Su improcedibilità, criteri di priorità e nuovo volto della pena
Processo penale: cambiare sì, ma come?
La norma sulla improcedibilità contenuta nella proposta di riforma 'Cartabia', oltre a stridere con l'articolo 112 della Costituzione, è potenzialmente irragionevole, perché 'colpisce' con un'unica e rigida sanzione processuale situazioni e processi molto diversi tra loro, trascurando la diversa gravità dei reati e la diversa complessità degli accertamenti da svolgere. L'improcedibilità così concepita, inoltre, diminuisce la qualità delle garanzie delle persone sottoposte a giudizio e rischia di sacrificare i diritti delle persone offese. Né risponde a pretese esigenze del diritto europeo, ove non si richiede che un processo finisca 'entro un certo termine', ma piuttosto che finisca 'utilmente', ossia con un accertamento del fatto.
Una riforma necessaria, ma verso quale prospettiva? Per un processo dai tempi ragionevoli che coniughi efficienza e complessità, contro le derive economiciste che misurano la giurisdizione in termini di mera produttività numerica, dietro alla quale si possono celare gravi ingiustizie.
Il Parlamento discute in questi giorni il disegno di legge sulla riforma del processo penale [AC-2435] e gli emendamenti ad esso apportati dal Governo.
I dati statistici confermano l’ineludibilità di una riforma. Ne offrono conferma i dati riportati nell’ultima relazione svolta all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2021.
Il numero di affari pendenti è – da anni – straordinariamente alto. Il numero di prescrizioni dichiarate dall’autorità giudiziaria procedente, anche: nel 2019, prima della pandemia, il dato nazionale era pari all’8,7%; nelle corti di appello – dato nazionale – le prescrizioni dichiarate risultano pari al 25,8% delle definizioni (e sappiamo che tale dato ha un’incidenza diversamente distribuita sul territorio nazionale). L’udienza preliminare è incapace di esercitare la funzione di “filtro” che le era assegnata nel disegno originario del codice (così la Commissione Lattanzi: «i dati statistici sono impietosi e dimostrano che, nei casi in cui l’udienza preliminare si conclude con un rinvio a giudizio – ossia nel 63% dei casi – essa genera un aumento di durata del processo di primo grado di circa 400 gg. Complessivamente, l’udienza preliminare filtra poco più del 10% delle imputazioni per i processi nei quali è prevista e non incide peraltro in modo significativo sul tasso dei proscioglimenti in dibattimento). La durata media dei procedimenti è preoccupante e – quanto ai giudizi di appello – straordinariamente elevata (durata media al giugno 2019, pre-pandemia: 840 giorni; e sappiamo che la durata media dei procedimenti di appello è diversamente distribuita sul territorio nazionale).
Non solo. La fotografia di un sistema penale inefficiente è restituita anche dai dati relativi alla c.d. popolazione carceraria: al 30 giugno 2021, il numero di detenuti presenti (oltre 53mila) è superiore alla capienza regolamentare (oltre 51mila); dei detenuti presenti, circa il 30% non è irrevocabilmente condannato e, tra essi, il 15% è ancora in attesa di una condanna di primo grado.
Si tratta di dati che dimostrano che l’attuale processo penale non è in grado di assicurare il fine per cui esso esiste e che lo legittima: accertare i fatti e offrire una verità processuale in tempi ragionevoli.
Un simile quadro impone di intervenire. Non solo perché è necessario rispettare il cronoprogramma associato al PNRR; ma perché – prima di esso – lo impongono l’art. 111 Cost. e l’art. 6 della Conv. Edu.
Alcuni interventi sarebbero ineludibili e preziosi per porre mano alle criticità: sarebbe indispensabile un massiccio potenziamento degli organici: secondo il rapporto CEPEJ 2020, il numero di giudici professionali in rapporto a 100.000 abitanti (11,6) è straordinariamente inferiore alla media registrabile nei Paesi membri del Consiglio d’Europa (21,4). Analogo dato si registra guardando ai pubblici ministeri professionali: il dato italiano, 3,7 PM ogni 100mila abitanti è meno di un terzo del dato medio Paesi membri del CoE: (12,13); altrettanto indispensabile sarebbe una coraggiosa revisione della geografia giudiziaria (ancor più necessaria ove dovesse essere approvata la riforma in discussione); una seria azione di razionalizzazione del catalogo dei reati, la si chiami depenalizzazione di alcuni reati minori o diversa – e più razionale – tipizzazione delle singole fattispecie.
