E va subito detto come l’operazione non sia agevole, vuoi per lo stile comunicativo adottato che privilegia l’aneddotica e le semplificazioni, rispetto all’argomentazione consapevole della complessità dei temi, vuoi per l’evidente iato che si è subito registrato tra le dichiarazioni d’intenti del Ministro, ispirate a una decisa depenalizzazione e alla tutela delle garanzie, ed il primo, inopportuno, intervento governative in materia di raduni (art. 434 bis c.p.).
Va pure aggiunto come il Ministro pare ripetere vecchie ricette che gli hanno guadagnato un buon successo editoriale, trascurando come, anche grazie alle sue sollecitazioni e stimoli, su alcuni temi il dibattito giuridico abbia già partorito soluzioni normative che hanno posto significativi rimedi ad alcune deviazioni, sebbene, con soluzioni non completamente equilibrate che meriterebbero di essere ancora meglio meditate e migliorate. Il rischio, perciò, è quello di regredire nel dibattito giuridico sugli spazi e forme di tutela dei diritti, piuttosto che progredire sedimentando e affinando i risultati raggiunti.
E così mentre l’Europa rilancia il modello italiano del Pubblico Ministero indipendente, quale soggetto attivo della giurisdizione unitaria, il Ministro rispolvera il vecchio arnese della separazione delle carriere. Un tema agitato come un mantra, rispetto al quale anche i più accesi sostenitori fanno fatica a rammentare a cosa mai serva in termini di efficienza e, soprattutto, di tutela dei diritti dell’indagato e di qualità dell’investigazione. E se la magistratura (ma anche la parte più avvertita e meno ideologica dell’avvocatura, insieme alla più lucida accademia) si interroga sui pessimi effetti culturali, già oggi indotti dalla rigorosa separazione delle funzioni e sull’opportunità di prevedere un obbligo di previo svolgimento delle funzioni giudicanti per formare un Pubblico Ministero migliore, perché più orientato alla prospettiva del risultato giurisdizionale, il Ministro immagina un Pubblico Ministero sempre più vassallo della Polizia Giudiziaria.
Ecco, se vi è una traccia concreta che si può già individuare nella proposta governativa in tema di giustizia, è l’esaltazione del ruolo della Polizia Giudiziaria, legittimata persino a usare intercettazioni preventive, sganciate dal controllo del Giudice, nell’immaginario prospettato dal Ministro tra una dichiarazione di fedeltà ai principi garantisti, una promessa di impunità per il corruttore che denuncia il corrotto e l’abolizione dell’abuso d’ufficio.
Il Ministro e l’intera compagine di Governo (sul punto, sintomatica è la proposta di riduzione dei limiti all’uso del contante e la reiterazione dei cd. micro-condoni tributari) sembrano interpretare il controllo di legalità costituzionale come un impaccio che impedisce il progresso del Paese. L’alternativa proposta è quella di una legalità non più oggettiva, oneroso riflesso del principio di parità dei cittadini davanti alla legge, ma rimessa alle valutazioni di opportunità politica del Governo. Per conseguire il risultato, si propone di esaltare il ruolo preventivo della Polizia Giudiziaria e del Ministero dell’Interno che la governa, in modo da intervenire concretamente sulle priorità nell’esercizio dell’azione penale (il 90% circa delle iscrizioni al RGNR viene da comunicazioni di notizie di reato, predisposte dalla Polizia Giudiziaria), neutralizzando – al contempo – la sua obbligatorietà, a favore di una sua discrezionalità politicamente orientata. Il tutto non distolto dai guasti al ruolo del Pubblico Ministero provocati dalle più recenti riforme (quella penale e quella ordinamentale) che spingono verso la burocratizzazione della funzione requirente – soffocata dal moltiplicarsi di adempimenti formali, neutri rispetto all’effettività delle garanzie difensive – ed indeboliscono la funzione di direzione delle indagini che è strumento essenziale per la tenuta del principio di legalità processuale già dalla fase delle indagini preliminari e che sarebbe, definitivamente, anestetizzata dalla separazione delle carriere.
Lo sforzo del Ministro – dichiarato, ma sin qui non praticato – di rafforzare le garanzie e i diritti coinvolti nel processo, pare, invece, orientato a consentire al Governo il controllo dell’esercizio dell’azione penale, al fine di indirizzarlo sempre più decisamente verso i reati, espressione della marginalità sociale, per distoglierlo dalle più complesse indagini sui sistemi criminali che, specie nei settori economici, garantiscono straordinari profitti a danno dell’Erario, deprimono la libertà di concorrenza, generano flussi economici illegali che possono influenzare le scelte della pubblica amministrazione.
È una sfida complessa quella che ci attende, perché il Ministro usa il tema delle garanzie difensive e dei diritti degli indagati-imputati (su cui si è affinata la nostra sensibilità culturale), in funzione di protezione della classe dirigente politica-amministrativa-economica dal fastidio dell’indagine, anzi dal pericolo di essere coinvolti in un indagine, così da potere agire senza preoccupazioni.
Un pericoloso inganno dialettico che serve a schermare il populismo coltivato sulla spinta emotiva della paura sociale, che è stata la cifra rappresentativa delle prime azioni del Governo sul tema dei diritti: sembra esserci un’esigenza di orientare il risentimento popolare – esito dell’esplosione di nuove disuguaglianze, con la conseguente perdita dei diritti e delle tutele – sui temi della sicurezza percepita, piuttosto che sulle cause strutturali di quelle disuguaglianze.
Una parte di questa più ampia prospettiva politica prova a sfruttare la crisi di inefficienza della giustizia, non già per risolverne le cause, ma per ridurre gli spazi reali di autonomia e indipendenza della magistratura, a favore delle iniziative dell’Esecutivo (ed in particolare del Ministero dell’Interno). Un progetto che immagina un nuovo perimetro di legalità sostanziale, sull’altare del quale sacrificare il principio di uguaglianza, così da garantire alla classe dirigente una migliore efficienza e produttività, sin qui impacciate dal rispetto di regole.
Il compianto Carlo Verardi ci rammentava – con una freschezza profetica che ancora oggi ci stimola – come uno dei compiti di Magistratura democratica fosse (ed è) non “rassegnarsi a credere che l’uguaglianza sia un valore recessivo”.
La complessa modernità rinnova alla giurisdizione la sfida di dare attuazione ai valori costituzionali e al principio di eguaglianza sostanziale in un contesto sociale deteriorato ed all’indomani della crisi di legittimazione, provocata dall’uso strumentale dell’associazionismo giudiziario, a servizio degli interessi di pochi gruppi di potere interni alla magistratura.
Non ci faremo trarre in inganno dalla affabulazione del Ministro, ma non revocheremo nemmeno il nostro impegno a tutela dei diritti coinvolti nell’intero processo penale: dalle indagini all’esecuzione della pena. E per non restare irretiti dalla confusione dei tempi, continueremo a farci ispirare dalla Costituzione. Quella Costituzione che, ricordava un saggio avvocato come Calamandrei, esprime una costante polemica contro la società, perché ci spinge a immaginarla come non è: garante dei sotto-protetti e degli esclusi, piuttosto che dei privilegiati, stimolandoci a guardare la realtà ed interpretare i diritti, inverandoli nella giurisdizione, dall’urticante prospettiva delle vulnerabilità, piuttosto che da quella forte dei garantiti. In questi tempi difficili di cambiamenti epocali, proveremo a restare fedeli a quel sogno costituzionale perché è nella trama di quel testo che riconosciamo la nostra vocazione ad essere, qui e oggi, magistrati della Repubblica.