Note per un 25 novembre

Note per un 25 novembre

a cura di Pina Porchi


Il 17 dicembre 1999 le Nazioni Unite, nella Risoluzione 54/134, constatavano “con preoccupazione che la violenza sulle donne è un ostacolo sulla via dell’uguaglianza” e che “la violenza contro le donne deriva da una lunga tradizione di rapporti di forza disuguali fra uomini e donne”. Decidevano di proclamare il 25 novembre Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne.


La questione della violenza di genere era, già allora, al centro del dibattito mondiale. Risalgono agli anni 2000 i primi interventi legislativi, in Europa ed in Italia, rivolti al contrasto di tale odioso fenomeno in tutti i suoi aspetti.


Più di un ventennio è trascorso, nel corso del quale i legislatori hanno cercato soluzioni preventive o repressive per sconfiggere o depotenziare l’incidenza delle violenze di genere. 


La spinta dell’opinione pubblica è forte: il problema del c.d. femminicidio occupa stabilmente gran parte del palinsesto televisivo quotidiano.


Eppure gli interventi di normazione positiva, quando non si risolvono in un secco inasprimento della sanzione penale (come è pure recentemente avvenuto nell’ambito del c.d. “Codice Rosso”), si traducono non di rado in modifiche normative eccessivamente puntiformi, perlopiù sguarnite di reale efficacia e di coordinamento sistematico.


Di sicura utilità si è rivelata la misura del divieto di avvicinamento alla persona offesa. Meno utile la creazione di una fattispecie di reato a sé stante, consistente nella violazione del divieto, per cui è previsto l’arresto in flagranza senza che siano applicabili misure cautelari ulteriori.


Opinioni contrastanti sono state espresse in merito all’estensione delle misure di prevenzione personali agli indiziati di stalking e maltrattamenti: in effetti, tali misure richiedono all’interprete di declinare la pericolosità in senso difforme rispetto al sistema di riferimento.


Angusto, poi, lo spazio dedicato ai percorsi di recupero psicologico. Dal 2019 il giudice è obbligato a subordinare la sospensione condizionale alla loro esecuzione ed analoga disposizione è stata inserita nella legge sull’ordinamento penitenziario in relazione alle misure alternative alla detenzione. Ma ci troviamo già all’esito del giudizio di merito (al passaggio in giudicato della condanna, o nella fase esecutiva). Lo stesso testo normativo, peraltro, inasprisce decisamente le pene e correlativamente rende marginale l’applicazione dell’istituto.

La scarsa organicità dell’intervento del legislatore è dovuta, in larga parte, come sempre accade, alla logica emergenziale degli innesti normativi. Ma la questione è forse più complessa.


La, pur volenterosa, elaborazione in materia non ha ancora consentito di riconoscere che il tema “violenza di genere” è estremamente eterogeneo e riunisce fenomeni molto diversi tra loro.


Gli interventi normativi riuniscono, sfruttando la categoria delle c.d. “fasce deboli”, fattispecie delittuose quali atti persecutori, maltrattamenti (una diade costante, ma si tratta di reati che presuppongono dinamiche relazionali quanto mai distinte), violenza sessuale, pedopornografia, revenge porn.


Non si è ancora assistito a un singolare e più organico intervento che riguardi uno solo di tali delitti e si faccia carico seriamente delle problematiche ad esso connesse.


Si tratta, in verità, di un’amara constatazione. Il pensiero femminista, anche se ci si limita a guardare solo all’Italia, ha radici che vanno nel tempo molto indietro, ben oltre la data di istituzione della giornata del 25 novembre. Si tratta di un movimento che ha affermato, negato, si è contraddetto, ha accolto altri punti di vista (più che mai recentemente, grazie all’incontro con la cultura LGBT e le teorie queer). Ha abbandonato la rigidità della demonizzazione dell’uomo, accogliendo una visione in cui gli stessi maschi sono vittime degli stereotipi, spesso irreali e menzogneri, connessi alla loro sessualità. Nel fare tutto ciò, il pensiero femminista ha definito e strutturato i propri temi di indagine ormai scientificamente.


In controtendenza, invece, e più in armonia con lo strepitare continuo e indistinto dell’opinione pubblica, nella categoria “violenza di genere” si continua a ricomprendere tutto ciò che è (o sembra essere) debolezza, fragilità, prevaricazione, nella spasmodica ricerca di un pensiero onnicomprensivo in cui la banalizzazione è però sempre dietro l’angolo.


In parte il problema è rispecchiato nella Relazione finale della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio nonché su ogni forma di violenza di genere, pubblicata l’8 novembre 2022. La Commissione, non lo si può negare, ha svolto un grande lavoro, sotto molti profili innovativo.


