Intervento al Consiglio nazionale di Md
L'affanno della giustizia
Giudice del lavoro presso il Tribunale di Castrovillari - Componente stabile del Consiglio nazionale di Magistratura democratica
Una giustizia in affanno è quotidianamente impegnata, senza risorse adeguate, nel rendere il proprio servizio, molto spesso in uffici che vivono grandi disagi in termini di carenza di organico e di arretrato storico, anche in territori difficili. Una giustizia composta anche da magistrati giovani e in prima linea, che fanno quotidianamente fronte alle carenze ataviche del sistema giustizia. È nostra responsabilità rappresentare all’opinione pubblica questa realtà ed evidenziare un rischio: non ci sarà riforma del processo, penale e civile, valorizzazione dei meccanismi di risoluzione alternativa delle controversie, o ufficio del processo che potrà produrre il risultato sperato, finché la situazione dei carichi di lavoro, del numero dei magistrati togati e del personale amministrativo non sarà modificata in modo tangibile e non sarà operata una seria razionalizzazione della geografia giudiziaria. Occorrono interventi di riforma ambiziosi e audaci, in grado di consegnare realmente a questo paese una giustizia efficiente, capace di conciliare tempi congrui con un’adeguata tutela dei diritti e delle persone. Cambiare sì, ma in questa direzione.
Il problema della durata dei processi in questo paese è grave. Sul tema, credo, siamo tutti d’accordo.
Quali, però, le cause dell’eccessiva durata dei processi, penali e civili? Un problema storico, al quale contribuiscono una pluralità di fattori e, quindi, di responsabilità, tra le quali ci sono, sicuramente, anche quelle dei magistrati.
L’Europa ci chiede interventi per affrontare il problema, in questo modo spingendoci ad allinearci a standard di durata congrui e condivisi, con una spinta propulsiva, verso quello che è di certo un obiettivo di civiltà, che costituisce una preziosa occasione.
Dunque, un problema antico e una nuova occasione.
In gioco, la capacità dello Stato di rendere giustizia e di tutelare i diritti.
Quelli di indagati, imputati e vittime e quelli delle persone che si rivolgono alla giustizia perché hanno bisogno di un servizio.
Perché hanno subito un danno che vogliono risarcito, si devono separare o divorziare, perché sono state ingiustamente licenziate. Perché arrivano da una terra lontana in cerca di una protezione che solo il nostro mondo può offrire. Ci sono, ovviamente e con il grande peso che recano, anche le ragioni dell’economia e degli investimenti.
Le difficoltà del settore penale sono di certo quelle che si pongono con maggiore forza nel dibattito pubblico, anche giustamente, in ragione dei valori coinvolti. Esiste, però, ed è bene rimarcarlo, anche l’altra faccia della luna.
In maniera trasversale nell’ordinamento, l’eccessiva durata dei processi si traduce in una denegata giustizia, in un vulnus inaccettabile alla tutela dei diritti, soprattutto di quelli dei più deboli, di quelli che avrebbero più bisogno di essere tutelati da una giustizia attenta e sollecita, una giustizia efficiente.
La geografia della denegata giustizia, così come quella giudiziaria, è, ovviamente, molto variabile. Tra uffici grandi e piccoli, tra nord e sud. Lo Stato non è in grado di garantire uno standard uniforme di tutela giurisdizionale sul territorio nazionale e, quindi, nemmeno noi.
Cosa si prova a portare la responsabilità di un processo che dura troppo? Come ci si sente ad amministrare la denegata giustizia. È un grande dispiacere e un grande affanno.
Da Giudice del lavoro in un Tribunale Calabrese, con ben oltre mille fascicoli sul ruolo, è il mio pane quotidiano. È il pane quotidiano di tantissimi colleghi, una lotta quotidiana, tra carichi di lavoro sproporzionati, infrastrutture fatiscenti, carenza di personale amministrativo, con tanta forza di volontà e spirito di servizio. E anche tanta solitudine.
