Contrasto alla criminalità organizzata tra esigenze di sicurezza e garanzia dei diritti

La relazione del segretario generale

di Esecutivo di Magistratura Democratica

Il
contrasto alla criminalità organizzata tra
esigenze di sicurezza e garanzia dei diritti

Relazione introduttiva di Mariarosaria Guglielmi, segretario generale
di Md

A nome di
Magistratura democratica, desidero anzitutto ringraziare il Sindaco della città
di Reggio, che ci ospita, e tutti coloro che hanno contribuito alla
realizzazione di questo evento: l’Ordine degli avvocati, l’Ordine dei
giornalisti, la sezione di Magistratura democratica di Reggio Calabria che con
entusiasmo ha raccolto la nostra proposta e ha reso possibile questa iniziativa,
gli avvocati, i magistrati, i cittadini di Reggio e tutti coloro che oggi parteciperanno
ai nostri lavori.

Ringrazio tutti i
nostri relatori che hanno accettato l’invito ad essere con noi ad animare questa
giornata di confronto collettivo sulle complesse problematiche che si pongono
in relazione al fenomeno della criminalità organizzata, alla risposta delle
istituzioni, al ruolo della giurisdizione. Molte saranno oggi oggetto di una
riflessione più approfondita, anche attraverso gli interventi affidati a magistrati
portatori di specifiche esperienze professionali; tutte si confrontano con una questione
di fondo: la forza della democrazia, dei suoi valori di legalità e di pacifica
convivenza, che la criminalità organizzata rinnega; la forza dei diritti e
dello Stato di diritto con la quale la democrazia li riafferma e risponde al
potere eversivo della criminalità.

La scelta della
città di Reggio per il nostro convegno vuole essere una scelta di condivisione
della profonda consapevolezza dell’importanza dei “valori in gioco” che in
questa sede motiva e dà slancio al difficile lavoro di magistrati, forze
dell’ordine, comunità politica e società civile e che ha prodotto una risposta
forte e risultati straordinari in termini di repressione e di prevenzione della
criminalità organizzata.

Questa scelta vuole
essere anche un segno concreto di vicinanza, di solidarietà, di affetto per i colleghi
che sono quotidianamente impegnati nel difficilissimo compito di affermare la
legalità in questi territori, ed in particolare per i colleghi più giovani,
spesso provenienti da sedi ed esperienze molto diverse, lontani dalle loro
famiglie e dai loro affetti, e un riconoscimento dell’importanza del contributo
di esperienza professionale di quanti operano in realtà così complesse per riprendere
ed aggiornare un percorso di riflessione iniziato per Magistratura democratica molti
anni fa.

Un percorso che
ha segnato nel tempo l’impegno culturale del gruppo, e che ha prodotto passaggi
culturali importanti: tali sono stati i seminari organizzati in varie sedi del
sud (come Palermo, Cosenza), a partire dal 1980, al quale hanno partecipato
anche alcuni dei relatori di questa giornata.

A questo percorso
ci siamo ispirati anche per il metodo di confronto che allora è stato sperimentato
e che oggi vogliamo riproporre poiché, a distanza di anni, e in un contesto di
riferimento profondamente mutato, questo metodo riteniamo ancora valido ed
essenziale.

È il metodo che
valorizza il confronto fra sensibilità diverse e fra diversi punti di vista, a
cominciare da quello dell’avvocatura e di tutta la cultura giuridica e accademica;
che vuole arricchire le nostre conoscenze di giuristi con l’analisi politico-sociale del fenomeno, essenziale per comprendere la sua trasformazione, essere in
grado di “riconoscerlo” nelle sue nuove forme e di valutare l’evoluzione degli
orientamenti giurisprudenziali che si confrontano con le nuove forme del
crimine organizzato; è il metodo che vuole acquisire lo sguardo dall’esterno per
poter analizzare più a fondo e più consapevolmente anche le dinamiche interne
alla giurisdizione, e mantenere viva l’attenzione – con l’approccio critico e
problematico – alla tenuta delle garanzie e ai rischi di involuzione che
presenta un sistema penale costruito su scelte normative di emergenza e ad alta
intensità repressiva, e sulle ricadute di prassi e difficoltà legate alla
concreta gestione di complesse indagini e dei processi di criminalità
organizzata.