Ma l’inchiesta riguarda, per l’appunto, non solo il femminicidio in sé ma “ogni forma di violenza di genere”. L’oggetto dell’inchiesta di fatto ricomprende sin dal principio infiniti e variegati ambiti della realtà, ciascuno dei quali pone domande e istanze di segno divergente: di protezione, di tutela, di prevenzione, di repressione, di punizione, di informazione.


Il documento spazia dalle discriminazioni delle donne in ambito lavorativo, alle mutilazioni genitali femminili, dalla tutela delle donne con disabilità a quelle delle donne anziane. Il numero e soprattutto la varietà tematica delle audizioni è impressionante.


In punto di prevenzione, vi si legge l’idea secondo cui è necessario modificare l’istruzione primaria e secondaria introducendo nei programmi cenni alla storia delle donne e una materia obbligatoria quale la “educazione emozionale”.


Si ipotizza la possibilità di inibire, nella comunicazione di massa, con strumenti di normazione forte e non più di soft law, ogni rappresentazione stereotipata della donna che possa suscitare l’assuefazione della mente alla potenziale sopraffazione.


Soluzioni semplici e, forse, semplicistiche, quantunque sia meritorio lo sforzo profuso nell’elaborazione dei dati e il tentativo di immaginare soluzioni in relazione a problemi così diversi.


Ma il quadro delle violenze domestiche e di genere non è uniforme, bensì è composto da più immagini che non possono essere messe a fuoco tutte contemporaneamente. 


Il problema del rapporto maltrattante protratto nel tempo è altro da quello degli atti persecutori dopo la rottura o tra perfetti estranei e ben altro è, ancora, lo stupro (che può essere intrafamiliare, adolescenziale, o collocarsi nelle marginalità sociali, ciascun caso richiede una riflessione singolare e una singolare attenzione alla vittima e al carnefice).


I discorsi di respiro ampio ci sono già stati, hanno avuto il loro merito e il dovuto ascolto: è tempo forse di risparmiare il fiato per poter discernere e così scendere nel dettaglio.


I dettagli sono immagini sfuggenti che cambiano e si distorcono progressivamente, quanto più ci si avvicini con lo sguardo, e che si modificano in base alla prospettiva.


Il maltrattatore, ad esempio, è spesso portatore di un disagio psicologico, non di rado commette azioni aberranti a causa di dipendenze (penso alla dipendenza da sostanze alcoliche ed alla sua difficile collocazione nell’ambito del trattamento dei soggetti non imputabili). 


L’intervento dei centri di recupero e dunque l’assistenza psicologica al colpevole (cui giustamente è stato dato rilievo nel corso dei lavori della Commissione d’inchiesta) ha il forte difetto, a legislazione invariata, di arrivare tardi e male: è il grimaldello per accedere alla sospensione condizionale della pena. Nella fase cautelare, un simile sostegno non è ancora previsto.


E il tema delle cautele, in tale contesto, è centrale. Una larga percentuale delle misure cautelari in atto sui ruoli monocratici e collegiali è connessa a episodi di maltrattamenti in famiglia.


L’escalation di violenza va fermata e vi è l’urgenza di interromperla. 


Spesso, però, l’applicazione stessa della cautela determina un’improvvisa riconciliazione romantica della coppia: l’allontanamento coatto dalla casa familiare vissuto alla stregua di una separazione imposta e intollerabile, il carcere come luogo in cui il vincolo malsano con la vittima si ricostituisce attraverso colloqui, lettere accorate, lancinanti nostalgie e pentimenti. 


Frequentemente tale meccanismo costituisce l’antecedente delle ritrattazioni in dibattimento. Il problema del recupero delle precedenti dichiarazioni in casi simili è stato però risolto, ad oggi, solo in via giurisprudenziale e con esiti non omogenei e rassicuranti.


Il giudice assiste, in questi casi, perlopiù impotente, a una dinamica che solo per poco riesce a fotografare, a visualizzare, ma i pochi frames che intercetta sono frustranti e allarmanti. Ciò vale anche per chi, come me, per formazione rifugge ogni forma di paternalismo giuridico.


Di tali distorsioni sarebbe necessario prendere atto in un intervento normativo a sé stante, che potrebbe prevedere forme di assistenza sociale tempestiva e obbligatoria per la vittima dopo l’applicazione della cautela, ma anche forme (compatibili con il principio di presunzione di innocenza) di iniziale contatto con l’imputato. 


Il discorso e il trattamento settoriale e organico delle singole forme di violenza di genere è un passo oggi necessario per implementare l’effettività del sistema penale, in base all’onesta considerazione per cui il processo in sé e la sanzione (per quanto severa) possono molto, ma non tutto.

30/11/2022

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