Torno dall’ennesima giornata trascorsa con la sensazione di aver lavorato tanto, ma di non aver potuto fare molto. Per il carcere, per la salute dei detenuti, per il raggiungimento di quell’obiettivo che, in quanto magistrato di sorveglianza, la legge mi impone come mission: una pena umana e rispettosa dei diritti fondamentali.
Nella teoria dei giochi la ‘somma zero’ descrive quella situazione per cui un individuo, per guadagnare, deve far perdere all’altro un’utilità uguale e contraria.
È una logica che non si può applicare ai diritti, tanto meno a quello alla salute.
Eppure, è quello a cui assistiamo nel dibattito pubblico con riferimento alla prevenzione e alla cura dal contagio in carcere. Sembra che ogni prospettiva di interesse verso la popolazione detenuta e verso chi lavora in carcere entri in collisione con i diritti delle persone senza macchia sul certificato penale.
Soltanto in quest’ottica fallace si spiega la totale eclissi dei detenuti e del personale che a ogni titolo lavora in carcere dalle priorità del piano vaccini, eclissi giustamente sottolineata anche dal comunicato del Coordinamento Nazionale dei Magistrati di Sorveglianza (vi si trovano importanti considerazioni anche sullo stato degli uffici di sorveglianza).
La storia, l’esperienza e la scienza (è sufficiente far riferimento agli studi e alle testimonianze sulle prigioni americane ai tempi della Spagnola), al contrario, dimostrano che tutelare la salute in carcere significa, oltre che rispettare i principi di umanità e dignità delle pene, tutelare tutti noi.
Le notizie che continuano ad arrivare dagli istituti sono allarmanti. Nell’ultimo ‘punto’ del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (18 dicembre 2020) si dà atto di focolai negli Istituti di Trieste, Milano-Opera, Milano San Vittore, Bollate, Monza, Busto Arsizio, Bologna, Sulmona, Roma-Regina Coeli e Napoli-Secondigliano. Il tasso di positività all’interno delle carceri è spesso superiore a quello esterno. Si sta sgretolando l’illusione, diffusa anche nel dibattito qualificato, del carcere come luogo sicuro. Il contagio (e la morte) è arrivato anche nei reparti 41-bis. Insieme ai titoli di alcuni giornali che, a proposito della morte di un detenuto responsabile di delitti atroci e gravissimi, parlavano del Covid che “stavolta ha visto giusto”.
Nel frattempo, chi ha sempre attaccato la scelta (sacrosanta) di far trasmigrare la sanità penitenziaria dal Ministero della Giustizia al Servizio Sanitario Nazionale ne approfitta per prendersela con la gestione della sanità in carcere, senza accorgersi che a ostacolare la cura della salute di tutti, liberi e detenuti, è stato il sistematico depotenziamento del SSN – sostituito anche a sinistra dai miti del welfare aziendale. Figuriamoci cosa ha voluto dire quella destrutturazione per la quota destinata al carcere. Ad oggi, ancora, significa assenza di dispositivi di protezione a sufficienza e detenuti e personale costretti a comprarsi la mascherina.
I numeri delle presenze (53.856 alla stessa data), intanto, confermano la timidezza degli strumenti deflattivi inseriti nel ‘Decreto Ristori’ e rendono problematico attuare le misure predisposte dall’Amministrazione penitenziaria, quali la creazione di una serie di reparti di isolamento.
Era ed è auspicabile che lo sforzo della magistratura (tutta, di sorveglianza e di cognizione) e dell’Amministrazione nel prevenire e arginare il contagio fosse sostenuto da maggior coraggio politico.
Il legislatore potrebbe fare di più, come suggerito dal medesimo Garante nazionale: estendere a ventiquattro mesi la detenzione domiciliare speciale prevista dal decreto (art. 30), limitare le ipotesi ostative ai soli reati di mafia e terrorismo, favorire una appropriata e bilanciata liberazione anticipata speciale. Al momento il decisore politico si è limitato all’estensione temporale (dal 30 dicembre al 31 gennaio 2021) dei permessi premio e delle licenze straordinarie.
Vi è poi da pensare ai 1157 detenuti che scontano pene irrisorie e che non possono accedere ad alternative al carcere soltanto perché privi di risorse, a partire da un’abitazione.
Si tratta di una condizione di marginalità sociale che è troppo frequente nel carcere e che, al di là delle contingenze, impone di immaginare una penalità diversa e differenziata, a partire dalla struttura dei reati e dalle ipotesi di sanzione per arrivare ai modelli di penitenziario e alle soluzioni alternative alla prigione. Il progetto di Cassa Ammende e quello della Direzione generale dell’Esecuzione Penale Esterna del Dipartimento Misure di Comunità hanno iniziato a farlo, meritando anche la giusta attenzione della Procura Generale della Cassazione.
Rispondere solo con ‘più carcere’ e ‘più carceri’ significherebbe chiudere gli occhi davanti alla realtà, fatta di prigioni che, nonostante lo sforzo di quello che Sandro Margara chiamava il ‘carcere della resistenza’, sono troppo spesso luoghi per immagazzinare corpi, senza realistiche e concrete possibilità di risocializzazione. Un regalo al rancore e una sconfitta per ogni prospettiva di autentica sicurezza sociale, quella basata sull’integrazione e sulla responsabilizzazione.
Su questi temi Magistratura democratica dovrà impegnarsi, insieme a tutta la magistratura progressista. Sono sicuro che su questo non ci divideremo.