Rassegna, le segnalazioni di Md

di Esecutivo di Magistratura Democratica

Stampa e giustizia

SE IL CANE DA GUARDIA NON  MORDE

di Vladimiro Zagrebelsky


pubblicato su “La
Stampa” del 30 settembre 2011

Cane
da guardia della democrazia. Questo è il ruolo che la stampa svolge
(deve svolgere, deve poter svolgere) in una società democratica,
secondo una formula ripetutamente utilizzata, con lessico
anglosassone, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. L’immagine
è ricca di indicazioni. Il buon cane da guardia gira libero attorno
a casa, orecchie tese e naso al vento. E abbaia, anche più forte del
necessario e qualche volta deve mordere. Così la stampa.

La
libertà di espressione è uno dei fondamenti essenziali di una
società democratica e vale non soltanto per le informazioni o le
idee accolte con favore o che sono inoffensive o indifferenti, ma
proprio e specialmente per quelle che urtano e inquietano. Sulle
questioni di interesse per il dibattito pubblico, al diritto di
diffondere informazioni e opinioni corrisponde quello del pubblico di
riceverle. Cérto è possibile prevedere limiti alla libertà di
espressione, quando siano in pericolo la sicurezza nazionale o
l’ordine pubblico o occorra difendere la morale o la reputazione
altrui, oppure si debba impedire la divulgazione di segreti o sia
necessario proteggere l’autorità e l’imparzialità del potere
giudiziario. Riprendo dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo
questa elencazione di ipotesi di restrizioni legittime. Ma anche in
quei casi solo una necessità imperativa può giustificare le
limitazioni.

Alle
ristrette possibilità di cui dispone l’autorità pubblica nel
limitare la libertà di informazione si accompagna però il richiamo
ai doveri professionali e alla responsabilità di chi, esponendo i
fatti ed esprimendo il suo pensiero, si avvale della libertà di
espressione. Questo
quadro di principi costituisce un tratto identitario della civiltà
europea e occidentale. Nessuna società europea può distaccarsene,
nessun governo può rifiutano o forzano.

Ma
da tempo in Italia si discute aspramente di limitazioni da imporre
alla possibilità di pubblicare (e quindi commentare) informazioni
tratte dalle indagini giudiziarie. Si parla quasi solo delle
intercettazioni telefoniche, ma si tratta di tutte le informazioni,
anche quelle che si ricavano dalle testimonianze, da documenti, ecc.
L’argomento che si usa è legato al diritto, anch’esso
fondamentale, che le persone hanno al. rispetto dèlla propria
reputazione e alla riservatezza della vita privata. L’occasione
contingente della presente, acuta sensibilità rispetto a questo
diritto delle persone spinge spesso ad assimilare il potente di turno
a ciascuno di noi. Egli infatti dice: difendo la mia vita privata, ma
lo faccio perché la nostra, di noi tutti, è in pericolo. Chi fosse
impressionato dall’argomento, dovrebbe però considerare che non
siamo tutti eguali e che meritano di essere conosciuti e commentati
anche aspetti della cosiddetta vita privata dell’uomo politico,
proprio perché egli si è candidato e si candiderà a essere eletto
dai cittadini. Egli non «fa i fatti suoi», ma si occupa «dei fatti
nostri» e si è esposto volontariamente all’esame del pubblico.

Dovendo
tener conto della libertà di informazione, si dice spesso da parte
governativa che si dovrebbe poter pubblicare solo quello che ha
«rilievo penale». Purtroppo anche dall’opposizione si tende a
seguire questa strada, come se fosse possibile stabilire ciò che in
una conversazione è penalmente rilevante e come se questo fosse il
vero discrimine tra ciò che è pubblicabile e ciò che non lo è.

Raramente
una conversazione è in sé penai- mente rilevante. Può esserlo se
esprime minaccia o ingiuria, oppure rivela informazioni che devono
rimaner segrete. Ma altrimenti il suo significato in un processo
penale deriva dal contesto generale delle prove. La più innocente
delle conversazioni telefoniche prova almeno che i due si conoscono.
Non solo, ma ciò che ora sembra irrilevante può assumere altro
senso e importanza in seguito, quando altre prove illumineranno
diversamente la scena. E infine, occorrerà attendere il giudizio
definitivo per costatare che questa o quella informazione, questa o
quella frase hanno avuto peso nella decisione del giudice? I tempi di
un’efficace informazione non corrispondono a quelli propri della
giustizia penale.

Ma
quello della rilevanza penale non è solo un criterio inutilizzabile
in pratica. Più radicalmente è un criterio sbagliato. Da una parte,
proprio perché una notizia riguarda un fatto rilevante per
1’indagine o il processo penale, la protezione dell’efficacia
della indagine può richiedere di impedirne o ritardarne la
divulgazione. E dall’altra e soprattutto, perché il dibattito che
legittimamente e doverosamente si svolge nella società democratica,
considera un ambito difatti che va ben oltre ciò che è «penalmente
rilevante». L’opinione pubblica si interessa e si forma su ciò
che è socialmente, culturalmente, economicamente, politicamente
significativo. 11 giudizio su ciò che è significativo e ciò che
non lo è deve restare prevalentemente nelle mani di chi fa uso della
libertà di espressione che la Costituzione e le convenzioni
internazionali gli assicurano. E si tratta di un giudizio legato alla
specificità del caso concreto, che mal sopporta regole generali e
astratte, come sono quelle che impongono le leggi.

Non
dunque il rilievo «penale», ma il  rilievo «sociale» spinge
il giornale e il giornalista a pubblicare o a trascurare una notizia
e ancor prima, nel giornalismo di inchiesta, a cercarla, fino a
forzare il segreto che altri è interessato ad assicurare.

I
confini del lecito e dell’illecito nell’attività giornalistica
sono nevitabi1mente incerti. Esigenze e interessi diversi e opposti
si contrappongono. Un bilanciamento è necessario: uno prevale e
l’altro soffre. La violazione dei limiti imposti dalle leggi e
dalla deontologia professionale è nell’ordine delle cose
possibili. Ma anche quando ciò avvenga e sia quindi legittima una
reazione repressiva o si imponga il risarcimento dei danni morali
procurati ad altri, la protezione della libertà di stampa in
generale richiede che la sanzione sia equilibrata. E che essa non
produca un effetto di generale intimidazione alla libera stampa:
giornalisti, giornali e editori. Dalle decisioni della Corte europea
i parlamenti nazionali e i giudici ricavano che una sanzione penale
detentiva è giustificata solo quando si sia di fronte a discorsi che
incitano alla violenza o all’odio razziale, mentre anche le
sanzioni economiche non devono essere eccessive. Ma di tutto ciò è
scarso l’eco nel dibattito politico, né nei progetti che il
parlamento è chiamato a discutere. Forte è invece la preoccupazione
di assicurarsi che il cane da guardia non morda e sia prudente
nell’abbaiare. Insomma, che non disturbi.

30/09/2011

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