Il documento
DL Fare e Giustizia civile
IL “DECRETO DEL FARE” E LA GIUSTIZIA CIVILE
a cura del Gruppo Civile di Magistratura democratica
coordinatore: Giulio Cataldi
Il decreto legge n. 69 del 21 giugno 2013, varato dal Governo nella seduta del 15 giugno scorso (subito battezzato “decreto del fare”, secondo la moda di recente invalsa di attribuire denominazioni accattivanti ai provvedimenti governativi), contiene un intero titolo dedicato a “Misure per l’efficienza del sistema giudiziario e la definizione del contenzioso civile”.
Il decreto legge presenta, a nostro avviso, accanto a misure da salutare con sicuro favore, altre che destano perplessità e che tuttavia potrebbero essere migliorate in occasione della conversione in legge. Nel complesso si tratta di misure che non sono (né potrebbero essere) certo risolutive, ma che vanno seriamente prese in considerazione per valutare se muovono nella giusta direzione arrecando comunque benefici.
E’ indispensabile evitare, a proposito della giustizia civile, che registra storicamente significative convergenze tra le culture e i punti di vista delle varie categorie di operatori coinvolti (magistratura, avvocatura, struttura amministrativa degli uffici giudiziari, come rivelato, ad es., dall’esperienza degli osservatori), le chiusure pregiudiziali, gli atteggiamenti ideologici, le strumentalizzazioni e le tensioni politiche che tante difficoltà determinano nella realizzazione di un sistema di giustizia penale efficiente e democratico. Quello per il miglioramento della giustizia civile nel nostro paese può e deve essere uno sforzo razionale e condiviso da tutti.
Secondo la relazione illustrativa, diffusa nella nota di Palazzo Chigi, il Governo, partendo dalla ormai tristemente nota premessa degli effetti negativi sullo sviluppo e la crescita cagionati dall’inefficienza della giustizia civile (uno dei fattori esogeni di svantaggio competitivo), come ricordato da statistiche internazionali e pronunce di condanna della Corte EDU, è intervenuto al dichiarato fine di a) incidere sui tempi della giustizia civile e migliorarne l’efficienza, e b) contribuire a ricostituire un ambiente d’impresa accogliente per gli investitori nazionali ed internazionali fondato sulla certezza del credito.
Possono formularsi alcune riflessioni sulle finalità dell’intervento, sulla strategia e le modalità dello stesso (con riferimento alle principali previsioni del provvedimento), e sulle aspettative dichiarate.
Una notazione preliminare riguarda, però, l’utilizzo della decretazione d’urgenza (non priva di alcune intrinseche incongruenze nella parte in cui l’entrata in vigore di varie norme è differita al trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore della legge di conversione). La drammatica situazione della giustizia civile pare idonea a fornire, in astratto, la copertura della necessità ed urgenza per qualsiasi intervento per decreto; e, tuttavia, proprio la “cronicizzazione” di quella situazione potrebbe anche suggerire – al di là dell’enfasi mediatica che la decretazione suscita – momenti di maggiore riflessione e ponderazione, che l’adozione di disegni di legge, opportunamente discussi non solo nelle aule parlamentari, ma anche con gli operatori e gli studiosi del settore, potrebbe apportare.
1) Le finalità dell’intervento.
Le dichiarate finalità sopra ricordate (incidere sui tempi della giustizia civile e migliorarne l’efficienza, e contribuire a ricostituire un ambiente d’impresa accogliente per gli investitori nazionali ed internazionali fondato sulla certezza del credito) non possono non suscitare consensi, tale è la loro unanime condivisione da parte di tutti gli operatori. Ciò, però, non può esimere dal segnalare con allarme una sempre crescente tendenza a valutare la giustizia civile unicamente in termini di tempi ed efficienza della risposta, prescindendo del tutto dal merito e dalla qualità della giurisdizione.
E’ vero che l’inefficienza ha raggiunto livelli tali da far venir meno persino le “precondizioni” per poter affrontare, senza inutili velleitarismi, discorsi di merito; ma occorre sfruttare ogni occasione per ribadire che tempi ed efficienza della giustizia civile non sono mai fini a se stessi, ma devono essere finalizzati a garantire la qualità, in funzione dell’attuazione dei diritti, della risposta giudiziaria. In quest’ottica, peraltro, occorrerebbe usare maggior cautela nel continuare a “stressare” le disposizioni in tema di motivazione della sentenza (si veda l’art. 79 del decreto), senza considerare le ricadute che questo comporta nei successivi gradi di giudizio e, in definitiva, sulla funzione democratica della motivazione stessa.