È il metodo che
può aiutarci ad acquisire consapevolezza delle implicazioni culturali che
comporta per la giurisdizione l’essere al centro di una difficile dialettica:
quella che contrappone lo Stato al suo “nemico” dichiarato.

L’esponente
irriducibile della criminalità organizzata, come oggi il terrorista, cito il
prof. Donini, è un prototipo di quello che può essere o diventare un diritto penale del nemico.

Nella logica del
diritto penale del nemico e del rapporto
dialettico fra lo Stato e il suo “nemico”, nel quale alla giurisdizione si
chiede di farsi carico dell’esigenza di neutralizzarlo edi essere parte di una più generale strategia di prevenzione e di contrasto
al fenomeno criminale, la terzietà stessa della giurisdizione può essere percepita
come ostacolo; il processo può essere percepito come uno strumento di lotta, come
il luogo simbolico dove lo Stato deve celebrare la sua “vittoria” sul “nemico”
e riaffermare il suo primato. In questa logica, cito sempre il prof. Donini, si
chiede ai giudici di chiarire «da che parte stanno», rimettendo in qualche modo
in discussione che questa risposta sia e debba essere sempre, necessariamente, quella
del «modello Barak»: stiamo dalla parte del diritto e comunque delle garanzie
costituzionali.

Oggi noi tutti,
magistrati e giuristi, avvertiamo fortemente il bisogno di una riflessione che
ci renda più consapevoli dei rischi di questa impostazione e di queste logiche.

Per le ragioni che
da sempre rappresentano il senso del nostro impegno in questo ambito: la
necessità di essere sempre magistrati attrezzati culturalmente e professionalmente
rispetto alla complessità del fenomeno e alle sue implicazioni; la necessità di
essere magistrati “impegnati”, “non rinunciatari” rispetto ai risultati del nostro
intervento e “non indifferenti” ai valori in gioco: tutti quelli essenziali e
irrinunciabili della democrazia e dello Stato di diritto che la criminalità
mette a rischio e rinnega; la necessità di essere e di sentirci portatori, insieme
ad altri, di una “memoria collettiva” – che ad altri dobbiamo essere in grado
di tramandare – della storia della criminalità e degli eventi che hanno colpito
duramente questo Paese, la sua comunità e le sue istituzioni; la necessità, per
poter essere tutto questo, di promuovere quella forte cultura delle garanzie
che dà legittimazione alla giurisdizione, e che le consente – in quanto capace
di una rigorosa “neutralità” processuale – di non essere “neutrale” culturalmente
rispetto ai valori sostanziali in gioco.

Le ragioni di
questo impegno si rinnovano e perdurano nel tempo. Ma nel nostro presente trovano
ancora più forza: è proprio la cultura della garanzie, e con essa, la
consapevolezza del nostro ruolo, dei limiti della nostra funzione, di quello che
Luigi Ferrajoli definisce il «carattere
sempre relativo ed incerto della verità processuale»;
èla legittimazione che la magistratura trae da questa cultura e da
questa consapevolezza; è tutto questo cheoggi deve essere messo al riparo e preservato da crescenti e sempre più
diffuse pulsioni populiste, che investono anche la magistratura e che dalla
magistratura ritornano amplificate nel dibattito pubblico quando ci viene
riconosciuto o ci riconosciamo il ruolo di unica
istituzione sana del Paese.