Né si può immaginare di risolvere il drammatico problema di efficienza del processo penale esasperando derive produttivistiche della giurisdizione. Da un lato, alcuni strumenti oggi in agenda (come il rafforzamento dell’Ufficio per il processo), possono realisticamente dare frutto soprattutto in tribunali medio-grandi (mentre in uffici di piccole dimensioni e in drammatiche condizioni di sovraccarico potranno garantire un minor effetto in termini di efficienza). Dall’altro lato, perché non è realisticamente immaginabile un ulteriore aumento della produttività dei magistrati. Il rapporto CEPEJ rivela che oggi i magistrati italiani garantiscono già un livello di produttività molto elevato; esasperare gli aspetti produttivistici rischia di sacrificare sull’altare della velocità, la necessaria ricerca della verità processuale, inducendo anche comportamenti burocratici: secondo la Carta costituzionale e la Convenzione Edu la durata del processo deve essere non necessariamente breve, ma ragionevole, ossia adeguata alla complessità dei casi della vita che vengono sottoposti all’attenzione dei tribunali.
Ma, come detto, i risultati che la giurisdizione offre al Paese sono drammatici e cambiare si deve.
Il testo degli emendamenti governativi formulati in relazione al DDL sulla riforma del processo penale (AC-2435) propone numerose modifiche “di sistema”. Ciascun intervento è suscettibile di rilievi. Tuttavia, la sottolineatura delle varie problematicità non deve far perdere di vista il quadro di insieme, al fine di verificare se si tratti di interventi che rispondono alle esigenze dell’odierno sistema penale.
Nel condividere molti dei rilievi già effettuati nell’equilibrato documento del 19 luglio 2021 dalla Giunta esecutiva centrale dell’ANM (e nel prendere atto del fatto che il Governo ha rinunciato a coltivare alcuni strumenti di deflazione – come la c.d. archiviazione meritata – proposti dalla Commissione Lattanzi o li ha depotenziati), qui si pone l’accento su alcuni aspetti tra i delicati temi che la riforma pone.
L’improcedibilità: un “rimedio rigido”, inadatto a sopperire al blocco dei termini di prescrizione; verso nuove condanne dell’Italia in sede europea per l’incapacità di dare risposte giurisdizionali a gravi fattispecie di reato?
La disciplina dell’improcedibilità dell’azione penale: la previsione che l’azione penale possa estinguersi ove – decorso un termine “rigido” – non vengano emesse le sentenze che definiscono i giudizi di impugnazione è una previsione che: (a) si pone in possibile frizione con il dettato dell’art. 112 Cost. (si dichiara – in un sistema ad azione penale obbligatoria – improcedibile l’azione penale per un reato che non è estinto); (b) si rivela potenzialmente irragionevole, perché “colpisce” con un’unica e rigida sanzione processuale (l’improcedibilità) situazioni molto diverse tra loro, trascurando, per esempio, la diversa gravità dei reati o la diversa complessità degli accertamenti da svolgere; (c) diminuisce anche la qualità delle garanzie delle persone sottoposte a giudizio (posto che le garanzie proprie dell’art. 25, co. 2, Cost. rilevano per la prescrizione come istituto di diritto sostanziale); (d) rischia di sacrificare – non tanto il diritto dell’imputato a veder accertata la propria innocenza (essendo l’improcedibilità comunque rinunciabile) – quanto i diritti delle persone offese (che, secondo il diritto UE, debbono veder assicurato uno spazio di tutela anche in sede penale); (d) soprattutto, è concreto il rischio che il miraggio di poter fruire della causa estintiva dell’azione penale, finisca con l’incentivare la proposizioni di impugnazioni meramente dilatorie (con il risultato di frustrare l’efficacia degli altri meccanismi acceleratori e deflattivi introdotti che sono introdotti da altre disposizioni del disegno di legge di riforma). Meno controindicazioni presentavano le proposte formulate dalla Commissione Lattanzi, che aveva immaginato un sistema imperniato su meccanismi di incentivi e disincentivi rivolti a tutti gli attori processuali, potenzialmente capaci di assicurare un risultato (la durata ragionevole del processo), senza incentivare impugnazioni puramente dilatorie (che – l’esperienza insegna – sono un fenomeno esistente).
Si sostiene che l’introduzione della improcedibilità dell’azione penale per decorso del tempo risponda ad esigenze proprie del diritto sovra-nazionale.
