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Il carcere: tra dignità umana e rieducazione
Il tasso di sovraffollamento, il numero di suicidi, le criticità nell’assistenza sanitaria espongono le persone detenute e quelle che in carcere lavorano a una quotidianità che rischia di porre in discussione i diritti fondamentali della persona e compromettere la funzione di reinserimento sociale che la Costituzione indica come coessenziale all’esecuzione delle pene.
Lo stesso Presidente della Repubblica ha sottolineato quanto sia indispensabile affrontare immediatamente la situazione, con l’adozione di interventi urgenti.
È necessario riformare il sistema dell’esecuzione penale, in modo da poter riaffermare il volto costituzionale della pena e assicurare la dignità di ogni persona che si trova a vivere e lavorare in carcere.
Sono auspicabili interventi che possono offrire una risposta nell’immediato: la rapida approvazione di un provvedimento legislativo sulla c.d. liberazione anticipata speciale; la previsione – calibrata secondo razionali criteri di priorità – della sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva (ove essa debba essere eseguita in strutture sovraffollate); l’approvazione di provvedimenti di clemenza.
Sono tuttavia necessari anche interventi di medio e lungo periodo: un ripensamento dell’edilizia penitenziaria, ma, soprattutto, un potenziamento delle risorse umane (polizia penitenziaria, operatori sanitari, educatori, UEPE, magistratura di sorveglianza); un ripensamento delle modalità di esecuzione della pena detentiva, immaginando la costruzione di percorsi trattamentali differenziati e capaci di proporre alle persone detenute concrete possibilità di reinserimento sociale al momento della conclusione della pena detentiva; un rafforzamento del sistema delle pene sostitutive, con un più ampio coinvolgimento di enti territoriali e mondo delle associazioni nella costruzione di percorsi di reinserimento sociale, che non può essere solo responsabilità dell’amministrazione penitenziaria, ma è compito di tutta la comunità repubblicana; un rafforzamento delle strutture deputate a trattare il disagio psichico degli autori di reato; un ripensamento di alcune politiche penali informate a una cultura sicuritaria rivelatasi poco efficace e per lo più carcerogena.
Solo assicurando autentiche e concrete condizioni di dignità alle persone sottoposte all’esecuzione penale e rendendo non utopica la promessa di reinserimento sociale si riuscirà ad ottenere un avvicinamento alla funzione che la Costituzione assegna al diritto penale.
IL DOCUMENTO
Il carcere: tra dignità umana e rieducazione
Il carcere è uno dei luoghi in cui un paese democratico misura il suo tasso di aderenza ai diritti universali dell’uomo. E’ il fulcro in cui l’uso della forza, regolato dallo Stato nel processo, cerca il suo più difficile equilibrio con l’umanità del trattamento sanzionatorio e con la risposta rieducativa che la Costituzione affida alle pene.
La privazione della libertà, a maggior ragione se applicata a chi ancora non è stato raggiunto da sentenza di condanna, è la misura più afflittiva che l’ordinamento prevede.
Lo ha ricordato più volte la Corte Costituzionale, da ultimo nella sentenza n. 10 del 2024: «il volto costituzionale della pena richiede che questa non implichi una sofferenza eccedente la misura necessaria […]. La dignità della persona (art. 3, primo comma, della Costituzione), soprattutto nel caso dei detenuti, il cui dato distintivo è la precarietà degli individui, derivante dalla mancanza di libertà, in condizioni di ambiente per loro natura destinate a separare dalla società civile, è dalla Costituzione protetta attraverso il bagaglio degli inviolabili diritti dell’uomo, che anche il detenuto porta con sé lungo tutto il corso dell’esecuzione penale».
È sotto i nostri occhi, però, la situazione drammatica delle carceri italiane. Una situazione per la quale è difficile parlare di rieducazione, perché le condizioni ordinarie ben difficilmente possono essere considerate civili.
Il sovraffollamento ha già raggiunto livelli intollerabili, tanto che, prima ancora che di ostacolo alla rieducazione, si deve parlare di ostacolo alla vita dignitosa se non alla sopravvivenza.
Pur non essendovi evidenze adeguate per stabilire un nesso di causa-effetto tra livelli di sovraffollamento e tasso di suicidi, non si può che registrare che i suicidi, nei primi quattro mesi del 2024, sono stati 33 (70 nel 2023). Ma il suicidio è solo la spia più evidente, che denuncia una situazione complessiva che non può certo assicurare condizioni di vita dignitose ai reclusi.