Quando
si vuole usare anche la giustizia e il diritto penale come terreno di esercizio
della demagogia e delle sue semplificazioni, forte è il rischio che si
smarrisca la consapevolezza di “valori complessi”, quelli che non accettano
semplificazioni, come sono i valori del garantismo; forte può diventare la
tentazione, anche per la magistratura, di rinunciare al costante e difficile
esercizio di capacità di autocritica e di vigilanza rispetto alle cadute, alle scorciatoie
e alle prassi discutibili sulle quali si misura in concreto la tenuta del
sistema di garanzie, e di rinunciare alla riaffermazione di una legittimazione derivante
dalla riconoscibile e rivendicata funzione di garanzia della giurisdizione in
favore dell’”investitura” proveniente dal sostegno e dal consenso pubblico.

Se oggi
possiamo rivendicare il ruolo forte che la magistratura ha avuto nella tutela e
nella riaffermazione della legalità, ruolo che le ha consentito di essere parte
importante di quell’argine istituzionale che ha protetto la nostra democrazia dai
progetti eversivi della criminalità e del terrorismo, è perché la magistratura è
rimasta dalla parte dei diritti e, nello stato di eccezione, ha assicurato la
tenuta del sistema di garanzie, conservando la consapevolezza che il suo ruolo,
non indifferente ai valori né ai risultati del suo intervento, deve rimanere
estraneo alle semplificazioni del giustizialismo e può essere un ruolo di effettiva
garanzia solo quando dai cittadini la magistratura ottiene la fiducia, non il consenso.

Il bilancio che
possiamo tracciare a 25 anni dalle stragi ci dice che molte battaglie anche
culturali sono state vinte; molto è accaduto sul piano del contrasto alla
criminalità organizzata; duri colpi sono stati inflitti alle organizzazioni con
l’arresto e la condanna dei più importanti capi, l’interruzione di traffici
illeciti, l’aggressione ai patrimoni criminali; diffusa è la consapevolezza del
carattere pervasivo del fenomeno e della sua pericolosità; le indagini e i
processi di criminalità, utilizzando nuovi strumenti, hanno consentito di
portare avanti una risposta giudiziaria più efficace al crimine organizzato;
nella verità giudiziaria sulla sua origine ed evoluzione, sulle sue strategie e
sulle “responsabilità” che i processi ci hanno consegnato noi abbiamo ritrovato
la traccia dalla quale far ripartire la storia della nostra democrazia
interrotta da tragici eventi.

Ma in questo
quadro di risultati positivi e di nuove consapevolezze, il nostro approccio alle
problematiche connesse al fenomeno della criminalità organizzata deve e vuole
restare problematico.

La sua evoluzione
delinea nuove frontiere e pone all’azione di contrasto alla criminalità organizzata
nuove sfide: il disvelamento dei rapporti sommersi e delle relazioni in
ambienti politici ed istituzionali; il legame con la corruzione e la
criminalità economica; la ricostruzione della fisionomia delle mafie
contemporanee; la necessità di un più deciso intervento di recupero di interi
territori ed aree del Paese, e di un’azione di contrasto nel “sociale” alla
quale non può supplire l’intervento giudiziario né l’attività di prevenzione e di
repressione affidata alle forze di polizia; l’affermazione della legalità in
tutti i campi. Il che significa una giustizia civile efficiente, una giustizia
penale capace di intervenire su tutte le situazioni di illegalità ma significa
anche uno Stato “presente”: servizi sociali, spazi di aggregazione e di
formazione culturale per i giovani, investimenti economici e opportunità di
lavoro. Sono queste le cose che, molto più della repressione, tolgono linfa
vitale al crimine organizzato.

Nuove sfide che
in questa terra di Calabria si aggiungono a vecchie sfide.

