La data
Cinquant'anni delle donne in magistratura
ROMA - L'intervista al segretario di Magistratura democratica, Anna Canepa, in occasione della tavola rotonda del 19 giugno a Roma, "Cinquant'anni dopo l'ingresso delle donne in Magistratura", "La Giudice" (con l'autrice del libro Paola Di Nicola) e le altre donne in Magistratura, Politica e Informazione
IL COMMENTO di Luigi Marini
Ho partecipato ieri pomeriggio all'incontro organizzato dall’Associazione “L’Oro delle donne” presso la Biblioteca della Camera e dedicato ai 50 anni della legge che eliminò il divieto di partecipazione delle donne alle funzioni pubbliche e al servizio in magistratura.
Erano presenti figure storiche della emancipazione femminile, a partire da Gabriella Luccioli che partecipò con successo al primo concorso del 1965 assieme ad altre 7 colleghe, e poi Paola De Nicola col suo libro "La giudice" che ha costituito lo spunto per l’iniziativa, Erminio Amelio e giornaliste e parlamentari impegnate nella lotta alla discriminazione di genere e, opportunamente, attente anche a quanto accade nel mondo della magistratura.
Ho potuto fermarmi solo per la prima parte dell'incontro, ma questo mi è stato sufficiente per apprezzare l'importanza e la complessità di un dialogo su questi temi.
La moderatrice mi ha chiesto se non sia possibile intervenire in sede di riforma della legge sulle elezioni del Csm al fine di garantire una presenza paritaria nell’organo di autogoverno.
Per rispondere sono partito da alcuni dati aggiornati al giugno 2013, che posso così sintetizzare:
- le donne in magistratura sono il 48% del totale (4.411 su 9.183)
- negli uffici giudicanti sono il 50% e in quelli requirenti il 39%;
- il 20% tra i capi ufficio giudicanti (52 su 257) e il 12% tra i capi ufficio requirenti (22 su 191);
- il 31% fra i presidenti di sezione (185 su 601) e il 15% tra i procuratori aggiunti (16 su 109);
- il 25% fra i giudici di cassazione (56 su 223) e solo il 9% (4 su 43) fra i presidenti di sezione;
- solo l’8% fra i sostituti procuratori in cassazione (4 su 49), e nessun ruolo direttivo.
Inoltre, mentre i primi tre concorsi aperti alle donne (anno 1965) videro vincitrici solo 27 donne su oltre 300 posti, gli ultimi 5 concorsi (2007-2013) hanno visto le percentuali femminili crescere continuamente, dal 52 al 66%, col risultato che nel complesso le donne vincitrici sono state 918 contro 606 uomini, un dato che in valore assoluto esprime perfettamente la dimensione di una differenza che ormai può dirsi strutturale.
Impressionante il dato della presenza femminile in Consiglio superiore, mediamente attestata su 2-3 presenze, con l’eccezione della consiliatura 2006 dove furono 6 sul totale di 24 componenti elettivi.
A fronte di questi dati, che esprimono uno iato rilevantissimo fra la presenza femminile nei luoghi della giustizia e la presenza femminile nei relativi ruoli direttivi o decisionali, non vi è dubbio che esista “un problema”; un problema che Gabriella Luccioli ritiene non riconducibile al solo dato della minore età anagrafica media delle donne e che affonda le radici in aspetti culturali.
A questo proposito il breve tempo a disposizione mi ha permesso di esprimere poche riflessioni: a) almeno a partire dalla mia esperienza (che inizia nel 1981) non ho avvertito differenze di dignità o stima basate sul genere fra noi colleghi di concorso e fra i magistrati delle nostre generazioni; b) in questo contesto io e i magistrati uomo che conosco non abbiamo fatto “esperienza” di discriminazione e abbiamo difficoltà a comprendere quelle criticità che molte colleghe manifestano e che si esprimono ancora nel libro di Paola e nei commenti; c) questo deficit di “esperienza” mi rende assai prudente nell’intervenire su temi come quello odierno; d) se un rimprovero devo fare a me e agli altri magistrati non si lega a singoli episodi di discriminazione ma è quello più generale di non avere apprezzato davvero la politicità della differenza di genere, di avere spesso affrontato i problemi sul piano delle relazioni personali (a volte con comprensione, a volte con atteggiamento paternalistico, a volte con insofferenza…) senza scendere sul terreno dei rapporti di sistema e senza farne questione da affrontare in modo diretto ed effettivo negli uffici e nelle realtà; e) inoltre, sono convinto che, pur con tutte le specificità legate al genere, rispetto alla decisione i magistrati si distinguano tra preparati e professionali , da un lato, e meno preparati e professionali, dall’altro, ma non debbano distinguersi tra magistrati uomo e donna, né magistrati religiosi o agnostici, né magistrati del nord o del sud.
Quest’ultima affermazione ha provocato una risposta netta di Gabriella Luccioli, che ha replicato che il magistrato porta con sé tutta la sua personalità e la sua storia e che il magistrato donna, una volta abbandonato il modello maschile come riferimento, è in grado di portare in camera di consiglio sensibilità diverse e specifiche, attenzioni specifiche, insomma di portare in camera di consiglio un contributo che supera la visione maschile e la integra.
L’intervento di Gabriella, che non è stato possibile riprendere, ha costituito per me il segnale di quanto su questi temi ci sia ancora da fare, quanto sia importante parlarsi e lo si debba fare coi tempi e nei luoghi dovuti.
Penso anch’io che la donna (o meglio molte donne) magistrato porta con sé un vissuto, una prospettiva e una sensibilità diversi da quelli maschili; sono convinto che questo costituisca un arricchimento della magistratura, della sua cultura e delle sue decisioni.
Ciò che io intendevo dire è qualcosa di diverso: queste differenze non possono comportare la conseguenza che la medesima causa affidata a un magistrato uomo debba trovare una soluzione diversa da quella che avrebbe se affidata al magistrato donna. Abbiamo formazione comune, regole comuni, partecipiamo della medesima carriera e lavoriamo nei medesimi uffici e questo deve dare al cittadino la garanzia che non esistono decisioni legate soprattutto alla condizione e al pensiero del giudice che avrà la ventura di incontrare; un/una giudice che saprà mediare professionalmente le proprie opzioni, le proprie convinzioni, il proprio vissuto.
Nella mia esperienza ho constatato che le differenze di approccio e di contributo alla decisione dipendono da molti fattori, fra i quali il genere è certamente rilevante, non assume carattere predominante.
Per questo penso che il “netto dissenso” di Gabriella assumerebbe connotazioni diverse e molto meno nette se e quando il discorso verrà ripreso e sviluppato.
Per tornare alla domanda che mi è stata fatta: premesso che la sola idea di una modifica alla legge elettorale del Csm apre scenari che non tranquillizzano affatto la magistratura, ho ricordato che in sede associativa l’Anm si è data regole che assicurano una forte presenza femminile e che MD da 10 anni ha adottato meccanismi elettorali che assicurano la parità di genere. Più complesso introdurre garanzie nei meccanismi di elezione del Csm, dove l’elezione per liste contrapposte si sposa a una presenza di magistrati che debbono rispettare quote diverse legate alla professionalità (cassazione; procure; giudicanti). Un conto è prevedere parità o quote all’interno delle liste, come fu fatto da MD per l’elezione 2006, e un conto è assicurare quote di risultato. Ma non c’è dubbio che la presenza di 2 donne su 24 costituisca un dato inconciliabile con le logiche della rappresentanza prima ancora che con le regole o le linee guida nazionali e europee.
(20 giugno 2013)
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