Documento approvato dal Consiglio nazionale del 12 ottobre 2024
Il diritto penale non può essere una costante “emergenza”
Il Consiglio nazionale di Magistratura democratica esprime preoccupazione di fronte a diversi interventi – alcuni annunciati e altri già realizzati – di “riforma” in materia penale.
Magistratura democratica ha già rimarcato più volte le criticità che qui ribadiamo. Lo facciamo nel pieno rispetto delle responsabilità e delle prerogative degli organi di rappresentanza politica, ma nella serena convinzione che l’intervento degli operatori della giustizia nel dibattito pubblico costituisca un esercizio di cittadinanza attiva, potenzialmente utile ad avviare una riflessione sulla direzione che sta prendendo il sistema penale.
Sempre più di frequente il legislatore interviene in materia penale per fronteggiare emergenze (talora reali, talora solo percepite come tali) con la decretazione di urgenza: si pensi al c.d. decreto – Rave (decreto-legge 31 ottobre 2022, n. 162; cfr. al riguardo la seguente pagina del pagina del sito di MD), al c.d. decreto – Cutro (decreto-legge 10 marzo 2023, n. 20; cfr. Comunicato di MD su cd. decreto Cutro), al c.d. decreto – Caivano (decreto-legge 15 settembre 2023, n. 123).
L’approccio costantemente emergenziale al diritto penale conferma la tendenza a spostare l’asse del potere legislativo reale dal Parlamento alle stanze del Governo. Si tratta di un approccio che – soprattutto in materia penale – suscita preoccupazione: la ristrettezza dei tempi per la conversione dei decreti legge e alcune prassi parlamentari affermatesi negli ultimi anni (proposizione di maxi-emendamenti, contingentamento dei tempi di discussione, proposizione di questioni di fiducia) rischiano di marginalizzare il Parlamento nella declinazione delle politiche penali. Parlamento che, in quanto “eletto a suffragio universale dall’intera collettività nazionale […] esprime, altresì, le sue determinazioni all’esito di un procedimento – quello legislativo – che implica un preventivo confronto dialettico tra tutte le forze politiche, incluse quelle di minoranza, e, sia pure indirettamente, con la pubblica opinione” (così Corte costituzionale, sentenza n. 230 del 2012).
Ma la questione non può porsi solo sulle “forme” che assume il procedimento legislativo.
A suscitare preoccupazione è anche il cedimento alla tentazione di ricorrere al diritto penale simbolico; sempre più spesso si cede all’illusione che i problemi di sicurezza dei cittadini possano trovare soluzione magicamente con il rigore della risposta penale. Crediamo che la risposta penale, specie se informata alla logica puramente muscolare, non sia la via più efficace per offrire sicurezza ai consociati e per risolvere i problemi sociali. Limitarsi ad alzare le pene “costa poco”, ma non risolve i problemi sociali che spesso alimentano i fenomeni di insicurezza sociale. Si tratta di problemi sociali e di sicurezza che spesso sono autentici e incidono sulla vita di persone concrete e reali. Ma questi problemi possono essere più efficacemente prevenuti irrobustendo i presidi di welfare e di inclusione, evitando di creare nelle periferie urbane sacche di abbandono e degrado sociale.
Con gli interventi penali sopra segnalati, il legislatore – per fronteggiare fenomeni criminali che già trovavano risposte sanzionatorie – ha esibito risposte informate a estremo rigore punitivo con interventi di dubbia efficacia: non risulta che – dagli inasprimenti di pena del c.d. decreto Cutro – siano discesi effetti positivi e concreti nel contrasto al traffico di esseri umani; né risulta che gli inasprimenti sanzionatori relativi al c.d. piccolo spaccio – disposti dal c.d. decreto Caivano – abbiano offerto una risposta positiva in termini di contrasto al traffico di stupefacenti o nella prevenzione della criminalità minorile (anzi: tra gli effetti del c.d. decreto Caivano segnaliamo il fatto che è ora inaccessibile agli imputati l’importante percorso di risocializzazione della messa alla prova per il c.d. piccolo spaccio e che – sempre per effetto del decreto Caivano – si è registrato un significativo aumento del numero di minorenni detenuti, generando così anche negli istituti per minorenni fenomeni di sovraffollamento).
Altrettanta preoccupazione è legata ad alcuni disegni in discussione in Parlamento: DDL 623 (AC) e DDL 341 (AS) sull’abrogazione del reato di tortura (in evidente contrasto rispetto agli obblighi internazionali assunti dal nostro Paese); ma soprattutto il DDL 1660 [c.d. DDL Sicurezza, proponenti i ministri Nordio, Piantedosi e Crosetto]. Con riguardo a quest’ultimo DDL [per cui, più diffusamente, cfr. Comunicato MD su DDL 1660], numerose disposizioni suscitano preoccupazione nella comunità dei giuristi: non solo in MD, ma anche nell’accademia (si veda l'intervento dell'Associazione italiana dei Professori di Diritto penale), nel mondo dell’avvocatura (si veda la delibera dell'Unione camere penali italiane) e della società civile (si veda l'intervento delle associazioni Antigone e ASGI).