Secondo i dati dell’ultimo rapporto di Antigone, aggiornato al 31 marzo 2024, i detenuti sono 61.049 rispetto ai 51.178 posti della capienza ufficiale con un tasso di affollamento medio del 119%, che in alcuni istituti raggiunge punte ben più alte, davvero intollerabili, addirittura superiori al 200%.
Il sovraffollamento, la fatiscenza edilizia, la promiscuità di percorsi trattamentali, l’impossibilità di un effettivo accesso al lavoro e alle offerte rieducative, l’assenza delle basilari condizioni igieniche, l’inadeguatezza dell’assistenza sanitaria a prendersi cura della salute fisica e di quella mentale dei detenuti contribuiscono a rendere il trattamento applicato contrario al dettato costituzionale: rendono il carcere un luogo dove il più delle volte si cerca di sopravvivere al nulla, dove i problemi principali sono quelli relativi all’igiene, allo spazio e al cibo, dove è costante il tentativo di soddisfare i bisogni basilari, ossia quelli che dovrebbe essere, invece, lo Stato a garantire a ciascuno, in modo da creare le condizioni per sviluppare o ricucire il senso del bene comune e la voglia di migliorarsi.
Ne esce l’immagine di un carcere non solo inadeguato alla sua funzione rieducativa, ma anche lesivo della dignità umana, ridotto a un luogo ove il detenuto replica le dinamiche di strada ed è esposto a logiche recidivanti; e dove il personale penitenziario, chiamato a supplire professionalità assenti e a governare continui conflitti, rischia di perdere il senso e la fiducia nel proprio ruolo.
I casi di uso abusivo della forza e tortura su cui si è indagato e che sono sub iudice non trovano in assoluto alcuna giustificazione. È certo, però, che le deviazioni vanno circoscritte e inquadrate in un contesto nel quale la polizia penitenziaria si adopera con personale numericamente non adeguato (un agente ogni 50/70 detenuti), in turni di servizio serrati, svolti in condizioni di costante concentrazione e si trova sovente a risolvere (letteralmente) da sola emergenze che richiederebbero supporto specialistico e che, per questo, sono destinate ad aumentare il carico di stress individuale.
Le proposte
Ci troviamo di fronte a una situazione non lontana da quella che indusse la Corte EDU a condannare l’Italia nel noto caso Torreggiani. In tale situazione, Magistratura democratica ritiene indispensabile la costruzione di rimedi che prevengano la possibile violazione dei diritti fondamentali della persona detenuta; violazioni che, appunto, occorre prevenire e non risarcire ex post con i rimedi risarcitori oggi previsti dall’art. 35-ter dell’Ordinamento penitenziario.
Così come emerso nei momenti di analisi e confronto con l’associazione Antigone e con l’avvocatura, Magistratura democratica ritiene che, per restituire alla detenzione in carcere il carattere di pena coerente con il dettato costituzionale, occorra operare su due piani, uno immediato e urgente, uno strategico: con il primo si potrà puntare ad alleggerire la pressione sul sistema penitenziario, oramai davvero intollerabile; con il secondo immaginare una riforma radicale dell’esecuzione penale, che esca con maggiore convinzione dagli schemi del secolo scorso, pensati per una società diversa, con un numero di detenuti incomparabilmente più basso e quando molte delle risposte sanzionatorie che si sono fatte strada negli ultimi decenni non erano neppure immaginabili.
Le misure urgenti
Accogliendo il quanto mai esplicito monito del Presidente della Repubblica, sollevato il 18 marzo 2024 in occasione dell’incontro coi delegati della Polizia penitenziaria per i 207 anni di vita del Corpo, è indispensabile che il legislatore individui «immediatamente, con urgenza» misure, anche temporanee, volte ad alleggerire la pressione sulla popolazione carceraria.