In senso contrario, si deve osservare che tanto il diritto UE, quanto la Conv. Edu non richiedono che un processo finisca entro un certo termine; le norme sovra-nazionali chiedono, al contrario, che un processo finisca utilmente, ossia con un accertamento del fatto. La vicenda Taricco è, al riguardo, emblematica. In aggiunta anche la Corte Edu ha condannato il nostro Paese per l’inadeguatezza della “risposta” del nostro sistema giudiziario in relazione ai trattamenti inumani e degradanti subiti da alcuni consociati per mano di pubblici ufficiali (Corte Edu, caso Cestaro contro Italia); la stessa Corte Edu ha recentemente condannato il nostro Paese, in un caso in cui la vittima non aveva potuto costituirsi parte civile nel procedimento penale, a causa dello spirare del termine della prescrizione del reato maturato nel corso delle indagini preliminari (Corte Edu, caso Petrella contro Italia, in cui la Corte ha condannato il nostro Paese per aver compromesso il diritto della vittima alla ragionevole durata del procedimento e alla garanzia di accesso al giudice, nonché in ordine alla lesione di un rimedio effettivo ex art. 13 Convenzione).
Sempre la Corte EDU nel procedimento DAN c/Moldavia ha imposto un livello di garanzia “rafforzata” per l’imputato assolto in primo grado sulla scorta di una prova dichiarativa svalutata dal giudice di prime cure e diversamente valutata in appello per giungere a ribaltare il verdetto da assolutorio in condanna. Emblematicamente l’applicazione di tale regola ha portato, sul fronte interno, all’introduzione del novellato art. 603.3 bis c.p.p. in caso di appello del PM e di onere di rinnovazione delle prove dichiarative per le Corti di appello, salvo che in caso di conferma del giudizio assolutorio. Proprio uno di quei casi che in procedimenti complessi incapperebbe nella mannaia della improcedibilità, essendo assai difficile mantenere la definizione del giudizio di appello con rinnovazione della istruttoria, sia pure delle sole prove dichiarative decisive e già svalutate, entro i termini fissati dalla riforma.
Se oggi Strasburgo ci condanna per la durata irragionevole dei processi, il rischio è che domani ci condanni per non essere stati in grado di concluderli.
I criteri di priorità: un ostico rimedio all’inflazionato abuso della sanzione penale, specchio delle debolezze della politica. Ma non è più semplice e coerente depenalizzare fattispecie che con i criteri di priorità non troveranno sfogo processuale?
Per anni la legislazione penale è stato il rimedio, individuato dalla politica, per anestetizzare le paure sociali. Si è registrata, così, una proliferazione delle fattispecie sanzionate penalmente, allo scopo di fornire ai cittadini l’illusione che uno strumento meramente repressivo, potesse avere autentiche capacità di salvaguardare la sicurezza pubblica e garantire i diritti.
Questo ha generato un flusso di notizie di reato presso gli uffici del Pubblico Ministero di così complessa gestione, da imporre - spesso - l’adozione di criteri di priorità, per governarlo. In attesa di coraggiose riforme che propongano una decisa depenalizzazione di troppe fattispecie di scarso rilievo, resta il tema della fonte di legittimazione dell’organo chiamato ad individuare i criteri di priorità: un organo, necessariamente, dotato di legittimazione democratica – secondo autorevoli opinioni, anche interne alla magistratura – sul presupposto che si tratti di scelte che influenzano l’andamento della politica criminale; ovvero un organo giudiziario, che, nell’esercizio della responsabilità organizzativa e nel rispetto dei principi di eguaglianza, ragionevolezza e buon andamento, provveda alla declinazione di criteri trasparenti e controllabili dal circuito di governo autonomo della magistratura, secondo altre opinioni. Ma al di là di queste – certo non trascurabili – considerazioni, si osserva che l’attribuzione al Parlamento di un simile potere non sembra funzionale allo scopo di assicurare una maggior celerità ai processi penali. Per contro, il concreto rischio che si corre è quello di rendere la giustizia ricorrente terreno di contesa politica, con il risultato di veicolare l’idea di una amministrazione della giurisdizione esposta alla volontà delle contingenti maggioranze politiche. Non ci sembra un buon risultato.
E senza dimenticare che la questione della declinazione da parte del Parlamento dei criteri generali di priorità nell’esercizio dell’azione penale pone implicazioni di rilievo costituzionale. Come segnalato anche dalla Giunta esecutiva centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati, una simile previsione rischia di porsi in frizione con il principio di obbligatorietà dell’azione penale (che, ricordiamolo, è presidio di garanzia dell’eguale trattamento dei consociati di fronte alla legge) e con il principio di separazione dei poteri.
