Rassegna
L'intervista a Mariarosaria Guglielmi
C’è una magistratura consapevole, preoccupata, capace di autocritica e di non guardare alla sola ricerca del consenso in vista delle elezioni al Csm. Mariarosaria Guglielmi, pm a Roma e giovane segretaria di Magistratura democratica, è un esempio di questa vigilanza che le toghe non hanno affatto smarrito. Ammette una “responsabilità” rispetto a “errori ed eccessi, che non sono mancati, anche nelle indagini condotte nei confronti della classe politica”, e agli “effetti avuti nella diffusione di atteggiamenti giustizialisti”. Riconosce però anche il ruolo che la magistratura può continuare ad avere “nella difesa dei principi costituzionali, come l’indipendenza e il presidio dei diritti fondamentali”, anche “nel dialogo con l’avvocatura”. A tal proposito, Guglielmi ricorda “la grande sfida che le parole dell’avvocato Mascherin ci hanno consegnato: avvocatura e magistratura su questo terreno possono diventare una ‘forza a cui è difficile contrapporsi anche culturalmente’”.
Dottoressa Guglielmi, in un suo intervento su Repubblica della scorsa settimana, lei ha indicato il rischio di un pregiudizio diffuso nei confronti dei deboli, innanzitutto dei migranti. Pregiudizio che, secondo la sua analisi, si riflette in alcune scelte politiche non condivisibili, che viene amplificato dai media e che fatalmente si radica nell’opinione pubblica. Crede che questo fenomeno abbia un legame con il diffondersi di un generale atteggiamento giustizialista? C’entra qualcosa anche la continua caccia al colpevole alimentata da alcune trasmissioni televisive?
Quando in materia di giustizia e di diritto penale si ricorre alla demagogia e alle sue semplificazioni si rischia di smarrire la consapevolezza dei valori complessi, come quelli del garantismo, di invocare la pena a tutti i costi, di non riconoscere il carattere relativo della verità processuale. Le semplificazioni del giustizialismo non distinguono però fra soggetti “deboli” e soggetti “forti”. È vero il contrario: nella logica giustizialista, le garanzie diventano inutili formalismi sia quando si chiede di punire e così di neutralizzare il nemico sociale, il migrante ma anche il povero, sia quando ai giudici si chiede di “vendicare” i torti che abbiamo subito ad opera del “potente” di turno.
Parliamo insomma di una categoria che precede altri sentimenti collettivi di base.
Un momento. Il giustizialismo vuole i suoi nemici dichiarati ed è l’altra faccia delle scelte di politica criminale che li ricostruisce. Scelte che in tema di immigrazione hanno prodotto il reato di clandestinità con la finalità di esprimere il massimo disvalore rispetto al migrante “irregolare” e criminalizzare la persona in quanto tale. La conferma della cifra ideologica di questo reato è nelle ragioni dichiarate per le quali, preannunciata ed invocata anche da esponenti politici di rilievo, la sua abrogazione è stata rinviata: ragioni di “opportunità” per non inviare all’opinione pubblica un “messaggio negativo per la percezione di sicurezza”. Ancor più che il pregiudizio, queste scelte tradiscono la logica del nemico, che oggi riconosciamo nel linguaggio e nei contenuti del dibattito pubblico sull’immigrazione e che porta a scelte di “esclusione”, anche quando contrarie a principi elementari di civiltà giuridica, mi riferisco alla riforma della cittadinanza, come risposta al senso di insicurezza e di paura della collettività.
Fino a che punto un certo atteggiamento giustizialista può essere stato innescato da alcuni possibili eccessi dell’azione penale – e delle sue proiezioni mediatiche – condotta negli ultimi anni nei confronti della classe politica?
La magistratura non deve mai fare sconti a sé stessa nel riconoscere le sue responsabilità, nell’analizzare le cause dei suoi errori ed eccessi, che non sono mancati anche nelle indagini condotte nei confronti della classe politica, e sugli effetti avuti nella diffusione di atteggiamenti giustizialisti. Questo le consente di rivendicare credibilmente il ruolo svolto nella tutela e nella riaffermazione della legalità nel nostro Paese, come valore della nostra democrazia, e che ne ha fatto un argine alla crisi di sfiducia che ha investito le istituzioni. Con la capacità di autocritica, l’attenzione alle garanzie, la consapevolezza dei limiti della propria funzione, la magistratura deve oggi confrontarsi con i rischi delle nuove forme del populismo giudiziario e con i sentimenti dell’antipolitica che alla magistratura chiedono di attribuirsi e di interpretare il ruolo di unica istituzione sana del Paese. Un ruolo molto rischioso, che ci porta fuori dal recinto del confronto istituzionale nel quale nessuno può scegliersi gli interlocutori e tutti sono obbligati a riconoscersi reciproca legittimazione.