1) La proposta di portare la liberazione anticipata da 45 a 60 giorni ogni semestre, attualmente in discussione alla Camera (disegno di legge C. 552), può costituire una misura utile a diminuire la pressione in tempi ragionevolmente brevi. La liberazione anticipata speciale, diversamente dall’amnistia e dall’indulto, richiederebbe una valutazione del giudice della sorveglianza, riguarderebbe condannati che già hanno aderito positivamente al percorso di recupero, coerentemente con i principi fondamentali in materia di esecuzione e potrebbe consentire al sistema di riprendere fiato nel brevissimo periodo. Auspichiamo pertanto che le autorità di governo prendano seriamente in considerazione l’approvazione di un decreto legge che si muova nel solco della citata proposta di legge, ora all’esame della Camera dei Deputati (facendosi anche carico di affrontare due criticità, potenzialmente foriere di dubbi di legittimità costituzionale: (i) la disciplina degli effetti nel tempo della novella; (ii) l’attribuzione al direttore dell’istituto della competenza a riconoscere il diritto al beneficio).
2) La previsione di una modifica dell’art. 656 c.p.p. che preveda la possibilità di sospendere l’esecuzione della pena detentiva qualora la stessa debba trovare applicazione in un istituto ove il tasso di affollamento superi il 100%. Si tratta di un meccanismo di garanzia dal quale potrebbero essere esclusi i reati più gravi (come mafia e terrorismo) o i casi in cui si è resa necessaria l’applicazione della custodia cautelare in carcere. In caso di necessità di gestire il flusso di sospensioni dell’esecuzione e ingressi in istituto, si potranno stabilire dei criteri di priorità, per individuare le condanne cui dare prioritariamente esecuzione (eventualmente prevedendo proporzionate forme di controllo sulla condotta del condannato in attesa dell’inizio dell’esecuzione della pena); o, ancora, si potrebbe intervenire su alcuni rigidi automatismi che si determinano per effetto delle interrelazioni tra l’art. 656 c.p.p. e l’art. 4-bis dell’Ordinamento penitenziario.
Non si tratta di una velleitaria proposta di introduzione del numero chiuso. Si tratta, al contrario, di un intervento che consentirebbe di dare esecuzione alla pena in un momento in cui il sistema penitenziario è in grado di assicurare che essa sia coerente con il mandato costituzionale.
A ciò si aggiunge la possibilità, resa attuale da una situazione ormai diventata sistemica e non più episodica o risolvibile con rimedi preventivi (come indicato dalla Corte nella sentenza di inammissibilità n. 279 del 9 ottobre 2013), di percorrere nuovamente la questione di legittimità costituzionale dell’art. 147 c.p. nella parte in cui non prevede, oltre ai casi ivi espressamente contemplati (presentazione di domanda di grazia, grave infermità fisica o madre di prole di età inferiore a tre anni), l'ipotesi di rinvio facoltativo dell'esecuzione della pena quando essa debba svolgersi in condizioni contrarie al senso di umanità.
3) In una fase storica in cui la pressione sul mondo penitenziario si sta rapidamente dirigendo verso una situazione di possibile compromissione non solo del percorso di reinserimento sociale, ma degli stessi diritti fondamentali delle persone detenute, il Parlamento potrebbe poi prendere in seria considerazione l’approvazione di provvedimenti clemenziali.
L’amnistia e l’indulto – si dice – sono sempre una sconfitta per l’ordinamento. Ma anche non saper garantire un’esecuzione penale dignitosa è una sconfitta per un ordinamento.
A fronte di un tasso di sovraffollamento molto elevato, di un arretrato giudiziario molto elevato, di una riforma del sistema penale di forte impatto, il legislatore – nell’esercizio della sua “libertà”, ma anche della sua “responsabilità” politica – avrebbe valide giustificazioni istituzionali per prendere in seria considerazione l’adozione di provvedimenti di clemenza.
Le misure sistemiche
Tuttavia il ciclo (ormai esaurito) delle misure straordinarie adottate per adempiere alle prescrizioni della sentenza Torreggiani ci rende consapevoli che, senza una profonda riforma e senza interventi radicali e lungimiranti, il problema è destinato a riproporsi ciclicamente, come infatti sta già accadendo, con un indice di affollamento in rapida e drammatica crescita.
È oramai un dato acquisito che l’identificazione fra “pena” e “carcere” non ha più senso, come pure non si può dire esista un unico modello di carcere.