Ovviamente, un pensiero particolare va ai giovani colleghi, quelli della mia generazione.
Tra l’ossessione dei numeri e della produttività, che sempre più si fa strada nelle valutazioni di professionalità, e la pressione che deriva dal rischio del disciplinare sui ritardi, a volte pare davvero che la nostra generazione debba farsi carico dell’inefficienza atavica del sistema giustizia.
Specialmente, è poi doveroso menzionare i giovani colleghi che nelle sedi più disagiate si trovano a far fronte ai processi più delicati, ai carichi più gravosi e alle situazioni, anche ambientali, più difficili.
Situazioni che l’opinione pubblica, nell’essere spesso impietosa con i magistrati, soprattutto in questa fase, nemmeno conosce. Il paese non sa cosa significa lottare ogni giorno per far funzionare la giustizia nei territori più problematici, senza mezzi.
È allora necessario che Parlamento, Governo e l’opinione pubblica tutta percepiscano l’affanno della giustizia.
Sicuramente, è nostro onere rappresentarlo.
Il tema sta a cuore, ovviamente, a tutti i magistrati e si tratta di un terreno sul quale, davvero, dovremmo trovare le forze per esprimere un approccio unitario. Non solo nell’ambito della magistratura progressista, ma più in generale.
A me pare, però, che esista uno specifico dovere in capo a magistratura democratica di farsi carico di questo problema. La nostra eredità storica e ideale, infatti, ci impone l’analisi critica della realtà e la rappresentazione, la denuncia se necessario, delle ingiustizie, delle diseguaglianze che tocchiamo con mano nella nostra attività, nel nostro servizio.
E, non si devono avere dubbi, la condizione di affanno in cui lavorano i magistrati è un inaccettabile fattore propulsivo di diseguaglianze, perché se noi non siamo messi in condizioni di fare bene il nostro lavoro, sono le persone a pagarne il prezzo. Ecco perché questo è un tema che ci riguarda da vicino.
Una fondamentale causa dell’eccessiva durata dei processi è data dalla carenza di magistrati. Dai drammatici problemi di organico della magistratura, che affliggono gli uffici giudiziari d’Italia, soprattutto quelli di piccole e medie dimensioni, soprattutto nei territori meridionali. Uffici che non riescono ad avere un assetto stabile e nei quali un trasferimento o una maternità determinano scompensi organizzativi spesso irrisolvibili.
A ciò si aggiungono le ben note carenze del personale amministrativo, già di età media molto elevata, senza il cui fondamentale apporto, la giustizia non può funzionare.
La mia scelta è quella di non citare numeri e dati, ma di sottoporre una riflessione ed evidenziare un rischio.
Non ci sarà riforma del processo, penale e civile, valorizzazione dei meccanismi di risoluzione alternativa delle controversie, o ufficio del processo che potrà produrre il risultato sperato, finché la situazione dei carichi di lavoro, del numero dei magistrati togati e del personale amministrativo resterà quella attuale. O comunque, se non saranno apportati cambiamenti tangibili.
Per quanto riguarda, specificamente, il tema degli organici della magistratura togata, purtroppo non basta che i concorsi si tengano con costanza o che siano anche incrementati nel tempo, nemmeno per fare fronte ai pensionamenti.
È necessario che si prenda consapevolezza del fatto che siamo di fronte ad un problema grave e strutturale, diversificato sul territorio nazionale, che richiede misure in grado di stabilizzare il sistema in una prospettiva di lunga durata, se si vogliono realmente ottenere dei risultati.
Non si tratta di assumere 200 o 500 magistrati in più. Né tantomeno di assumere personale a tempo determinato, com’è immaginato nel disegno dell’ufficio del processo, che assista il Giudice in un idealistico lavoro di staff, che forse potrà anche produrre dei risultati nei grandi Tribunali distrettuali, ma che è misura di discutibile efficacia per le sedi disagiate, con forte carenza di organico ed elevato turn over, magistrati molto giovani e grande arretrato. Le sedi che, in sostanza, maggiormente pongono il problema.