Lei rappresenta un importante gruppo associativo di magistrati progressisti, e in un momento culturalmente difficile come questo vi fate carico di sollevare dinanzi all’opinione pubblica i rischi dell’indifferenza nei confronti dei più deboli. A proposito di quegli eccessi in cui si è imbattuta l’azione penale, avverte una qualche responsabilità indiretta, come magistrata e come magistrata progressista, rispetto al maturare di quest’indifferenza?
Anche all’ultimo congresso di Bologna del 2016 Magistratura democratica ha ribadito il senso del suo impegno nella società e nella giurisdizione a favore dei diritti e delle garanzie. Un impegno che tutta la magistratura progressista rappresentata da Area democratica per la giustizia deve portare avanti nel dibattito associativo e nell’autogoverno per contrastare chiusure e derive corporative, per favorire una crescita collettiva della magistratura con l’attenzione ai valori costituzionali della giurisdizione. Questo impegno nasce anche dalla consapevolezza delle nostre responsabilità per aver subito e in parte assecondato il ripiegamento della magistratura verso forme di neocorporativismo, a scapito dell’attenzione sulle tematiche della giurisdizione, e di dover recuperare una forte capacità di autocritica e di vigilanza anche rispetto a scorciatoie e a prassi discutibili sulle quali si misura, in concreto, la tenuta del sistema delle garanzie.
Al di là del ruolo svolto dalla giustizia penale, il giustizialismo e l’indifferenza di parte dell’opinione pubblica rispetto al dramma degli ultimi ha un legame con lo smarrimento per l’oggettiva incapacità della classe politica di fornire risposte al disagio diffusosi con la crisi?
Giustizialismo, populismo, smarrimento e indifferenza per il dramma degli ultimi sono espressione di un’emotività che si nutre della tensione sociale generata dalla perdita di diritti e di tutela. Nell’epoca delle nuove disuguaglianze, nuovi perdenti si sentono contrapposti ad altri perdenti, soggetti deboli e senza diritti, come i migranti; si rivendica il diritto ad escludere gli altri; si perde il senso di appartenenza ad una comunità nelle quale i valori di eguaglianza, equità e solidarietà sono valori unificanti e base della coesione sociale. Un’emotività cresciuta nel vuoto lasciato dalla rinuncia della politica a governare i cambiamenti prodotti dalla crisi economica e a porre rimedio all’aggressione allo stato sociale e ai diritti dei lavoratori. E che oggi è il fuoco sul quale soffiano populismi e nazionalismi.
Il giustizialismo e l’indifferenza possono essere intravisti anche dietro comportamenti come quello del funzionario di polizia che ha invitato a spaccare un braccio ai senzatetto che si fossero opposti allo sgombero?
Nell’intervista rilasciata qualche tempo fa il capo della Polizia dottor Gabrielli ha parlato dell’importanza di accertare le responsabilità “sistemiche” per i gravi fatti del G8, al di là di quelle individuali, e di comprendere quel che rende inaccettabili in uno Stato di diritto ogni atto di violenza da parte di chi detiene il monopolio della forza pubblica a tutela della collettività. Gabrielli ha parlato di un tradimento della fiducia dei cittadini verso le istituzioni, al quale si può rimediare non solo sanzionando chi ha sbagliato ma con una assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni, che può restituire ai cittadini il senso di appartenenza ad una collettività. Uso questi stessi parametri per una valutazione sui fatti di Roma: al di là di quel che ha motivato la condotta di singoli, che è oggetto di verifica nelle sedi opportune, ciò su cui dobbiamo riflettere sono le responsabilità sistemiche per una strategia di risposta, in termini di ordine pubblico e di ripristino della “legalità formale”, a situazioni che ci pongono di fronte agli effetti di una esclusione dei diritti. Sono scelte coerenti con l’emotività dei nostri tempi che trasforma il povero, come il migrante, in una minaccia da neutralizzare e in espressione di disordine sociale, alla quale si risponde non eliminando le cause della marginalizzazione ma ciò che la rende visibile.
A breve l’Anm celebrerà un congresso in cui discuterete anche di immigrazione. La posizione sua e del suo gruppo è chiara. Crede che possa risultare anche prevalente all’interno dell’Anm?
