di grandi inquietudini con una Magistratura, sempre più tentata di rompere
quell’impegno comune che l’ha unita nell’associazionismo, nell’autogoverno,
nella società e che ha
consentito, come ha scritto Luigi Ferrajoli, la sua crescita culturale, la sua
democratizzazione, la formazione della sua identità costituzionale.
Oggi,
per questa magistratura, è forte il rischio di perdere la pienaconsapevolezza di sé, del proprio ruolo, della sua
responsabilità sociale e culturale, che solo nella dimensione dell’impegno
collettivo può rimanere viva.
Smarrita
questa identità, emerge un nuovo corporativismo vestito da tratti di individualismo e di protagonismo.
Il
protagonismo. Esaurita la spinta alla forte coesione
generata dalla resistenza agli
attacchi frontali portati in passato da ampi settori del potere politico, la difesa dell’indipendenza e dei valori della
giurisdizione non opera più da vero unificatore
ideale, culturale e politico all’interno della magistratura e fra questa e la
collettività.
Privata del sostegno pubblico nella difesa
delle sue prerogative – ricevuto durante la lunga stagione della contrapposizione aperta -, investita dalla
sfiducia per l’inefficienza del servizio che rende alla collettività, oggi è
una magistratura più sola quella che deve
confrontarsi con una politica che ha mutato il suo linguaggio e della
magistratura non si dichiara più apertamente nemica. Una magistratura che fatica a sfidare la politica sul piano
delle proposte e dei contenuti, richiamandola alle sue responsabilità per garantire una efficace amministrazione della
giustizia.
Una magistratura
che cede alla tentazione di prendersi un’altra
scena e di ritrovare una sua identità
affidando al protagonismo dei singoli, e al consenso che questi come singoli riscuotono,
il compito di riscattare la sua immagine di “subalternità”
agli occhi del Paese.
Nella dimensione di questa
nuova e diversa identità, la magistratura incrocia i sentimenti
dell’antipolitica, gli atteggiamenti populisti, le rivendicazioni “antisistema”
e rischia di farsene interprete, ricercando
una nuova legittimazione nell’investitura proveniente dal basso, nel proporsi e nel sentirsi per definizione dalla parte
del giusto e del buono. Il passo dal populismo della politica a quello giudiziario è breve e il costo per la magistratura molto alto:
la perdita dei valori che sono l’essenza della sua legittimazione, la cultura
delle garanzie, la consapevolezza dei limiti della nostra funzione e del
carattere relativo della verità processuale, la capacità di autocritica e di
vigilanza rispetto alle prassi sulle quali si misura la tenuta delle garanzie e
rispetto ai rischi della visione e delle istanze giustizialiste che il
populismo porta con sé.
Salvatore Satta si interrogava sul “Mistero
del processo” richiamando il racconto di un fatto
mirabile accaduto dinanzi al Tribunale rivoluzionario nel 1792: la folla
preme nell’aula per farsi giustizia da sé; il presidente ferma con un gesto gli
“invasori” intimando di rispettare la legge e l’accusato sotto la sua spada. E
la folla in silenzio ripiega verso la porta. Gli invasori hanno compreso che «l’opera che essi compiono là in basso, le maniche
rivoltate e la picca tra le mani, questi borghesi in mantello nero e cappello a
piuma la perfezionano sui loro seggi».
Nella visione del giustizialismo ai
giudici si chiede di perfezionare l’opera,
non facendosi interpreti delle istanze di giustizia ma vendicando i torti che abbiamo subito. E ai Tribunali
– ricordava Satta – si cambia nome: non più Palais
de Justice ma Palais où l’on condamne.
L’individualismo.
Il cambiamento culturale in atto nella magistratura “non più soggetto collettivo” ci riporta alla dimensione e alle
logiche della “corporazione”. E di una corporazione divisa al suo interno. Oggi
ne cogliamo tutti i suoi contraddittori riflessi: il ritorno di una concezione
formalistica dell’imparzialità che si traduce in neutralità e indifferenza alle scelte di valore; l’abbandono della prospettiva
egualitaria, che vuole tutti i
magistrati distinti solo per funzioni con il ritorno alla contrapposizione in
nome di interessi di categorie diverse e di mestieri
diversi di cui – nella corporazione – ci si sente portatori (magistrati dirigenti
e non; magistrati giovani ed anziani; magistrati di uffici superiori e quelli di più
basso grado); l’attenzione alle aspettative individuali e alle prospettive
di carriera di ciascuno; l’autoreferenzialità
e l’indifferenza al dovere di rendere conto alla collettività del nostro agire;
la rinuncia ad un impegno condiviso nell’autogoverno e nell’associazionismo per
promuovere un progetto di cambiamento e un modello di magistrato alternativo a
quello funzionariale e burocratico che si va riproponendo sotto il peso delle
difficili condizioni di lavoro, per effetto del conformismo indotto dalle
valutazioni ravvicinate di professionalità e del rischio di automatismi nella responsabilità
civile e disciplinare.
