La lettera di USB Lavoro Agricolo di Reggio Calabria a Magistratura democratica
Si tratta di lavoratori. Partiamo da qui.
Come USB Lavoro Agricolo di Reggio Calabria non possiamo che ringraziare Magistratura Democratica per aver voluto riaccendere i riflettori sulle condizioni di vita dei lavoratori stranieri nella Piana di Gioia Tauro, fuori dai soliti luoghi comuni e stereotipi.
Stiamo parlando di uno spaccato di uno dei principali settori dell’economia italiana: il comparto agricolo. L’Italia è infatti tra i principali produttori in Europa e, per alcune produzioni, tra i principali al mondo.
Eppure è un settore caratterizzato certamente dallo sfruttamento, ma anche da profonde disparità, sia territoriali nord-sud che soprattutto tra la produzione agricola di carattere "familiare" e le produzioni intensive dell'agroindustria.
Questo anche a causa delle politiche agricole comunitarie e delle politiche italiane di regolazione della trasformazione e della commercializzazione dei prodotti agroalimentari.
I finanziamenti europeri della PAC (Politica Agricola Comune), legati finora più all’estensione terriera che a criteri legati alla qualità e all’eticità della produzione, ad esempio si aggirano sui 7 miliardi annui. Insieme ai fondi nazionali ogni anno circa 10 miliardi di fondi pubblici transitano al settore agricolo. Ma è il 20% delle aziende a ricevere circa l’85% di questi finanziamenti, mentre il restante 80% si deve dividere un misero 15%. Oltre le scelte politiche europee, a generare profonde carenze sul piano dei
diritti sociali sono anche le imposizioni che risultano da una catena del valore totalmente dominata dai giganti dell’industria alimentare, ormai a carattere multinazionale, e dalla Grande Distribuzione Organizzata (GDO). A pagare tutto ciò sono contadini e agricoltori, braccianti e operai agricoli.
Nella composizione del fatturato generato dal settore agricolo partecipano con il loro sudore, le loro braccia, le schiene spezzate, più di un milione e duecentomila braccianti, con un altissimo tasso di irregolarità che sfiora il 20%: un rapporto di lavoro su 5 è irregolare. Di questi lavoratori, stagionali e stanziali, 400.000 sono di provenienza extra UE.
Parliamo di uomini e donne che indipendentemente dalla provenienza geografica lavorano sottoposti, sistematicamente, a ritmi frenetici di lavoro accompagnati da sfruttamento e da infortuni anche mortali.
Un settore che vede varie forme di caporalato, anche quando lo stesso viene mascherato. Vogliamo ricordare, esempio tra i tanti, il triste caso di Paola Clemente, bracciante pugliese, italianissima, morta nel 2015 mentre lavorava al soldo di un’agenzia interinale: la sua paga e le sue condizioni lavorative non differivano di molto da quelle di un lavoratore straniero il controllo dei caporali,
a significare che lo sfruttamento nelle nostre campagne non è strettamente legato al colore della pelle.
Per non parlare poi dell’auto-sfruttamento cui spesso sono obbligati gli stessi piccoli contadini, per dare risposta all'ingordigia delle logiche della Grande Distribuzione Organizzata e dell’industria di trasformazione e della logistica.
La maggioranza dei prodotti agricoli che popolano i banchi dei supermercati della GDO, sono il risultato delle scelte politiche ed economiche della GDO stessa, che impone prezzi stracciati ai produttori, prezzi a volte inferiori agli
stessi costi di produzione.
Spesso, e giustamente, si punta il dito sui fenomeni illegali come il caporalato e il lavoro nero, ma non evidenziare tra le con-cause anche queste imposizioni della GDO ai produttori che poi, a loro volta, sfruttano la fatica di lavoratori e lavoratrici ai quali non vengono riconosciuti i minimi diritti sindacali e sociali, significa rendere un’analisi molto parziale del settore agricolo.
Di questo contesto fa senza dubbio parte la Piana di Gioia Tauro, con le sue produzioni agricole, in primis l’agrumicoltura. La presenza di lavoratori stranieri durante la stagione agrumicola non è certo una novità: sono ormai trent’anni che la Piana accoglie stagionali provenienti da diverse parti del mondo.