Rispetto a tali finalità, lascia perplessi la stravagante concentrazione della competenza per le cause in cui sia parte una società con sede all’estero presso gli uffici giudiziari di Milano, Roma e Napoli, con una incomprensibile deroga agli ordinari criteri di competenza idonea, peraltro, ad aggravare i costi della giustizia per le parti, senza alcun apparente miglioramento in termini di efficienza o “certezza del credito” per gli investitori internazionali.
2) La strategia e le modalità dell’intervento.
Sotto questo secondo profilo, va, innanzitutto, riconosciuta una salutare presa di coscienza dell’inutilità (ed anzi, spesso, della dannosità) di interventi concentrati unicamente sulle norme processuali.
Terminata (si spera) la stagione delle continue riforme processuali (che a partire dagli anni ’90 hanno prodotto un continuo sciame sismico sul codice di procedura civile e sulle norme processuali in genere, determinando incertezze e dubbi interpretativi forieri, a loro volta, di un maggior contenzioso); e venuta meno (si spera) la fiducia in riforme salvifiche, capaci di redimere il malcostume processuale di giudici ed avvocati (si pensi al processo societario); parrebbe che, finalmente, il legislatore, pur non abbandonando del tutto la tentazione di modificare qua e là alcune norme di rito, abbia sostanzialmente preso atto della necessità di un differente approccio strategico, che abbia di mira da un lato i modelli organizzativi e le strutture di supporto al giudice, e che tenti dall’altro di creare (o ricreare) strumenti alternativi alla giurisdizione ordinaria.
Sembrerebbe, ancora, che il governo sia finalmente consapevole del fatto che la giustizia civile necessita anche di investimenti finanziari, anche se qualche perplessità nasce dalle modalità di reperimento indicate dall’art. 80 (senza che si provi a fare un realistico calcolo di quanto l’aumento del numero delle cause definite può determinare in termini di maggiori entrate – basti pensare alla tassa di registrazione delle sentenze ed al maggior gettito IVA ed Irpef indotto – e di minori uscite – ad una riduzione dei tempi corrispondono minori oneri per la cd. legge Pinto).
Va letto in questo senso, e salutato complessivamente con favore, l’intervento sugli stage formativi presso i Tribunali e le Corti d’Appello. Il Governo ha, di fatto, recepito e stabilizzato le norme e le prassi relative agli stage formativi attualmente vigenti (relative agli specializzandi delle S.S.P.L. o dei praticanti avvocati), fornendo dei criteri generali di selezione e riconoscendo agli stagisti (non retribuiti, salva la possibilità di istituire apposite borse di studio sulla base di specifiche convenzioni) vari titoli incentivanti (per l’accesso diretto al concorso di magistrato ordinario, alternativo ad un periodo di tirocinio professionale ai fini dell’esame da avvocato, per la preferenza nei concorsi indetti dall’Amministrazione della giustizia o per la nomina a giudice o vice procuratore onorario).
Sarà ora onere del CSM aggiornare ed adeguare le proprie circolari in materia, che già in precedenza ponevano spesso limiti ed ostacoli burocratici eccessivi all’attuazione degli stage formativi; e si dovrà anche cercare di disciplinare al meglio l’ “apporto finanziario di terzi”, sulla base delle convenzioni stipulate dai capi degli uffici, trattandosi di profilo estremamente delicato, con riguardo all’indipendente esercizio della giurisdizione, oltre che idoneo a determinare rilevanti differenze su base territoriale.
In sostanza, il legislatore pare stia prendendo consapevolezza della necessità di dotare i giudici civili di un ufficio del giudice (o ufficio del processo), e, sia pure attraverso questa embrionale organizzazione (che, però, ove si trattasse di due stagisti per 18 mesi l’uno per ogni singolo magistrato rappresenterebbe un supporto concreto), pare accettare la scommessa di recente rilanciata dall’assemblea annuale degli Osservatori per la giustizia civile sull’idoneità di strutture di tal fatta ad incidere realmente sulla durata dei processi. Ciò che lascia perplessi è la previsione secondo cui “il ministero della giustizia fornisce agli ammessi allo stage le dotazioni strumentali, li pone in condizioni di accedere ai sistemi informatici ministeriali e fornisce loro la necessaria assistenza tecnica”, previsione della cui fattibilità è lecito dubitare alla luce delle croniche carenze strumentali che affliggono gli uffici civili (malgrado l’imminente entrata a regime [giugno 2014] del processo civile telematico).
Certamente un intervento più organico – non costretto dall’urgenza della decretazione – avrebbe potuto mettere mano ad un riassetto complessivo anche della giustizia onoraria, ripensandone, da un canto, il complessivo apporto nell’ambito dell’ufficio del processo, e cercando, dall’altro, di dare soluzione a situazioni di precariato ormai da troppo tempo incancrenite. C’è da sperare, poi, che a questo primo intervento faccia seguito anche un provvedimento che si faccia carico della situazione di progressiva emorragia dagli uffici degli amministrativi: senza assistenti d’udienza, informatici e statistici il decollo del processo telematico in tutte le sedi rischia di rivelarsi una pura illusione.
