L’intervento del Presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, al convegno “Giustizia! In nome della legge e del popolo sovrano”, tenutosi il 28 luglio a Roma.
La
questione carceraria tra diritti inviolabili e inefficienze del
sistema.
1.
La insostenibile drammaticità della situazione carceraria italiana è
espressa dai dati assoluti di sovraffollamento, progressivamente
crescenti, dal numero dei suicidi e dei tentativi di suicidi,
evidentemente indicativo di una condizione di forte sofferenza umana,
dalla percentuale dei detenuti in custodia cautelare che, per quanto
diminuita negli ultimi decenni, è pur sempre superiore al 40%, una
percentuale decisamente eccessiva, che esprime uno squilibrio in atto
nel processo penale italiano.
2.
Compete al legislatore, e non certo al presidente della Corte di
cassazione, esprimersi su necessità ovvero opportunità di
provvedimenti di clemenza. A
un anziano magistrato sarà però consentito di rivolgere un
pressante appello al legislatore, e perciò alla politica, per
realizzare, in ogni caso, interventi strutturali idonei non soltanto
a bloccare la crescita del numero dei detenuti, ma anche ad innescare
un processo contrario che conduca ad una riduzione progressiva della
popolazione carceraria. Vanno
certo in questo senso, anche se con modesti risultati, taluni
interventi legislativi per il più facile accesso alla detenzione
domiciliare e per l’allargamento dell’istituto della messa alla
prova. Nella stessa direzione si muove anche la legge n. 62 del 2011
che ha, tra l’altro, previsto per le detenute madri, affinché sia
meglio tutelata la relazione di cura e assistenza genitoriale dei
figli minori, che almeno un terzo della pena o almeno quindici anni
siano espiati presso un istituto a custodia attenuata o, in assenza
di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o di
fuga, presso l’abitazione o in altro luogo di privata dimora, in un
luogo di cura, di assistenza o di accoglienza.
Innovazioni
condivisibili, ma del tutto insufficienti. E’ indispensabile
l’elaborazione e l’attuazione di un progetto che punti insieme
alla riduzione della pena carceraria, ma anche e soprattutto
dell’area della penalità. E’ la linea politica che fu già
perseguita dal disegno di legge del ministro Bonifacio del 1977 (Atto
n. 1799/C della VII legislatura) che sfociò poi nella legge n.
689/1981, recante numerose Modifiche al sistema penale.
Se
si esaminano senza preconcetti le tipologie, per condanne in
esecuzione, degli attuali detenuti, si costaterà che poco meno della
metà scontano pene per la commissione di reati contro il patrimonio
e una percentuale di non molto inferiore è in carcere per la
commissione di reati concernenti le sostanze stupefacenti.
Un
ponderato e selettivo programma di depenalizzazione, di attribuzione
al diritto punitivo amministrativo di molte delle violazioni
meramente formali (penso ora ai reati per inosservanza di ordini o
provvedimenti) accompagnato dall’introduzione di formule estintive
del reato, nell’ambito delle aggressioni penali non gravi al
patrimonio, in connessione con condotte risarcitorie o riparatorie
pienamente satisfattive, potrebbe determinare effetti notevoli per
prosciugare il flusso di detenuti che quotidianamente entra in
carcere, a volte inutilmente e per un periodo ridottissimo, idoneo
soltanto a innescare effetti criminogeni e a distrarre il personale
penitenziario dai compiti rieducativi e trattamentali in favore dei
detenuti con ben diversa stabilità temporale.
3.
L’emergenza carceraria chiama in causa non soltanto il legislatore
e il governo, ma anche i giudici. I
giudici del processo penale di cognizione, per un difetto endemico
del nostro sistema che segna spesso una distanza temporale eccessiva
tra condanna ed esecuzione della pena, a volte non considerano ciò
che succede dopo la condanna, affidando interamente ai giudici di
sorveglianza il compito della più adeguata modulazione della pena
carceraria in riferimento non tanto al fatto, quanto alla personalità
del condannato. Il
giudice che condanna sa che la quantificazione della pena è il più
delle volte nulla più che la premessa di un lavoro che verrà
compiutamente realizzato, anni dopo, dal giudice di sorveglianza con
la concessione di misure alternative e di benefici e con gli altri
strumenti che la legislazione offre per il perseguimento delle
finalità rieducative.
