di LUIGI MARINI
Ieri in Cassazione è stato presentato il libro di Lionello Mancini “L’onere della toga”.
Nel suo intervento Michele Vietti ha espresso un concetto che la magistratura “progressista” (ricorro per semplicità di argomenti a questa espressione nonostante sia abusata e talvolta ambigua) ha avanzato da tempo:
la legittimazione costituzionale del magistrato che lo abilita a “fissare la legge” del caso concreto (e dunque a farsi in qualche modo legislatore) non sta certo nella investitura popolare o in una responsabilità politica (dimensioni a cui è estraneo, per fortuna) né nel superamento di un concorso, ma si rinviene nella sua “qualificazione professionale”; e questa comprende, come ha aggiunto Giorgio Santacroce, sia la preparazione tecnica sia la capacità di lavorare all’interno di un’organizzazione complessa sia “lo sforzo assiduo di capire la società e la sua evoluzione“.
Non c’è, dunque, nessuna forma di presunzione in quei magistrati che non rifiutano di essere valutati e che accettano di confrontarsi con una valutazione equilibrata ma “vera”. Si pongono così non perché pensano di essere migliori, ma perché capiscono che solo un sistema di valutazione effettivo potrà garantire la loro reale indipendenza; questa è messa in pericolo molto più dall’assenza di presidi di qualità e professionalità che dalle valutazioni “incrociate” o da un sistema di valutazione più aperto.