La giustizia riparativa e le nuove modalità sanzionatorie: un’occasione per riaffermare il volto costituzionale della pena…
Infine, qualche riflessione meritano le previsioni riformatrici relative al sistema sanzionatorio. Al riguardo, si saluta con favore il fatto che il disegno riformatore abbandoni una visione esclusivamente carcero-centrica del sistema sanzionatorio. L’introduzione di meccanismi di giustizia riparativa, la previsione della possibilità di applicare già in sede di cognizione misure sanzionatorie alternative alla pena detentiva va nella condivisibile direzione di affermare il volto costituzionale della pena e di perseguire l’obiettivo di reinserimento sociale del condannato, scolpito nell’art. 27, co. 3, Cost.
Al riguardo, solo poche, sintetiche, osservazioni.
Nel nostro sistema i meccanismi di giustizia riparativa sono ancora da “costruire”; nel far ciò, si dovrà operare un forte investimento sulla costruzione dei percorsi di giustizia riparativa, sulla formazione degli operatori sociali e giudiziari. Ma, al tempo stesso, si dovrà rafforzare anche il sistema di assistenza alle vittime di reato, onde evitare che il condivisibile auspicio di perseguire la riparazione non finisca con l’esporre la vittima a fenomeni di vittimizzazione secondaria. Si dovrà pertanto investire anche sui centri di assistenza alle vittime.
L’introduzione di sanzioni sostitutive che siano alternative alla risposta carceraria implica il coinvolgimento – già in fase di cognizione – degli Uffici di esecuzione penale esterna. Tuttavia, senza un rafforzamento di detti uffici – non previsto dal disegno di legge di riforma del processo penale – la condivisibile introduzione di meccanismi sanzionatori alternativi al carcere rischia di restare una mera affermazione di principio.
… L’esecuzione della pena: una riforma a metà.
Da ultimo: il d.d.l. di riforma del processo penale modula le sanzioni sostitutive alla pena detentiva sulla falsariga delle misure alternative alla detenzione, oggi “gestite” dalla magistratura di sorveglianza. Tra dette sanzioni sostitutive, però, non si prevede la possibilità di sostituire la pena detentiva con l’affidamento in prova al servizio sociale. Si tratta di una previsione che è suscettibile di rilievi critici, considerato che: (a) l’affidamento in prova al servizio sociale è la sanzione che in misura più significativa ha un contenuto “risocializzante” e rieducativo; (b) è una misura che ha, nel tempo, dato buona prova di sé, come attestato dal modesto numero di revoche del beneficio penitenziario registrato dalle statistiche; (c) è una misura che ha, nel tempo, dato buona prova di sé anche sotto il profilo della “prevenzione” (considerato che, secondo alcuni studi, il tasso di recidiva per le persone che hanno “scontato la pena” in regime di affidamento in prova al servizio sociale sembra più basso rispetto a chi ha scontato la pena esclusivamente o principalmente in carcere). Pertanto, la mancata previsione della possibilità di sostituire la pena detentiva con quella dell’affidamento in prova al servizio sociale rischia di indebolire l’affermazione di una pena meno carcero-centrica (e, per converso, rischia di non avere effetto deflattivo, considerato che continuerà ad essere elevato il numero di impugnazioni e di istanze di affidamento in prova al servizio sociale che continueranno ad essere presentate alla magistratura di sorveglianza, in forza del meccanismo di sospensione dell’esecuzione).
Dopo l’allontanamento dall’elaborazione prodotta dalla Commissione Lattanzi, imporre la fiducia sul testo attuale significa perdere occasioni di confronto e rilancio, accontentandosi di un compromesso al ribasso.
La magistratura è dunque consapevole che cambiare si deve. La manifestazione di rilievi non è una difesa dello status quo, ma il tentativo di assicurare che il disegno riformatore possa davvero raggiungere gli ambiziosi obiettivi che esso si propone.
Auspichiamo pertanto che il decisore politico investa responsabilmente nella discussione della riforma un tempo e una riflessione adeguata all’importanza delle questioni (apparendo viceversa non rassicurante al riguardo – come già segnalato da AreaDG – l’eventualità di sterilizzare il dibattito parlamentare ponendo la questione di fiducia).
Per quanto difficile sia la mediazione da svolgere in sede politica, crediamo che – in un passaggio potenzialmente epocale come questo – il pieno coinvolgimento del Parlamento e l’ascolto di tutti gli operatori giudiziari siano non perdite di tempo, ma un investimento, trattandosi di passaggi che potranno offrire al nostro Paese un sistema penale più aderente alla Costituzione.
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