Da
qui, e non sembri un paradosso, nasce anche la spinta ad anticipare
in corso di processo il ricorso al carcere, al fine di neutralizzare
una pericolosità sociale, più o meno sussistente, e di offrire una
risposta alla percezione collettiva di insicurezza sociale.
La
recentissima sentenza n. 231 della Corte costituzionale sulla
custodia carceraria in materia di associazione finalizzata al
traffico di stupefacenti, pubblicata qualche giorno fa (che fa
seguito alle analoghe sentenze n. 265 del 2010 in riferimento ai
reati di violenza sessuale; n. 164 del 2011 in materia di omicidio)
ha fatto giustizia degli eccessi di irragionevolezza di una
legislazione dell’emergenza (d.l. n. 11 del 2009, convertito con
modifiche nella legge n. 38 del 2009), che innesta nel processo,
luogo della ricostruzione del fatto e dell’accertamento
dell’eventuale responsabilità per quel che si è commesso, istanze
di prevenzione criminale proprie di politiche securitarie, che devono
rimanere estranee al processo penale.
Sul
terreno del contenimento della custodia cautelare carceraria deve
essere rivolto un appello ai giudici ad un uso sempre più prudente e
misurato della misura cautelare restrittiva, strumento da mantenere
nell’eccezionalità, quando nessun altro strumento può essere
utilizzato per soddisfare le esigenze cautelari. Tenere sempre
presente la concreta realtà carceraria può e deve costituire un
efficace antidoto all’uso non necessitato della custodia cautelare
e contribuire a far diminuire il dato percentuale dei detenuti
imputati, oggi ancora elevato, per quanto inferiore a quello degli
anni passati.
4.
I giudici di sorveglianza, infine, hanno un compito difficilissimo.
Il loro principale ruolo è quello di tutelare i diritti dei
detenuti, in particolare i diritti inviolabili che possono essere
offesi dalla condizione di restrizione e in conseguenza di scelte
dell’organizzazione penitenziaria. La Corte costituzionale, in una
importante sentenza (n. 26 del 1999), ha giustamente sancito che “i
diritti inviolabili dell’uomo… trovano nella condizione di coloro
i quali sono sottoposti a una restrizione della libertà personale i
limiti a essa inerenti, connessi alle finalità che sono proprie di
tale restrizione, ma non sono affatto annullati da tale condizione.
La restrizione della libertà personale secondo la Costituzione
vigente non comporta dunque affatto una capitis deminutio di fronte
alla discrezionalità dell’autorità preposta alla sua esecuzione”.
E
tra i diritti inviolabili messi in crisi dalle carenze di strutture,
di mezzi e di risorse v’è il diritto alla salute, che non può
essere tutelato a dovere se l’Amministrazione penitenziaria non è
in grado di assicurare a ciascun detenuto uno spazio personale di
almeno 3 mq., condizione minima di vivibilità nelle camere di
detenzione, per evitare, come ha statuito la Corte di Strasburgo –
sentenza nel caso Sulejmanovic c. Italia del 16 luglio 2009 – che
sia violato il divieto di pene o trattamenti inumani o degradanti,
sancito anche dalla Carta europea dei diritti dell’uomo (art. 3).
C’è
da chiedersi: quale effettività possono avere le pur necessarie e
vincolanti decisioni dei giudici che, conformemente al sistema
normativo e alla Costituzione, ingiungano all’Amministrazione
penitenziaria l’adozione dei provvedimenti che assicurino le
condizioni materiali essenziali per il rispetto della dignità umana
dei detenuti, se essa non ha, e non potrà avere almeno in tempi
brevi, i mezzi per sopperire ai loro bisogni?
Il
carcere, in queste condizioni, rischia di essere un fattore
generatore di illegalità, in contrasto palese e inaccettabile con la
sua fisionomia normativa.
I
nostri giudici di sorveglianza non possono fare quel che la Corte
federale della California ha disposto di recente (l’8 aprile 2009),
ingiungendo al Governatore la riduzione, entro il termine massimo di
due anni, della popolazione carceraria di 40.000 unità (cfr.
Questione Giustizia 2009, fasc. 5, p. 122).
L’impossibilità
di soluzioni così radicali non deve però impedire ai magistrati
italiani, che ben conoscono le criticità del circuito carcerario, di
utilizzare, nel rispetto della legge, ogni possibile soluzione
alternativa o sostitutiva alla detenzione carceraria, in attesa che
la politica faccia le scelte che le competono.