Lo ricordava il presidente
della Corte di appello Luciano Gerardis all’inaugurazione dell’anno giudiziario,
richiamando le parole della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno
delle mafie e sulle altre associazioni criminali: «la provincia di Reggio continua ad essere drammaticamente
connotata da una presenza della criminalità organizzata che non risparmia
società civile, istituzioni, impresa, economia; la ‘ndrangheta è
un’associazione criminale unitaria, vitale e attiva in Calabria, centro
propulsore del fenomeno mafioso ma ha raggiunto dimensioni nazionali e
sovranazionali, affermandosi anche all’estero»; le cosche reggine «operano –
con presenza asfissiante – un controllo pregnante delle attività economiche
dell’intera provincia»;« solidi sono i rapporti tra la ‘ndrangheta e la
politica, non solo ai livelli comunale, provinciale e regionale».

Un contesto nel quale l’impegno straordinario
richiesto a tutte le istituzioni nell’azione di contrasto alla criminalità e alla
magistratura per far funzionare lo strumento processuale fra enormi difficoltà
gestionali ed operative legate alla complessità delle indagini e dei processi e
alla limitatezza delle risorse, si scontra con un clima di sfiducia generalizzato
e di diffidenza nei confronti di chi ha il compito istituzionale di fornire
risposte di giustizia. Un contesto nel quale, cito sempre il presidente
Gerardis «molti, forse i più non
intendono ancora schierarsi attivamente in favore dello Stato, ma assistono
come dall’esterno ad una partita tra le forze della legalità e chi cerca di
violarla»
.

Un contesto nel quale l’impegno della
magistratura deve fare i conti con le dinamiche prodotte dall’omertà e dalla “cultura”
mafiosa, che si nutre dei fallimenti dello Stato e della “sua” giustizia, e con
la difficoltà della giurisdizione ad essere sempre percepita dalla collettività
come la risposta credibile dello Stato alle istanze di tutela dei diritti e
alle aspettative di riparazione per le ingiustizie subite
.

Il nostro deve
dunque restare un approccio problematico perché alla consapevolezza di tutto
quel che si è fatto si affianca la consapevolezza che molto è quello che resta
da fare.

In termini di conoscenza
e di comprensione delle nuove dinamiche del crimine organizzato e dei fenomeni
sociali e politici che con queste si intrecciano, di adeguamento degli
strumenti di risposta e di contrasto.

Ma deve essere e
deve restare un approccio problematico per la parte che più direttamente ci
interpella come giuristi.

Perché in questo
ambito la giurisdizione deve confrontarsi da sempre con quel dilemma, che
abbiamo riproposto nel titolo di questo convegno («Il contrasto alla criminalità organizzata tra esigenze di sicurezza e
garanzia dei diritti»),
punto di snodo della nostra riflessione, oggi come
è stato in passato. Sono attuali le parole con le quali Pino Borrè ci avvertiva
del rischio di assecondare l’ottica che nei processi di criminalità organizzata
vede un’insanabile contrapposizione fra “garantismo individuale“ e “garantismo
collettivo”, e una sostanziale incompatibilità – che imporrebbe di considerare
l’un valore recessivo e alternativo all’altro – fra «il bisogno di protezione
del soggetto collettivo, della gente oppressa dalla criminalità» e «la funzione
del giudice che, anche quando si misura con fenomenologie di respiro storico,
si deve risolvere sempre in ricognizione di posizioni individuali, ciò che fa sì che tale funzione non
possa prescindere dalla pienezza del diritto di difesa dell’imputato, dalla
presunzione di non colpevolezza, dal rigoroso rispetto del principio della
responsabilità penale e dalla legalità dell’acquisizione e dalla sufficienza
del materiale probatorio: in una parola dal garantismo processuale».

Una contrapposizione che non possiamo rimuovere
né cercare di superare ritenendo l’un valore sacrificabile in nome dell’altro:
il ruolo della giurisdizione esige consapevolezza dell’esistenza del rapporto
di tensione che si instaura fra i valori della libertà e della sicurezza quando
la legislazione affida al sistema penale le forti istanze di tutela della
collettività e quando forte è, e deve essere, l’aspettativa di tutela da parte
della collettività, e il suo compito è mantenere l’incisivo e mirato intervento
penale in un quadro di solida tenuta delle garanzie individuali.

