Perchè rileggere
Perchè rileggere Luciano Bianciardi
“L’importante è fare le scarpe al capufficio, al collega, a chi ti lavora accanto. Il metodo del successo consiste in larga misura nel sollevamento della polvere”.
È solo una delle molte frasi acuminate che Luciano Bianciardi, nel suo romanzo più noto (La vita agra, del 1962), dedica a descrivere il male del capitalismo rampante.
Luciano Bianciardi, nato a Grosseto il 14 dicembre 1922, diventerà maestro nello scandagliare un’umanità che si avvia all’alienazione: le scene di massa di una Milano indaffarata rivelano i singoli soggetti alle origini del micromaterialismo egoista che diventerà atteggiamento ricorrente, fino ai giorni nostri.
La disarmante realtà è che “non abbiamo altro metro se non la capacità di ciascuno di rimanere a galla e di salire più su, insomma di diventare vescovo”: e Bianciardi descrive il “restare a galla” – guardando sospettosamente gli altri, sul posto di lavoro, negli affollati grandi magazzini allora allo stato nascente, nelle strade dominate dall’isterismo degli automobilisti – e la voglia di “diventare vescovo” di raggiungere un posto da capo o capetto; il tutto praticando il “metodo del successo” che consiste nel “tenere i marcamenti … fare polvere … dare la sensazione dell’attività”.
Ciò che conta è, come dice un droghiere, “la grana, la grana” e guai a non essere veloci ed efficienti, anche al bancone, il cliente nell’ordinare e il commesso nel servire.
Il protagonista della Vita agra non riesce ad essere un contestatore sessantottino ante litteram, perché è, anch’egli, un individualista, alla ricerca di un gesto esemplare e non di una coscienza collettiva.
Ma l’idea della necessità di una ridefinizione dei rapporti tra capitale e lavoro la si trova comunque nell’opera di Bianciardi: la sorte dei minatori morti in miniera è un leit-motiv che percorre il libro e non c’è dubbio che sia una strage dei padroni che esigono il raddoppio della produzione a costo di violare le regole antinfortunistiche di base.
Del resto la prima opera pubblicata da Luciano Bianciardi era stata, nel 1956, “I minatori della Maremma”, scritta insieme a Carlo Cassola dopo lo scoppio della miniera di lignite di Ribolla, in provincia di Grosseto, che aveva causato la morte di quarantatré lavoratori.
La “trilogia della rabbia” (“Il lavoro culturale”, “L’integrazione”, “La vita agra”, ora in unico volume, Feltrinelli, 2022) di Luciano Bianciardi è il percorso di un irregolare, capace di vedere la diseducazione sentimentale prodotta dal miracolo economico.
Quasi inevitabilmente, nello spirito giudiziario dei tempi, lo scrittore toscano subirà un processo penale per oscenità e vilipendio della religione dello Stato, per il racconto “La solita zuppa”, dove si descrive un distopico mondo a rovescio sessualizzato (la versione integrale del racconto e la ricostruzione della vicenda processuale in “Imputati tutti. «La solita zuppa»: Luciano Bianciardi a processo“, ExCogita, 2022).
E, da irregolare, Luciano Bianciardi morirà a Milano il 14 novembre 1971.
Nel 1964 Carlo Lizzani aveva girato un efficace film tratto da “La vita agra”, con lo stesso titolo, e per protagonista un Ugo Tognazzi in grado di andare ben al di là della sua maschera di quel tempo.
Ma non è il solo caso di romanzo trasposto sullo schermo che consente a un attore di diventare strumento critico di quel modello di sviluppo: pensiamo ad Alberto Sordi ne “Il maestro di Vigevano”, nella feroce trasposizione cinematografica di Elio Petri nel 1963 del romanzo di Lucio Mastronardi; mentre, in una dimensione invece priva di grandi individualità attoriali, a ideale completamento di una sequenza sul modo d’essere del lavoro e dell’impresa di quegli anni ante-Statuto, si colloca “Il posto” di Ermanno Olmi, del 1961.
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