Negli anni ‘90 la città di Rosarno aveva come Sindaco Peppino Lavorato, storico leader comunista delle lotte bracciantili del territorio. In quegli anni la questione dei migranti fu affrontata nel segno della tolleranza e dell'integrazione, e il comune si impegnò nel dare accoglienza, con politiche di sostegno, ai tanti lavoratori immigrati (la mensa, gli aiuti, l'assistenza, le richieste di finanziamenti a Regione e governo) e di costruire dialogo tra loro e la cittadinanza: per diversi anni si tenne addirittura la festa della Fratellanza umana universale, una festa popolare che riempiva di canti e balli internazionali la centrale piazza Valarioti.
L’aumento progressivo del numero delle presenze, il cambio di amministrazione e la chiusura delle attività di assistenza, ma soprattutto l’attecchire della propaganda antimigranti, il diffondersi del termine “clandestino” e della paura dello straniero, mutarono ben presto la situazione fino ad arrivare al 2010, anno dei famosi fatti di Rosarno.
Prima dei fatti, quando la presenza stimata durante la stagione agrumicola era di 1500 persone, gli stabilimenti industriali o agricoli abbandonati venivano occupati per ovviare al problema dell’alloggio, naturalmente senza luce, acqua o altro tipo servizio. Erano diverse le occupazioni, divise soprattutto in base ai vari gruppi etnici e ceppi linguistici, e duravano per il periodo della stagione.
Dopo i fatti fu inaugurato il modello tendopoli: il tentativo dello Stato italiano di recuperare credito dopo la vergogna mondiale provocata dai fatti di Rosarno.
Le tendopoli istituzionali sono state sempre pensate su numeri da 300 alle 500 presenze, quando negli ultimi anni sono state raggiunte anche le 3mila presenze. Questo ha fatto sì che attorno al campo istituzionale sorgessero baraccopoli che via via sono diventate vere e proprie cittadine, con i vari negozi, bar, servizi: dei veri e propri ghetti che oggi rimangono in piedi tutto
l’anno.
Naturalmente molti arrivano nella Piana per trovare lavoro durante la stagione, molti altri arrivano attirati dal ghetto, nella speranza di poter sopravvivere grazie ai meccanismi di solidarietà interni o alle forme di economia, anche illegale, propria dei ghetti, di tutti i ghetti, non dovuti al colore della pelle ma alla concentrazione di povertà.
Le tendopoli sono state sempre proposte come soluzioni emergenziali, temporanee, in attesa di soluzioni strutturali come l’inserimento abitativo che noi sosteniamo e che sarebbe anche di facile realizzazione, considerando che nel territorio circostante, dati Istat alla mano, ci sono 35mila appartamenti sfitti o poco utilizzati. Ma in realtà quella del campo è una soluzione che conviene a molti.
Conviene alle istituzioni che, con qualche atto di beneficenza periodico soprattutto dopo l’incidente che puntualmente arriva, fanno finta di occuparsi del problema spesso senza conoscere il contesto e con approcci strettamente assistenziali e fuori luogo: è emblematico, ad esempio, che la regione Calabria abbia denominato in una delibera di qualche anno fa il campo di San Ferdinando come “campo profughi”, come se lì ci fossero persone scappate da una guerra e in cerca di supporto, e non braccianti, lavoratori, gente che vive in Italia da anni e che si spacca la schiena nelle nostre campagne.
Conviene ai sindaci, spesso anche a quelli più aperti e progressisti, che non si ritrovano i neri in mezzo alle proprie cittadine, e non devono così aprire scontri con la cittadinanza e magari perdere voti. Gli annunci in queste giornate tristi per l’Ucraina di tanti sindaci che offrono i loro comuni per ospitare chi scappa da quella guerra, stridono fortemente con il loro silenzio, quando non le spalle
girate, nei confronti di chi in questi anni è scappato da altre guerre, da altra miseria, ma con la pelle di un altro colore.
Conviene alle aziende che si ritrovano disperati in cerca di lavoro anche e soprattutto sottopagato.
Conviene alle organizzazioni criminali che trovano anche loro manovalanza a basso costo.
Conviene a una certa fetta del terzo settore, dell’associazionismo, non tutto e ci guardiamo bene dal generalizzare, ma non possiamo ignorare i progetti e i progettini, i finanziamenti stanziati sempre per forme di assistenzialismo che, senza le tendopoli, non avrebbero più ragione di esserci e dei quali, a quelli che sulla carta sono gli utenti finali, arrivano solo poche briciole.