Se al processo non si può chiedere di
essere “strumento di lotta”, e alla giurisdizione dobbiamo chiedere di stare sempre
dalla parte dei diritti e delle garanzie, la giurisdizione deve essere in grado
di operare efficacemente con gli strumenti e di confrontarsi con le finalità di
un sottosistema normativo, di un regime differenziato che attraversa il diritto
penale sostanziale, processuale e penitenziario, delineato come parte di una
strategia volta a rafforzare la capacità dell’ordinamento di prevenzione e di repressione
della criminalità organizzata. Un regime che ha adeguato questa capacità alla
gravità e alle peculiarità del fenomeno nella fase dell’accertamento e delle
indagini ma trasmette a tutto il procedimento e alla fase processuale una istanza
rafforzata di difesa sociale, lasciando alla giurisdizione il difficile compito
di garantire ed assicurare l’equilibrio fra le esigenze di tutela della
collettività e quelle di tutela dei diritti del singolo imputato.

Di questa
tensione fra i valori contrapposti di libertà e sicurezza la giurisdizione deve
essere sempre consapevole e deve farsene carico: questo è il ruolo che le
affida il sistema del “doppio binario”.

Da qui
l’importanza di una riflessione sul modo in cui la giurisdizione ha interpretato
questo ruolo, e si è mossa sul “doppio binario” e la necessità di comprendere
se lo ha fatto seguendo sempre l’unica direttrice segnata dai principi
costituzionali, nazionali e sovranazionali, che disegnano i lineamenti del giusto
processo e di un trattamento sanzionatorio conforme a tali principi. Da qui
l’importanza di valutare come garanzie e tutela di diritti si declinano
rispetto al progressivo potenziamento dei mezzi di indagine, di ricerca della
prova e di aggressione ai patrimoni illeciti, e all’incremento dell’efficacia
funzionale di tali strumenti resa necessaria dalle nuove e complesse dinamiche
della criminalità organizzata; quali effetti produce il connubio fra
trattamento cautelare e tempi richiesti dall’accertamento delle responsabilità;
come il regime probatorio differenziato, che risponde alla oggettiva problematicità
della formazione della prova dichiarativa nei processi di criminalità
organizzata, si concilia con la pienezza del principio del contraddittorio e dell’oralità.

Interrogativi
che si ripropongono sotto altre forme ma sempre in termini di bilanciamento di
diritti e di valori rispetto a specifici interventi come quelli adottati dalla
giustizia minorile proprio qui a Reggio Calabria.

E rispetto alla fase
di esecuzione della pena. Quando cioè il “nemico” che lo Stato ha combattuto e ha
sconfitto ha il volto e il nome della persona condannata.

Un tema che oggi
ci accingiamo ad affrontare mentre è in corso nel Paese il tormentato dibattito
suscitato dalla recente decisione della Cassazione sull’ordinanza del Tribunale
di Sorveglianza di Bologna per il differimento dell’esecuzione della pena
carceraria per il capo riconosciuto di Cosa Nostra.

Il dilemma,
dunque, può tornare sempre per la giurisdizione, forte e problematico anche
quando lo Stato ha sconfitto il suo “nemico”.

E alla
giurisdizione spetta affrontarlo e farsene carico, rendendo sempre riconoscibile, nelle proprie decisioni, l’applicazione
di quel parametro di giudizio che deve guidarla nelle sue difficili scelte,
rappresentato dal costante bilanciamento tra le esigenze di tutela dei diritti del
singolo e quelle altrettanto fondamentali di tutela della collettività e dello
Stato di diritto.

Il video-intervento è disponibile a questo link

Il programma completo

Reggio
Calabria, 10 giugno 2017

28/06/2017

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