Pubblico ministero e Costituzione
Il documento delle Procure e la necessità di un confronto
Il recente documento siglato tra alcuni Procuratori e l'UCPI costituisce un'occasione preziosa per riflettere sui cambiamenti culturali che hanno interessato la magistratura requirente e che ne hanno determinato il progressivo allontanamento dal suo progetto costituzionale di potere diffuso, in favore di un modello individualistico e verticistico, improntato alla logica della performance, della burocrazia e dei numeri.
Il documento siglato il 27 ottobre 2020 da alcuni Procuratori e dall’Unione delle Camere Penali Italiane ha suscitato preoccupazioni e interrogativi, che costituiscono lo spunto per aprire una riflessione ponderata, ma ambiziosa e duratura, sul modo in cui si è concretamente realizzata la mutazione del progetto costituzionale della magistratura come potere diffuso, sulla crisi dell’associazionismo come motore della proposta politica e su un resiliente corporativismo, che tanto avversiamo a parole ma che abbiamo ancora poco indagato e compreso.
Proprio sotto quest’ultimo profilo bisogna osservare che la “personalizzazione” in capo a pochi dirigenti di una iniziativa su temi di rilevanza generale ha suscitato aspre critiche per la conseguente, inevitabile rappresentazione dell’intera magistratura in versione verticistica e degli uffici di Procura solo attraverso chi li dirige e i “pochi” legittimati ad interloquire con l’avvocatura su questioni rilevanti, come il processo al tempo dell’emergenza. In passato, tuttavia, e in non pochi casi, manifestazioni della direzione degli Uffici requirenti, declinata non già nelle forme della responsabilità e del dare conto, quanto piuttosto del protagonismo e della rappresentazione magniloquente di sé, non hanno determinato al nostro interno la necessaria riflessione critica.
Per questo crediamo che le reazioni non debbano fermarsi, ora, a un livello epidermico e che le analisi debbano essere in grado di cogliere i cambiamenti culturali che si sono prodotti, andando indietro nel tempo e a fondo dei fenomeni.
Non dobbiamo arrenderci all’idea che, sul piano culturale, si sia affermato il modello fortemente verticistico voluto dalla riforma del 2006, pur in parte neutralizzato e temperato dalla fondamentale attività paranormativa del Consiglio superiore della magistratura e, soprattutto nella fase iniziale, da iniziative adottate da alcuni dirigenti attenti.
Occorre allora chiedersi se tale modello abbia prodotto effetti più pericolosi e più duraturi, anche se meno evidenti, di quelli che cogliamo nelle rappresentazioni esterne di “personalizzazione” e di protagonismo, riconducibili a un cambiamento culturale, che va verso il superamento della visione costituzionale della magistratura.
È necessario tornare ad interrogarci su questo e, parallelamente, sulla capacità della dirigenza delle Procure di assumere ed esercitare la responsabilità di guida dell’ufficio, esaltandone tutte le risorse e mettendo a frutto il coordinamento collettivo, in luogo di un’impostazione puramente gerarchica, che identifica nel suo vertice l’intero ufficio.
È necessario interrogarsi sugli effetti di una personalizzazione che si riflette all’esterno, anche nel rapporto con la stampa, attraverso una rappresentazione semplificatoria dei risultati investigativi e in una comunicazione che li accredita come verità, inoculando pregiudizi nell’opinione pubblica, sulla base dei quali si interferisce, di fatto, con un esercizio libero e sereno della giurisdizione.
Non sorprende che, lungo questa deriva di personalizzazione, si siano create le basi per un rapporto unilaterale con la politica, attraverso cui pochi eletti hanno promosso o fatto fallire riforme e orientato la sensibilità di una parte della magistratura verso modelli e stili individualistici.
In occasione delle tante manifestazioni che questo modello di magistratura requirente ha avuto in diversi ambiti di intervento (la criminalità organizzata, l’immigrazione, la penalità penitenziaria, il conflitto sociale e l’economia), esprimendo spesso sintonia con le politiche di volta in volta dominanti, nel dibattito associativo è mancata la necessaria riflessione.
Oggi riteniamo urgente ed indispensabile avviarla, perché crediamo che la cultura della giurisdizione non sia divenuta appannaggio dei giudici; e che solo indagando a fondo sulle cause che ne hanno prodotto un indebolimento si possa difendere il modello di una magistratura autonoma e indipendente, contrastando efficacemente i progetti di separazione.
Se il punto di rottura, già da molti segnalato rispetto alla recente iniziativa dei Procuratori, risiede anche nell’effetto di accreditare pochi dirigenti di uffici di Procura come interlocutori politici diretti del Ministro, su temi generali che riguardano il funzionamento della giustizia, occorre allora cogliere l’occasione per guardare agli ulteriori rischi derivanti dalla perdita di una visione generale ed unitaria della magistratura, e di forme di interlocuzione che diano rappresentanza alle esigenze complessive della giurisdizione: fra questi rischi, vi è quello di una rappresentazione della magistratura requirente solo in termini di performance, di burocrazia e di numeri, e di una azione della Procura che, proprio per questo, più facilmente si può separare e allontanare da quella orientata dai valori della giurisdizione.
In quest’ottica, anche il dibattito politico-associativo – concentrato sui criteri e sui parametri per un dirigente efficiente – deve tornare a guardare, con attenzione, a ciò che accade nelle Procure: alla tenuta della cultura della giurisdizione rispetto alle prassi che si consolidano; alla trasparenza nelle scelte che riguardano l’esercizio dell’azione penale, l’indicazione di priorità, l’allocazione di risorse tra i dipartimenti e i gruppi; al modo in cui si esercitano, e sono percepiti dai sostituti, i poteri dei dirigenti; a quanto sia possibile e verificabile, all’interno degli uffici requirenti, una logica di fisiologico dissenso; all’incidenza sulla relazione Procuratore/sostituti dei poteri del dirigente nel campo delle valutazioni di professionalità.
Sono nodi che dobbiamo conoscere ed affrontare, prima di accettare qualsiasi conclusione sull’azione penale e sulla collocazione degli uffici del pubblico ministero.
Non va poi dimenticato un altro motivo di preoccupazione emerso dal dibattito sull’iniziativa dei Procuratori.
Il documento delle Procure e dell’Unione Camere Penali Italiane, pur dettato da pressanti urgenze, segnala un rischio evidente per la legittimazione dell’associazionismo giudiziario e per la sua capacità di rappresentanza e di proposta politica.
Anche qui, tuttavia, la riflessione non deve fermarsi alla ricerca immediata delle “colpe”, ma deve renderci consapevoli dei rischi di un’azione associativa che sia percepita come defatigante e improduttiva rivalità tra leadership, e non come momento unificante della pluralità di visioni della giustizia.
Occorre guardarsi, quindi, dal rischio che si consolidi la deriva verticistica che si è prodotta nella magistratura come nell’associazionismo: sono fattori che, invece di favorire il rafforzamento di una cultura autonoma della magistratura e della sua capacità di interlocuzione, portano a logiche di consenso e di potere, di cui la politica, trasversalmente e a tutti i livelli, sa approfittare. E anche da queste logiche nasce la crisi della magistratura, sfociata nelle drammatiche vicende degli ultimi mesi.
È necessario, dunque, aprire un confronto – a partire dal prossimo Consiglio Nazionale e in vista di future iniziative di approfondimento – che non riproponga una discussione sui principi, ma che assuma le forme delle domande, della comprensione dei fatti e delle iniziative da mettere in campo.
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