La giurisdizione, cito Luigi Ferrajoli, può essere un luogo di garanzia dei diritti fondamentali di tutti, e perciò dei soggetti più deboli, solo se sorretta da un forte impegno collettivo della magistratura nella difesa dei principi costituzionali, come l’indipendenza dei giudici e il loro ruolo di garanzia dei diritti fondamentali. L’Anm deve continuare ad essere il luogo dove la magistratura porta avanti questo impegno comune per la giurisdizione e il dialogo sui diritti e sulle garanzie con l’avvocatura, raccogliendo oggi la grande sfida che le parole dell’avvocato Mascherin ci hanno consegnato: avvocatura e magistratura su questo terreno possono diventare ‘una forza a cui è difficile contrapporsi anche culturalmente’. L’Anm si è sempre impegnata sulle tematiche dell’immigrazione, intervenendo anche sulle criticità della recente riforma dei procedimenti in materia di protezione internazionale. La comune consapevolezza dell’importanza dei valori in gioco in questo ambito è la base dalla quale parte il confronto interno alla magistratura e ciò che può unire intorno al tema dei diritti le diverse sensibilità culturali.
In una recente intervista al Dubbio il consigliere Morosini ha segnalato il rischio di una eccessiva preoccupazione per la carriera, che allontani i magistrati dalle grandi questioni della tutela dei diritti: quel rischio esiste davvero?
L’entrata in vigore della riforma dell’ordinamento giudiziario è stata vissuta dalla magistratura come una soluzione di compromesso rispetto all’originario progetto Castelli ma, al tempo stesso, come una sfida lanciata dal legislatore per un progetto di autoriforma, che il sistema di autogoverno ha raccolto, impegnandosi sulle valutazioni di professionalità e realizzando un effettivo rinnovamento della dirigenza. Una sfida anche culturale per la magistratura, che imponeva il superamento del principio della carriera intangibile e della visione della dirigenza come premio di fine carriera.
Ma proprio Morosini rileva, tra l’altro, le disfunzioni prodotte dal ricorso a una discrezionalità che, per non apparire arbitrio, deve rifarsi a qualche parametro “certificabile” e finisce però così per dare un enorme peso alle valutazioni dei dirigenti degli uffici.
Il buon uso dell’ampia discrezionalità attribuita al Csm in materia di nomine richiede un livello alto di tutto il sistema di autogoverno: fonti di conoscenza e di valutazioni attendibili; impegno nel rendere conto, anche attraverso motivazioni trasparenti, del modo in cui si esercita la discrezionalità e dello sforzo di conformarla ai criteri che devono orientarla. Su questo aspetto la sfida non può dirsi certamente vinta e le criticità emerse nell’esercizio della discrezionalità sono oggi al centro del dibattito associativo. A distanza di dieci anni dalla riforma si colgono i segni di nuove dinamiche di carrierismo e del ritorno a vecchie logiche corporative, assecondato dalla mancanza di un adeguato investimento sulle “leve” dell’autogoverno che avrebbero dovuto scardinarle, come le valutazioni e le conferme quadriennali. Una magistratura concentrata sulle prospettive di avanzamento e di conservazione della carriera è una magistratura autoreferenziale e non pienamente consapevole del suo ruolo, che distoglie lo sguardo dalle tematiche dei diritti e della giurisdizione e, in vista della carriera, è indotta anche a fare scelte di conformismo giurisprudenziale.
E qui la sua analisi è assai vicina a quella di Morosini.
Aggiungo che da questa fase dobbiamo uscire non pensando a scelte rinunciatarie ma rilanciando la “sfida”. La complessità dei compiti legati alla dirigenza degli uffici e le ricadute delle scelte organizzative sulla qualità della giurisdizione e sull’efficienza del servizio per la collettività oggi più che in passato richiedono il nostro impegno per tornare a promuovere nell’autogoverno un modello culturale di dirigenza come funzione di servizio. Nell’autogoverno la magistratura deve essere in grado di assicurare un esercizio trasparente della discrezionalità, che renda riconoscibili i criteri di valutazione adottati. Reintrodurre forme di selezione ancorate al solo criterio automatico dell’anzianità senza demerito rischia di riportarci al vecchio modello di dirigente “buon padre di famiglia” e di restituire un valore proprio a quelle “certezze” di carriera di cui oggi la magistratura sente troppo fortemente il bisogno.
Intervista di Errico Novi, Il Dubbio - 29 agosto 2017
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