La proposta, a prima vista sensata, di rimediare al sovraffollamento costruendo più carceri, non ha avuto e non avrà alcun concreto sbocco. Quantomeno non nell’immediato. E non solo per le difficoltà e i tempi necessari alla costruzione degli edifici (comunque lunghissimi), ma perché questa opzione non si fa carico di indicare con quali risorse economiche, soprattutto in punto di personale, si farebbe fronte alla gestione delle nuove carceri, posto che già gli insufficienti istituti soffrono tutti di evidenti e gravi carenze di personale, sia di quello di polizia, sia di quello incaricato più direttamente del trattamento. La strada, anzi le strade, devono essere diverse, senza necessariamente rinunciare a rinnovare il patrimonio edilizio carcerario.
1) Il carcere, dopo l’introduzione delle pene sostitutive da parte della c.d. riforma Cartabia, dovrebbe essere solo una delle forme di esecuzione della pena: quella riservata ai delitti più gravi ovvero dove sia possibile progettare un percorso detentivo capace di restituire al condannato la dignità umana persa nel crimine. Il carcere non è invece la soluzione per le pene detentive brevi o, il più delle volte, per il contenimento di soggetti affetti disturbi sociali della personalità.
Per questi casi la legge prevede la presenza di strutture amministrative che si occupino della esecuzione esterna delle pene sostitutive (l’UEPE) e, nel secondo, di strutture sanitarie e socio-assistenziali che individuino e seguano un percorso terapeutico e di sostegno da affiancare alla pena (SerD, Csm). Ancora oggi queste strutture sono, però, gravemente insufficienti e prive di risorse e rischiano di non riuscire là dove dovrebbero essere l’effettiva risposta alternativa al carcere inteso come luogo di emarginazione del disagio.
Deve, pertanto essere resa effettiva una immediata e diffusa applicazione delle pene sostitutive attraverso il potenziamento degli uffici di esecuzione esterna della pena, così come deve essere avviata una seria politica di investimenti per le strutture sanitarie destinate al trattamento esterno dei soggetti psicologicamente fragili.
Ma non solo: sarebbe necessario che anche gli enti territoriali e le associazioni di categoria e del c.d. terzo settore si sentissero interpellati da questa responsabilità, aumentando la loro offerta di collaborazione alla costruzione di percorsi di reinserimento sociale delle persone condannate. Se oggi si può dire che il c.d. terzo settore stia provando a rispondere a questa responsabilità, altrettanto non può dirsi con riferimento a troppe istituzioni pubbliche.
È necessario che si costruisca una cultura per cui il reinserimento sociale è una domanda rivolta a tutta la comunità repubblicana e non solo all’amministrazione penitenziaria.
2) Occorre tuttavia ripensare alla pena detentiva, individuando anche altre modalità di esecuzione della stessa. Non più il solo carcere, quindi, e non più un solo tipo di carcere.
Non si tratta di introdurre misure indiscriminate e non si tratta di rendere meno ferma la risposta dello Stato alla commissione di delitti gravi. Si tratta di verificare se alcune esperienze già in corso, che hanno dato frutti positivi, come ad esempio quelle delle CEC (Comunità educante con i carcerati), possano diventare una delle modalità di esecuzione della pena. Il passaggio non potrà essere ovviamente istantaneo o automatico.
Per verificare la praticabilità di una simile idea sarà necessario reperire dati statistici, verificare i luoghi, le competenze del personale, le modalità di vigilanza sulla struttura e sull’effettiva formazione degli operatori. Una simile progettualità dovrà in ogni caso essere disciplinata in modo tale da escludere che ciò determini una sorta di privatizzazione dei percorsi di esecuzione penale (che non può che rimanere affidata alla responsabilità istituzionale delle istituzioni statuali).
Occorre peraltro ricordare che in molti casi, per ragioni varie, dalla mancanza di legami territoriali e familiari, alla provenienza da stati esteri, il detenuto che potrebbe in astratto aspirare a forme di esecuzione alternativa, come la detenzione domiciliare, o anche l’affidamento in prova, neppure presenta domanda per mancanza, appunto, di un domicilio o di riferimenti familiari o sociali. Una struttura consimile soddisfa le esigenze di sicurezza sociale, poiché il condannato è comunque soggetto a vigilanza e limitato negli spostamenti e consente anche di ipotizzare un verosimile risparmio di spesa rispetto alle forme tradizionali.