Qui si tratta di rivalutare, sulla base degli obiettivi che si vogliono raggiungere, il fabbisogno di magistrati togati della giustizia italiana e di razionalizzare la geografia giudiziaria.
È chiaro che non ci si aspettano miracoli e che mille sono le difficoltà, quelle di sempre e quelle dettate dalla contingenza.
Le misure che saranno introdotte con la riforma, processuali e organizzative, si spera, ovviamente, il più possibile frutto di un confronto partecipato, vedranno di certo l’impegno della magistratura nella loro implementazione.
D’altronde, gli stessi magistrati, individualmente e nelle sedi dell’autogoverno, devono profondere il massimo impegno nella ricerca di soluzioni, organizzative e ordinamentali, per il migliore funzionamento della giustizia. Certamente dobbiamo fare la nostra parte.
Però, come magistrati e come cittadini, abbiamo anche il dovere di porre il problema di una prospettiva ampia e di lunga durata sul funzionamento della giustizia. Della necessità di interventi di riforma ambiziosi e audaci, riprendendo aggettivi usati in un intervento dalla nostra Ministra Cartabia, che possano davvero consegnare nel tempo a questo paese una giustizia efficiente, in grado di conciliare tempi congrui con un’adeguata tutela dei diritti e delle persone, che non può mai essere sacrificata.
In un articolo di recente uscito su Questione Giustizia, Sebastiano Gentile, Presidente della Sezione Lavoro della Corte d’Appello di Bari, ha scritto che “i diritti non stanno nel processo come i prodotti a vista sugli scaffali di un supermercato: bisogna cercarli”.
Si riferiva al processo del lavoro e al ruolo del giudice del lavoro, che mai dovrebbe smettere di essere un attento ricercatore e percettore delle istanze di tutela che emergono dal fatto. Sebastiano Gentile è, giustamente, preoccupato dell’ondata di formalismo che si fa strada nelle nuove prassi dei giudici del lavoro e che stona con la configurazione normativa e storica di questa funzione.
Quanto il fenomeno di cui parla Sebastiano Gentile ha a che fare anche con i carichi di lavoro dei magistrati e quanto la sua preoccupazione è estensibile anche agli altri settori? Quando si hanno migliaia di cause sul ruolo e la mentalità corrente è quella per cui bisogna produrre e fare le statistiche, che fine fanno i diritti? A me pare che queste problematiche siano ampiamente trasversali a ogni ambito della giurisdizione: come si fa a mantenere la qualità dei provvedimenti e a mantenere un approccio vigile e critico, con i carichi di lavoro che abbiamo e con i numeri che ci chiedono? Se la spinta della riforma sarà verso l’efficientismo fine a sé stesso senza mezzi adeguati, quanto questa situazione potrà peggiorare?
Sono tutte domande che vi affido.
La produttività, e mai termine fu più sfortunatamente accostato alla giurisdizione, genera mostri.
E se, come sistema paese, non saremo in grado di invertire la tendenza, facendoci promotori di una cultura dell’efficienza che concili celerità dei processi ed effettività della tutela, la tanto temuta burocratizzazione dell’attività giudiziaria e il conformismo alle pronunce delle giurisdizioni superiori, mali già ampiamente diffusi, rischieranno concretamente di prevalere.
Finché sarà considerato accettabile che a un giudice solo siano affidati duemila fascicoli (o anche di più), o che sette giudici del dibattimento possano dare seguito al lavoro di una Procura di trenta PM, finché le carenze del personale amministrativo saranno tali per cui un avviso 415-bis ci metterà un anno per essere notificato, avremo rimandato ogni prospettiva seria di efficienza, ragionevole durata dei processi e tutela dei diritti, alla prossima riforma.
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