Il
Trattato di Roma del 1957 ha prefigurato un sistema di controllo
giurisdizionale affidato al giudice comunitario e al giudice nazionale,
da soli, ma anche insieme, costruendo quel meccanismo sinergico che è il
rinvio pregiudiziale e che si è rivelato fondamentale per il successo
del processo di integrazione complessivamente considerato. È un
meccanismo che conosciamo bene, perché somiglia molto a quello in Italia
affidato alla Corte costituzionale. D’altra parte, se la Costituzione
segna un primo cerchio di legittimità delle leggi, i Trattati
dell’Unione europea rappresentano un secondo cerchio di legittimità, nel
senso che è richiesta una coerenza delle norme interne anche con quelle
dell’Unione.
Il
ruolo del giudice comunitario nell’applicazione dei Trattati e degli
atti che da essi traggono la loro forza vincolante, col senno di oggi,
ma non solo, si è rivelato strutturalmente decisivo per lo sviluppo del
sistema, con passaggi della giurisprudenza che hanno scandito lo
sviluppo più significativo dell’attuale livello di civiltà giuridica.
Basti pensare alla decisione Van Gend en Loos, che afferma come ad ogni dovere di uno Stato corrisponde un diritto del singolo a che quel dovere sia rispettato; a Costa-Enel, che fa prevalere i Trattati su una legge successiva che li contraddice; a Factortame,
che, richiamando implicitamente Calamandrei, attribuisce al giudice
nazionale che non l’abbia il potere di sospendere in via cautelare
l’applicazione di una legge in attesa che se ne accerti in via
definitiva la legittimità; a Francovich, che afferma la responsabilità dello Stato per la violazione di una normativa comunitaria che produce un danno; a Schmidberger, che fa prevalere il diritto di sciopero sul principio della libera circolazione delle merci.
Né
si può dimenticare la messe di sentenze a tutela dei diritti
fondamentali dei singoli, anche al di là di quanto garantito dalle
Costituzioni nazionali e nel silenzio assordante degli stessi Trattati
comunitari. In definitiva, il giudice dell’Unione ha saputo spostare il
baricentro del sistema dalla dimensione prevalentemente economica della
libera circolazione delle merci e dei servizi a quella solidaristica
della libera circolazione delle persone, con il suggello della tutela
dei diritti fondamentali della persona in quanto tale, che lavori o no,
di qualunque colore della pelle o nazionalità o età o sesso. In breve ha
reso il mercato comune l’ambito nel quale trovano riconoscimento non
solo le libertà economiche fondamentali (scambi e concorrenza), ma anche
l’insieme delle istanze (tutela e promozione del lavoro, delle donne,
dei giovani, dell’ambiente, della cultura, delle aree sfavorite) che
sono patrimonio comune e qualificante delle moderne democrazie.
Resta
il problema della mancanza di una politica economica dell’Unione,
competenza che gli Stati fin dall’origine non hanno voluto delegare e
che pertanto è rimasta alla loro responsabilità.
L’anomalia
è poi risultata ancor più evidente quando la politica monetaria è stata
viceversa attribuita all’Unione ed in particolare alla beata solitudine
della Banca centrale europea. La conseguenza è stata che gli Stati
membri hanno dovuto cercare al di fuori dell’assetto istituzionale
comunitario i necessari rimedi, dunque con accordi internazionali (leggi
Fiscal Compact, ad esempio). Peraltro, anche a tale proposito
non è mancato il contributo della Corte di giustizia, che, sia pure
faticosamente e con qualche disinvoltura (sentenze Pringle e OMT), è riuscita a mantenere entro il binario dell’Unione ciò che era a stento possibile.
In
definitiva, sessant’anni di giurisprudenza della Corte di giustizia e
insieme dei giudici nazionali come giudici comuni del diritto
dell’Unione rappresentano bene l’Europa che c’è, che mantiene –
nonostante le crisi, i fili spinati, le uscite e una retorica
anticomunitaria di chi non conosce e improvvisa – una serie di valori
che vale la pena di tramandare ai giovani.
Giuseppe Tesauro, presidente emerito della Corte costituzionale