3) Il sovraffollamento carcerario trova in gran parte origine delle attuali normative sull’immigrazione (31,3% di stranieri) e sugli stupefacenti. In questa ultima materia le esperienze estere, da ultima la Germania, mostrano come sia ormai maturo il tempo di abbandonare la scelta proibizionistica sull’uso delle droghe leggere, rivelatasi al contrario delle intenzioni un fattore criminogeno, per giungere ad una depenalizzazione di un fenomeno sociale che può essere monitorato e prevenuto attraverso il sistema sanitario e quello scolastico e che invece, oggi, costituisce titolo di reato per 26.160 dei 61.049 reclusi, oltre ad alimentare un indotto criminale che accresce ulteriormente la pressione sul sistema penale.
4) Il recupero della dignità della detenzione carceraria passa non solo attraverso la ristrutturazione degli edifici e il rispetto dei minimi standard di abitabilità degli spazi ma anche attraverso investimenti che aumentino le opportunità di lavoro, di studio e formazione consentendo a tutti i detenuti (e non solo al 10%) di accedervi, attraverso investimenti che prevedano la presenza di un numero adeguato di operatori e funzionari giuridico pedagogici e mediatori culturali per assicurare un reale accompagnamento nel percorso trattamentale; attraverso una maggiore presenza dei magistrati di sorveglianza (primo interlocutore dei detenuti) all’interno delle strutture carcerarie, anche a mezzo un incremento dell’organico; attraverso l’aumento degli organici della Polizia penitenziaria e del personale medico-sanitario e del corpo degli educatori.
5) Magistratura democratica auspica che, lungi dalla costruzione di nuove carceri, la politica voglia affrontare i problemi legati al crescente disagio psichico nelle prigioni, tema che, affrontato dai progetti di riforma, si è colpevolmente voluto tralasciare. Nel caso dei detenuti con patologie mentali e degli internati sottoposti alle misure di sicurezza diventa ancora più difficile infatti - in presenza di permanenti vuoti normativi - conciliare le esigenze di sicurezza con il diritto di essere curati come cittadini uguali a tutti gli altri: appare opportuno incentivare protocolli operativi tra i Servizi territoriali di psichiatria e gli Uffici giudiziari che consentano di risolvere, già in sede di giudizio di cognizione, la possibilità di trattamenti terapeutici non necessariamente collegati alla totale privazione della libertà, per dare effettiva attuazione alla legge 17 febbraio 2012 n. 9 sull’abolizione degli ospedali psichiatrici giudiziari. Si tratta di temi di primario rilievo e di non facile soluzione.
Rispetto ad essi auspichiamo che il legislatore prenda seriamente in considerazione i moniti formulati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 22 del 2022.
Al contrario, l’involuzione rappresentata dalle derive repressive costituite da nuovi ‘pacchetti sicurezza’, dall’inasprimento delle pene per alcuni reati, dai nuovi ostacoli frapposti, con efficacia retroattiva, ai processi di reinserimento per alcune categorie di reati (derivanti ad esempio dall’inserimento nel primo comma dell’art. 4-bis dell’Ordinamento penitenziario di quasi tutti i reati contro la pubblica amministrazione, semplicisticamente parificati ai reati di mafia e di terrorismo ad opera della recente legge 9 gennaio 2019 n. 3 in materia di corruzione), rischiano di relegare ancora una volta il carcere in un mondo chiuso in sé e totalmente impermeabile al contatto con la società civile. Essa allontana dal finalismo che la Costituzione assegna alla pena.
È certamente vero che le pene rispondono anche a esigenze di politica criminale e di difesa sociale. È tuttavia altrettanto vero che la considerazione delle altre funzioni della pena non può essere di portata «tale da autorizzare il pregiudizio della finalità rieducativa espressamente consacrata dalla Costituzione nel contesto dell'istituto della pena. Se la finalizzazione venisse orientata verso quei diversi caratteri, anziché al principio rieducativo, si correrebbe il rischio di strumentalizzare l'individuo per fini generali di politica criminale (prevenzione generale) o di privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di stabilità e sicurezza (difesa sociale), sacrificando il singolo attraverso l'esemplarità della sanzione. è per questo che, in uno stato evoluto, la finalità rieducativa non può essere ritenuta estranea alla legittimazione e alla funzione stesse della pena» (Corte Costituzionale sentenza n. 313 del 1990).
L’Esecutivo di Magistratura democratica
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