Trent'anni dopo Capaci
Quella sera
Quella sera del 23 maggio buona parte dei ventisette uditori del distretto di Milano si sarebbe riunita in una cena, nella casa ospitale di una di noi.
L’appuntamento finì con il cadere poche decine di minuti dopo l’attentato.
E quella sera, quella cena, furono molto diverse da come ce l’immaginavamo.
Poche cose mandate giù in fretta, davanti alla televisione, frasi brevi, preoccupazione, che si avvicinava a ciascuno in cerchi sempre più prossimi: dai rischi per la tenuta costituzionale al che cosa sarebbe stato, in concreto, fare per davvero il magistrato di lì a poche settimane, quando avremmo raggiunto le sedi che già avevamo scelto, molte al Sud.
Ma quelle frasi diventavano mano a mano più sicure: eravamo insieme, lo saremmo rimasti anche dopo, e così accadde davvero in quei primi anni, in un mondo giudiziario che ci permetteva di fare il nostro lavoro guardando alla giurisprudenza disciplinare con un sorriso perché la casistica era solo quella di comportamenti negativamente estremi, di pensare ai “rapporti dei capi” come a qualcosa di semi ignoto, lontano e non malevolo, di vedere i dirigenti degli uffici come dei colleghi più anziani non diversi dagli altri magistrati che ci avrebbero dato una mano a capire quel mondo.
Così accadde per molti di noi: lasciandoci il tempo e lo spazio per uscire dalle nostre stanze, comunicare, parlare per davvero, senza circonlocuzioni prudenti, con le colleghe o i colleghi, condividere la passione per la tutela dei diritti, condividere uno sguardo sul mondo, pensare che l’esempio grande delle vittime non era distante dal lavoro quotidiano di tutti noi.
Di ripensare, forse senza comprenderla fino in fondo – in quel tempo - alla storia di Giovanni Falcone, e a com’era in una certa fase accaduto che chi diffidava dei suoi metodi innovativi trovasse utile riempirlo di “numeri” da smaltire.
Giuseppe Battarino
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