Nella
dimensione dell’individualismo la magistratura si ritrova, ancora una volta, chiusa
in se stessa. Divisa al suo interno. In rivolta contro se stessa. E contro il
suo sistema di autogoverno e di rappresentanza.
Le criticità emerse nella gestione
dell’accresciuta discrezionalità che la riforma ordinamentale ha attribuito al
governo autonomo contribuiscono ad alimentare il senso di sfiducia e ad
accrescere la distanza dall’istituzione consiliare. Oggila magistratura rischia di perdere la
consapevolezza di una parte importante di sé rappresentata dai valori dell’autogoverno: la
consapevolezzadella funzione insostituibile
di una istituzione che Salvatore Senese ha definito di «orientamento in senso
democratico dei contraddittori processi in corso nella magistratura, nei
rapporti fra magistratura e Paese, istituzione giudiziaria e sfera politica»
; la consapevolezza del ruolo svolto dall’autogoverno nel garantire l’indipendenza
e l’autonomia della magistratura, mettendo queste prerogative della
magistratura al servizio della giurisdizione, promuovendo responsabilità e
professionalità e facendosi carico della qualità ed efficienza del servizio giustizia.
Le
prospettive e le sfide che ci attendono.
Una magistratura che si pone fuori dalla dimensione dell’impegno
collettivo e rinuncia alla sua identità di soggetto collettivo non è più in
grado di ricostruire un rapporto intenso con la società e di confrontarsi con
le grandi sfide che oggi attendono la giurisdizione e che alla giurisdizione pongono
nuove responsabilità: le sfide legate alla marginalità sociale e alle
crescenti e nuove diseguaglianze che richiedono
anzitutto un impegno culturale in senso pieno e l’attuazione di quel progetto
di emancipazione che la Costituzione ha costruito sul primato dell’eguaglianza;
le sfide che porta con sé il fenomeno dell’immigrazione, con la
domanda di tutela di diritti e di risposta ai bisogni fondamentali delle
persone, in un contesto in cui la condizione di non cittadino priva gli individui di quella “pari dignità sociale” che la nostra
Costituzione riconosce a tutti; le sfide anche culturali del terrorismo globale
e quelle che comporta la forte deviazione del diritto penale verso le finalità
della prevenzione, mettendo in discussione il ruolo di garanzia della
giurisdizione.
Da
qui, da questa sede di confronto che è la nostra Associazione, dobbiamo allora ripartire
per “RIFARE NOI STESSI”, ricostruire la nostra identità di soggetto collettivo,
ritrovare il senso del nostro impegno comune.
Per poter essere NOI magistrati mai neutrali
e rinunciatari rispetto ai valori in gioco, ma consapevoli dei limiti della nostra
funzione;
impegnati noi stessi a rivendicare come
base della nostra legittimazione il rispetto delle garanzie e la nostra responsabilità
sociale e culturale per i provvedimenti adottati;
capaci di interpretare il ruolo forte che oggi si richiede alla giurisdizione
nella tutela dei diritti e dei valori della legalità ma immuni dalla tentazione
di assumere ruoli e poteri impropri;
non rassegnati all’impotenza difronte
all’assenza o alla debolezza delle regole di presidio per la legalità e ai
vuoti di tutela per i diritti ma attenti ai rischi di una visione e di una concezione
“salvifica” dell’intervento giudiziario, alle tentazioni di scorciatoie e di
fughe in avanti;
non indifferenti alle istanze di sicurezza
e di pacifica convivenza della collettività ma estranei alla logica del nemico da combattere e da neutralizzare,
e alle sue aspettative di non terzietà
della giurisdizione penale che ispirano scelte di politiche criminale ed alimentano
l’illusione repressiva.
Capaci di riscoprire il senso e l’importanza del nostro impegno collettivo che
può avere una dimensione “piena” solo nella società e nel dialogo con l’Avvocatura,
lungo quel “sentiero comune dei diritti e
delle garanzie” che ci ha invitato più volte a percorrere il Presidente
Mascherin, ritrovando un rapporto di fiducia con l’intera collettività e la
capacità di confronto aperto con l’opinione pubblica.
Impegnati in questa “dimensione piena”
come parte attiva di una più ampia controffensiva
culturale rispetto ai rischi del giustizialismo e del populismo, all’aggressione
ai valori della convivenza civile, ai progetti eversivi che mirano a sovvertire
i valori di eguaglianza, solidarietà ed equità alla base della coesione sociale,
della nostra democrazia e del nostro progetto di Europa.
Determinati nel rivendicare condizioni
dignitose di lavoro per i giovani colleghi, per tutti noi, per tutti gli operatori
di giustizia.
Tutto ciò affinché la “Giustizia” sia sempre più un bene comune; affinché, lo diceva
Eschilo, faccia da «scudo a chi si batte
per lei» e, oggi, possa fare da scudo ai “luoghi della Giustizia”, contro l’odio
sociale, contro tutte le paure dei nostri tempi.
Mariarosaria Guglielmi, Siena 21 ottobre 2017