Il DDL 1660 – in linea con precedenti interventi normativi – affida al rigore esemplare della risposta punitiva i comportamenti di precisi tipi di autore: i marginali, i manifestanti, i detenuti, le donne condannate con figli minorenni (implicito – ma chiaro – è lo stigma che cade sulle donne Rom), con un rigore sanzionatorio che tradisce il fastidio per le complessità di una società aperta e pluralista, in cui vi è spazio per la povertà, il disagio sociale, il dissenso e la disobbedienza (in questo caso sanzionato anche quando non violento: si pensi alla criminalizzazione del blocco stradale, anche non violento, e all’incriminazione – nel reato di rivolta – anche dei comportamenti di mera resistenza passiva).
La risposta penale è una scelta. Una scelta che, però, suscita preoccupazione, poiché sanzionare in modo deteriore gli autori di reato che hanno commesso fatti nel corso di manifestazioni pubbliche o di iniziative di protesta contro la realizzazione di c.d. grandi opere, o la scelta di ampliare il catalogo di misure di prevenzione atipiche (con attribuzione del potere al Questore di vietare a determinate categorie di persone l’accesso ai luoghi ove si realizzano le c.d. grandi opere) rappresentano scelte che rischiano di disegnare un “tipo d’autore”, veicolando nel discorso pubblico l’idea che la pubblica manifestazione di protesta è in sé un fatto da stigmatizzare.
Non si tratta di inseguire romantiche visioni del conflitto sociale, ma di esprimere preoccupazione per tutti quegli interventi che – in nome della logica dell’ordine e della disciplina – rischiano di deprivare la nostra democrazia degli elementi di vitalità che derivano dal pluralismo e dall’espressione del dissenso.
Se è chiara la linea di tendenza che intende reprimere – con l’esemplare risposta punitiva – i marginali e i disobbedienti, è altrettanto chiara la scelta di tranquillizzare la classe dirigente del Paese, come reso evidente dalla scelta di abrogare il reato di abuso di ufficio (su cui, cfr. Comunicato di MD).
A ciò si aggiunge poi il ripetersi di interventi sul fronte della procedura, in un susseguirsi di “riforme” – alcune attuate, altre solo prospettate – che riflettono, sul piano processuale, il medesimo orientamento: si allude al garantismo selettivo che informa gli interventi in materia di intercettazioni telefoniche, custodia cautelare (con la problematica introduzione del GIP collegiale e del previo interrogatorio di garanzia), di limiti alla pubblicazione di notizie in materia di procedimenti penali.
Ma, nel criticare i molti interventi in materia di giustizia penale, ci troviamo soprattutto a registrare con preoccupazione crescente la assenza di efficaci interventi, capaci di riavvicinare al mondo delle carceri la parola “dignità” (delle persone che vi sono detenute o che vi lavorano).
Carceri sovraffollate, con problemi di assistenza sanitaria, con un numero allarmante di suicidi, con evidenti carenze strutturali (in ragione della fatiscenza di molte strutture) e con gravi carenze di personale, (educativo e psicologico, oltre che di polizia penitenziaria) non hanno trovato il legislatore – mostratosi sordo persino al monito sollevato il 18 marzo 2024 dal Presidente della Repubblica – altrettanto attento e solerte. Il Governo è intervenuto con il decreto legge n. 92 del 2024, ma si è trattato di un intervento assolutamente inadeguato a riavvicinare l’esecuzione penale al “volto costituzionale della pena” (per un’analisi delle criticità e insufficienze di tale intervento, cfr. il documento della Conferenza Nazionale dei Garanti Territoriali).
Quell’intervento normativo non ha inciso in modo efficace sui profondi bisogni del sistema penitenziario. Ad essi si può certamente rispondere con misure di lungo periodo, ma riteniamo doveroso chiamare il legislatore alla responsabilità di rispondere al bisogno di dignità che – qui ed ora, non tra dieci anni – reclamano decine di migliaia di detenuti, di lavoratori dell’amministrazione penitenziaria e decine di migliaia di loro familiari. Accanto agli interventi di lungo periodo sono indispensabili misure urgenti, volte a fronteggiare – oggi – l’emergenza penitenziaria [per le proposte di MD, cfr. il documento Il carcere: tra dignità umana e rieducazione].
Si è detto che allargare l’ambito di applicazione della c.d. liberazione anticipata speciale o – peggio – discutere di una modulazione degli accessi in carcere in modo da scongiurare il sovraffollamento (il c.d. numero chiuso in carcere, come semplicisticamente si dice) o – ancor peggio – discutere di amnistia e indulto rappresenterebbero una sconfitta per lo Stato.
È nostra ferma convinzione che – per lo Stato – sia una sconfitta ancora peggiore quella di non assicurare dignità alle persone che si trovano a vivere o lavorare nel mondo delle carceri. Perché la dignità che si porta dietro tutte le promesse costituzionali è un diritto che non può essere teorico ed illusorio. Deve essere concreto ed effettivo. Per tutti e per ciascuno. Qui e ora.
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