Nella stessa direzione si muovono le previsioni circa l’introduzione dei giudici ausiliari in Corte d’Appello. L’attenzione del legislatore si è finalmente focalizzata sul vero “buco nero” del contenzioso civile italiano, rappresentato dalle Corti d’Appello; e, dopo la novella del 2012 sul cd. filtro in appello, tenta di incidere sulla capacità di smaltimento dell’arretrato delle Corti (che forma gran parte del complessivo “debito giudiziario” italiano), aumentando le capacità produttive grazie all’ausilio di magistrati a riposo, professori o ricercatori universitari in materie giuridiche, avvocati o notai anche a riposo, per un periodo di cinque anni prorogabili per un analogo periodo.
Opportunamente, memori dell’esito tutt’altro che soddisfacente delle sezioni stralcio dei Tribunali, che accompagnarono l’introduzione della novella del ’95, si è preferito aggregare i nuovi giudici ausiliari agli attuali collegi delle Corti, in numero non superiore ad un giudice per collegio, per garantire diffusione delle conoscenze ed uniformità delle decisioni e si è previsto un numero minimo annuo (novanta) di procedimenti da definire da ciascun giudice ausiliario, allo scopo di realizzare in tempi ragionevoli il beneficio derivante dalla nomina. D’altro canto, la tentazione, sovente riproposta, dell’introduzione della monocraticità anche in appello, è stata opportunamente respinta, in quanto foriera di un ulteriore decadimento della qualità della giurisdizione.
Tale misura, peraltro, va letta in unione, e non in contrasto, con quelle relative agli stage formativi, previsti anche per la Corte d’Appello.
Anche qui, si potrebbe sostenere che le risorse da spendere per i magistrati aggregati avrebbero potuto essere impiegate per meglio stabilizzare l’ufficio del giudice, incentivando, ad esempio, anche economicamente gli stagisti. Ma non deve sfuggire la drammaticità della situazione in cui versano molte Corti d’Appello, nelle quali è indispensabile un intervento di sostegno alle sezioni ed ai collegi, per porre mano ad un arretrato che rischia di diventare irrecuperabile. E sotto tale profilo, anzi, appare criticabile la scelta di limitare a un massimo del 10 % dell’organico dei giudici ausiliari il numero di quelli provenienti dalla categoria dei magistrati in pensione, vale a dire proprio di coloro che, per la pregressa specifica esperienza professionale, sono in grado di rendersi immediatamente e sicuramente operativi in vista del risultato programmato.
Nella direzione della creazione di un ufficio del giudice si muove anche la previsione relativa ai magistrati assistenti di studio della Corte Suprema di Cassazione.
Anche in tal caso, il legislatore ha colto un altro nodo problematico della giustizia civile: la Corte di Cassazione italiana sopporta un carico di lavoro incommensurabilmente maggiore di quello di ogni corte suprema europea (cui fa fronte con livelli di produttività – in media circa 250 ricorsi definiti annualmente per ciascun consigliere addetto al civile – parimenti senza confronto); ed è prevedibile che l’aumento di produttività nelle Corti d’Appello (per effetto delle disposizioni del decreto in commento, e comunque per effetto delle disposizioni sul filtro in appello) scarichi sui giudici di Piazza Cavour un ulteriore incremento di sopravvenienze. Di qui un primo, sia pur timido, tentativo di offrire un supporto ed un ausilio alla “solitudine dei giudici di legittimità”, attualmente lasciati sostanzialmente soli (senza ausilii di alcun tipo) a fronteggiare unicamente con la crescente produttività la crescente sopravvenienza.
Si tratta di un tentativo timido, ed appena abbozzato: i magistrati assistenti, in numero di trenta, da destinare alle sezioni civili vedranno le loro attribuzioni concrete individuate dal Primo Presidente, sentito il Procuratore Generale. La sproporzione fra il numero degli assistenti e quello dei consiglieri addetti al civile (uno su quattro o cinque) e l’incertezza quanto ai compiti cui in concreto saranno destinati (incertezza in sé inopportuna trattandosi pur sempre delle funzioni di magistrati della Repubblica) rendono scarsamente plausibile il progetto di farne dei veri e propri assistenti; d’altro canto la Corte di Cassazione ha nella sua tradizione un ufficio certamente in grado di assorbire e anzi bisognoso di queste nuove risorse: l’ufficio del massimario e del ruolo.
