Assemblea nazionale Anm del 26 novembre 2023
Non si può spaccare la magistratura richiamando a sproposito il concetto di imparzialità
Buongiorno a tutti, mi piace esordire in questa assemblea raccogliendo l’invito che in apertura ha fatto il Presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, quando ha focalizzato l’attenzione sul fatto che gli interventi del Governo in tema di giustizia ma anche alcune esternazioni di esponenti di spicco della maggioranza pongono il tema di una ridefinizione dei confini dei rapporti tra organi della rappresentanza politica e la giurisdizione.
Prendendo spunto quindi da tale invito a riflettere su un tema che il presidente Santalucia si è guardato bene dal definire come scontro tra politica e magistratura, allora bisogna contestualizzare le recenti iniziative governative e porle in relazione tra loro.
Tale operazione ci può far affermare in maniera convinta che la questione delle sguaiate critiche al provvedimento della collega di Catania (ormai noto “caso Apostolico”, come è stato definito anche dalla stampa che continua errando a dare una vulgata della vicenda in chiave strettamente personalistica) non è stata affatto superata dalla circostanza che sono passate diverse settimane da quell’episodio e quindi risulta davvero fuorviante il tentativo di chi all’interno della magistratura vorrebbe tacitare ogni discussione sul punto perché non più attuale.
Invero, le critiche alla collega di Catania incentrate sulla partecipazione della stessa ad una manifestazione risalente a cinque anni prima senza alcun cenno al merito di un provvedimento ampiamente motivato devono essere messe in relazione ad altra iniziativa governativa che aveva generato la necessità di indire un’altra Assemblea Generale dell’Anm (nel giugno di quest’anno) e che aveva determinato anche la dichiarazione dello stato di agitazione già deliberato dal CDC in data 14.05.2023.
Mi riferisco all’improvvida iniziativa del Ministro Nordio di avviare un procedimento disciplinare nei confronti dei giudici della Corte di Appello di Milano la cui incolpazione contestava agli stessi “un comportamento connotato da grave ed inescusabile negligenza” per aver scarcerato un cittadino russo che poi si è dato alla fuga.
Ciò che aveva allarmato della cennata azione disciplinare era l’uso dello strumento disciplinare in contrasto con l’art. 2 decreto legislativo n. 109 del 2006, secondo il quale “l’attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove non danno luogo a responsabilità disciplinare”.
L’allarme lanciato dalla magistratura associata era stato condiviso anche dal mondo accademico e da una parte della stessa avvocatura e gli inviti rivolti al Ministro di revocare l’azione disciplinare erano rimasti lettera morta.
Nell’occasione avevo pienamente condiviso quanto riportato nel documento unitario approvato all’esito dell’Assemblea Generale ANM del 11.06.2023:
“…il Governo attenta all’indipendenza della Magistratura non solo, come spesso avvenuto in passato, per condizionare l’esito della giurisdizione, ma anche per ragioni politiche contingenti al precipuo scopo di superare una impasse diplomatica”.
Pertanto è necessario mettere in relazione tale iniziativa disciplinare con le critiche di esponenti del Governo al provvedimento del Tribunale di Catania in materia di immigrazione per svelare una strategia più complessiva di attacco alla giurisdizione che involge l’esercizio del potere interpretativo della legge da parte del giudicante.
Ecco che allora con riferimento al provvedimento dell’Apostolico si vuole da una parte censurare un provvedimento giurisdizionale non rispettoso dei dettami normativi, ma dall’altra si vuole dileggiare (con argomenti in nessun modo conferenti al merito della decisione) un modo di interpretare le norme.
Provando quindi ad allargare lo sguardo, una visione prospettica di tali vicende ci restituisce l’idea che dalla politica si voglia accreditare la tesi che l’unico giudice gradito è soltanto quello che applica freddamente le norme e non ostacola l’azione governativa.
Ma quello che allora dobbiamo ribadire con fermezza in questa Assemblea è il concetto che la funzione giurisdizionale non può essere interpretata più come mera “bocca della legge”.
Lo sforzo del giudicare e la fatica del magistrato si esplicano piuttosto sul campo “minato” dell’interpretazione dell’impianto normativo che deve essere guidata dal rispetto dei principi costituzionali ma anche dalle norme sovranazionali di matrice eurounitaria.
E ciò perché su questo si misura la politicità della giurisdizione che si manifesta - come ci ha ricordato magistralmente Piero Calamandrei nell’arringa in difesa di Danilo Dolci nel 1956 - nella valutazione comparativa di interessi in conflitto nella cornice dei più alti principi a contenuto politico (appunto quelli costituzionali).
Oggi non è più il tempo di confinare l’operazione ermeneutica a cui è chiamato il magistrato nel culto sacrale della legge (da applicare e non da interpretare) che negava in modo radicale il fisiologico ruolo di mediazione che il giudice è chiamato a svolgere tra la norma e la realtà sociale in cui si cala la vicenda da decidere.
È stata da tempo denunciata l’illusione del giudice “scienziato neutrale”, barricato in una torre d’avorio, vestale della legge.
Ed allora a me sembra che con lo sventolare da una parte la clava disciplinare per colpire il merito di un provvedimento giudiziario e le critiche ad un provvedimento che non applica asetticamente il disposto normativo voluto da questa maggioranza politica si voglia inaugurare un nuovo corso nei rapporti tra la politica e la magistratura, in cui la stessa viene relegata a mero organo esecutore delle leggi, e qualora non si adegui a tale ruolo (che di fatto svilisce la stessa essenza dello iuris dicere) venga tacciata di remare contro o addirittura di costituire “opposizione giudiziaria”.
Chiudo con una riflessione sul concetto di self-restraint sul quale una parte della magistratura continua a battere per distogliere anche l’opinione pubblica dalla gravità degli episodi testè illustrati.
Si sostiene che i magistrati debbano in questo clima di caccia alle streghe (quando si riesumano risalenti filmati per screditare la figura del giudice, tenuti nel cassetto ed utilizzati all’occorrenza) preoccuparsi di salvaguardare il valore imprescindibile dell’imparzialità limitando la propria presenza soprattutto nell’uso dei social nonché assumendo un atteggiamento più moderato e restrittivo anche nell’espressione del diritto di manifestazione del proprio pensiero.
Orbene, nessuno nega che un richiamo in tal senso debba essere esteso a tutta la categoria non foss’altro per il contesto in cui viviamo nel quale l’esposizione mediatica attraverso i social è quotidiana e pervasiva.
Ma oggi non si può spaccare la magistratura richiamando a sproposito il concetto di imparzialità.
Questo è il momento dell’unità, della compattezza a difesa dei valori dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura a fronte di attacchi eversivi dell’ordine costituzionale perché diretti a stravolgere il principio della separazione dei poteri su cui si regge l’impianto democratico della Repubblica.
È già forte il rischio di burocratizzazione della magistratura (attanagliata dalla logica statistica dei carichi esigibili, degli standard di rendimento, dei risultati attesi) ed allora senza voler ricorrere alla giurisprudenza alternativa che ha inaugurato un nuovo modo di intendere il ruolo del giudice (capace di creare con le proprie decisioni la nuova legalità promessa dalla Costituzione), non è ammissibile che si torni indietro di un secolo al giudice funzionario dello Stato.
E se c’è il pericolo concreto di questa deriva (a cui vuole spingerci la politica in modo nemmeno troppo velato) allora bisogna fare di tutto (ma proprio di tutto) per evitarlo.
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