Conviene a tanti quindi, anche a una parte, seppur piccola, di stranieri stessi che nel ghetto riescono a portare avanti i loro interessi. Non conviene di certo a chi vuole costruirsi un futuro e una vita dignitosa.
Le problematiche che affliggono la popolazione straniera e i braccianti della Piana di Gioia Tauro sono fortemente intrecciate tra loro. Prenderne in considerazione solo una, magari la più evidente, trascurando una visione d’insieme rischia di inficiare la prospettiva sul problema e le possibili soluzioni da individuare.
La questione abitativa; le criticità connesse al rilascio dei documenti e l’implementazione di serie politiche del lavoro sono tre livelli che meritano profonda attenzione e urgente considerazione.
I braccianti che vivono nella tendopoli di San Ferdinando così come nei vari ghetti della Piana sono lavoratori che contribuiscono in modo decisivo al comparto agricolo locale e regionale. Dovrebbero avere la possibilità di vivere in abitazioni degne di tale nome e non in campi e tendopoli che perpetuano una logica emergenziale che nel tempo si è fatta disumana. Tenere queste persone confinate nei campi o in container, anche se campi nuovi e puliti, significa contribuire alla loro invisibilità sociale e politica.
Considerato l’enorme numero di abitazioni sfitte sulla Piana, ci sarebbero tutte le possibilità per riparare questo evidente disagio abitativo.
Dopo anni di attesa e silenzio, è stato annunciato che i lavori alle palazzine di Rosarno – specificamente destinate secondo finanziamento europeo alla popolazione straniera del luogo – stanno per essere ultimati. Speriamo non rimanga l’ennesimo annuncio. Ma la soluzione alla concentrazione di braccianti e migranti in ghetti e campi non può che essere sistemica: bisogna individuare politiche che favoriscano l’inserimento diffuso di questi lavoratori nei centri della Piana, nell’ottica di favorire uno sviluppo territoriale complessivo – potenziamento del sistema dei trasporti locali, a oggi inesistente, a vantaggio di tutti, autoctoni e nuovi arrivati; impianti di illuminazione che rendano sicuro percorrere le strade che collegano i comuni del territorio; aprire e non chiudere uffici pubblici fondamentali per accedere a servizi sanitari e di altro tipo. Interventi del genere avrebbero ricadute per l’intera popolazione della Piana e non solo per i migranti.
La questione dei documenti è altrettanto drammatica. I ritardi tremendi nel rinnovo dei permessi – al punto che spesso si riceve il permesso elettronico quando ormai sta per scadere, se non già scaduto – genera tensione permanente tra i braccianti della Piana. Lo stesso vale per le estenuanti attese nella convocazione presso le commissioni territoriali deputate al riconoscimento della protezione internazionale (l’unica ad oggi operativa è a Crotone, e questa inizia a essere satura con smistamenti alla commissione di
Catania): è urgente la riapertura della Commissione territoriale di Reggio Calabria.
Più in generale, visto anche l’alternarsi di politiche nazionali di stampo punitivo e regressivo in materia di migranti, bisogna considerare che se un tempo la quasi totalità del bracciantato della Piana era regolarmente richiedente asilo o beneficiario di protezione, questa situazione è andata sgretolandosi a causa della rimozione di alcune forme di protezione e per effetto di ulteriori
provvedimenti che hanno fatto sì che oggi, presso tendopoli e ghetti, risieda anche una popolazione stanziale che non riesce a reimmettersi nei circuiti della ‘regolarità’. Servono interventi precisi e mirati, volti a garantire documenti e permessi di soggiorno a tutte queste persone che lavorano principalmente nell’agricoltura, e che non possono avere regolare contratto, visto che mancano di documento. L’assenza di questo, dunque, determina sfruttamento e vulnerabilità, e questo circolo vizioso può essere interrotto solo con la completa emersione della popolazione straniera.
Bisognerebbe poi riflettere su come in Italia l’unico modo – o quasi – per vedere riconosciuta la dignità e la soggettività politica dei braccianti sia quello di vedersi riconosciuti come ‘rifugiati’. Non esiste, insomma, una politica del lavoro che guardi a queste persone per quello che ‘fanno’, e non per quello che ‘sono’ o ‘dovrebbero essere’. Si tratta di lavoratori. Partiamo da qui.
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