Forse, allora, scelta più saggia ed organica sarebbe quella di rafforzare stabilmente (e non in via precaria, com’è previsto per gli assistenti, che conservano il posto nella pianta organica degli uffici di provenienza) l’ufficio del massimario, consentendo ai più anziani ed esperti di quell’ufficio – coloro che hanno superato la terza valutazione di professionalità – di integrare i collegi della Corte, contribuendo in tal modo anche direttamente alla definizione di un maggior numero di ricorsi pendenti.
Da salutare con favore, invece, è la limitazione della necessità dell’intervento del P.M. in Cassazione; potrebbe, anzi, farsi un passo ulteriore nella direzione del potenziamento effettivo della funzione requirente di legittimità prevedendo l’obbligo del P.M. di concludere soltanto nelle cause civili ritenute rilevanti dal punto di vista della nomofilachia, non essendo realisticamente ipotizzabile che quell’ufficio offra, con le risorse date (qualche decina di magistrati), un contributo di adeguato livello su tutti i circa 30.000 ricorsi annualmente trattati dalla Corte.
Infine, il pieno ripristino della media conciliazione, dopo le declaratorie di incostituzionalità dovute ad eccesso di delega da parte di Corte Cost. 272/2012, consente di dar seguito all’esperimento avviato in precedenza, che aveva dato risultati incoraggianti in vista di una deflazione ante causam del contenzioso, superando alcuni degli aspetti maggiormente problematici dell’originaria impostazione del d. lgs. 28/2010 (in particolare, per quanto riguarda i costi).
A ciò si accompagna, coerentemente, un maggior impulso alla mediazione officiosa (non più limitata ad un platonico invito, ma trasformata in una più incisiva disposizione, condizione di procedibilità della domanda), e l’attribuzione comunque al giudice di primo grado del compito di proporre una soluzione transattiva o conciliativa della lite.
3) Le aspettative.
Il Governo dichiara di attendersi, dall’insieme delle previsioni del decreto, un aumento delle definizioni stimato, nei cinque anni, in quasi un milione, ed una diminuzione delle sopravvenienze stimato, sempre nel quinquennio, in 200.000, in modo da giungere al termine del periodo ad una diminuzione delle pendenze complessive di 1.157.000 procedimenti.
E’ sempre rischioso provare a fare previsioni, anche se dalle stesse ci si può attendere una sorta di “effetto traino”, quasi di profezia autoavverante. E, tuttavia, se la previsione sulle minori sopravvenienze potrebbe trovare un riscontro ed una verifica nelle statistiche già disponibili sugli effetti della media conciliazione prima dell’intervento della Corte Costituzionale, la stima dell’incremento di produttività appare, oggettivamente, frutto di speranze, piuttosto che di valutazioni ponderate.
Basti pensare che per i 400 giudici aggregati in Corte d’appello si indica la necessità di non meno di 90 sentenze l’anno (ma sarà difficile che se ne possano ottenere in numero sensibilmente maggiore): nel quinquennio, dunque, l’incremento in termini di sentenze, sarà di 180.000 (o al più 200.000, ipotizzando 100 provvedimenti annui pro capite in base al tetto del compenso previsto), a fronte di un aumento stimato di 262.500 (a meno che in tale numero non sia compreso anche l’effetto del “filtro”, ma questo è un altro discorso).
Allo stesso modo, pensare che i trenta assistenti di studio in Cassazione possano generare percorsi virtuosi tali da produrre un incremento di produttività di 4.000 unità/anno sembra difficilmente argomentabile (tutt’altro discorso potrebbe farsi, invece, nel caso di potenziamento del già sperimentato ufficio del massimario e di ammissione della possibilità per i suoi componenti esperti, immediatamente “operativi”, di integrare i collegi della Corte).
La Corte di cassazione riesce a definire annualmente un numero di ricorsi pari alle sopravvenienze, il problema è l’arretrato accumulatosi negli anni. Per porvi rimedio sarebbe necessaria la piena copertura dell’organico (l’indice di scopertura del quale da lungo tempo è doppio della media nazionale) per almeno tre anni – ma ciò è compito del CSM – oltre al già indicato potenziamento dell’ufficio del massimario con il coinvolgimento dei suoi magistrati esperti nei collegi giudicanti.
Ma, soprattutto, inverosimile è che le norme del decreto possano portare ad un aumento di ben 675.000 procedimenti definiti nei tribunali nel quinquennio: un simile effetto non potrà certo venire (solo) dalla presenza degli stagisti, o dalle piccole modifiche processuali (a meno che, anche in tal caso, in tale numero non sia compreso anche l’effetto ulteriore che ci si attende dalla riforma della geografia giudiziaria).
(01/07/2013)
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