Sono altri confini, non fisici, ma morali e culturali, che la Carta costituzionale ha scolpito per delimitare il terreno di una patria dove nessuno potesse sentirsi straniero. Si chiamano democrazia, lavoro, uguaglianza – non solo ai blocchi di partenza, ma, in relazione ai diritti che costituiscono lo scheletro delle persone, anche al traguardo – libertà, solidarietà, pace. Per difenderli non è stato costruito un muro, ma un assetto istituzionale che ha messo le briglie alla terribile forza dello Stato. Tutte le componenti dell’Assemblea Costituente, senza sapere quale di esse avrebbe prevalso in futuro, hanno delineato un sistema ricco di controlli, bilanciamenti, contrappesi. Il potere è stato definitivamente connesso alla volontà popolare espressa nel Parlamento – centro della scena politica – diffuso a livello territoriale e sociale, sottoposto a limiti. Alla stessa legge, espressiva della sovranità popolare, sono stati imposti vincoli derivanti dai superiori principi della Carta costituzionale e delle fonti sovranazionali: le maggioranze politiche – hanno sancito i Costituenti – non potranno ammalarsi di assolutismo, perché anche la loro sovranità dovrà essere esercitata nelle forme e nei limiti della Carta costituzionale.
Insomma, i confini della democrazia sostanziale, quei diritti individuati nella prima parte della Costituzione, sono presidiati dall’architettura della democrazia procedurale disegnata nella seconda parte della Carta. Di questa architettura sono parte essenziale i tanti magistrati, giudici e pubblici ministeri, che con le loro prerogative di indipendenza bilanciate da doveri di professionalità, ogni giorno contribuiscono a difendere i diritti delle persone, specialmente delle più vulnerabili, dei più poveri, delle minoranze, di chi è senza voce e rappresentanza nel circuito sociale e politico.
Mettere mano alla seconda parte della Carta significa incidere anche sulla prima, sui principi fondanti la democrazia repubblicana. Lo abbiamo sempre denunciato – ad esempio, in occasione dei referendum costituzionali del 2006 e del 2016 – e torniamo a farlo oggi, quando si annunciano riforme che potrebbero farci valicare quelle frontiere di cui abbiamo detto.
Mentre l’autonomia differenziata aumenterà le sperequazioni tra territori ricchi e poveri e tra i diritti delle persone che in quei territori vivono, a partire da quello essenziale alla salute, il premierato rischia di consegnare a una maggioranza politica – artificialmente costruita attraverso il meccanismo elettorale dei premi senza soglia minima di voti – non solo la guida del Governo, ma anche il comando sul Parlamento, nonché le istituzioni di controllo e garanzia, a partire da Presidente della Repubblica e Corte costituzionale. Accanto a queste proposte di riforma si colloca quella sulla “separazione delle carriere”, che sembra comporre un ulteriore tratto di strada nella direzione autocratica e verticistica che si vuol far imboccare alla nostra Repubblica. La separazione delle carriere pare essere soltanto l’occasione di un disegno di legge che mira a mettere sotto controllo e rendere più innocuo sia il pubblico ministero sia il giudice, asservendone il governo autonomo alla componente politica – l’unica non sorteggiata, a dispetto delle parole usate nel progetto di legge – e costruendo ordini giudiziari gerarchizzati, in cui la giustizia disciplinare sarà nelle mani dei piani alti.
Mai come quest’anno, dunque, celebrare la Repubblica non significa sventolarne il vessillo tricolore, ma tornare a soffermarsi sul suo vocabolario costituzionale, per attuarlo e dargli forza e vigore.
L’Esecutivo di Magistratura democratica