Documento per il Congresso

di Esecutivo di Magistratura Democratica

Magistratura, Politica e Media

DOCUMENTO PER IL CONGRESSO

 

Schema dell’articolo che sarà
pubblicato in  Questione Giustizia

(n. 6/2012- Obiettivo- dedicato
al seminario “Magistratura, politica e media”, Napoli, nov. 2012)

 

a cura di Roberto Arata ed Egle
Pilla

 

Magistratura,
Politica e Media. Una riflessione fuori dalla contingenza.

  

Dobbiamo constatare che nel dibattito pubblico
così come in quello interno alla magistratura gli interventi e la discussione sul
tema dei rapporti fra magistratura, politica e media sono rimasti prigionieri
del caso concreto e dell’emergenza. In questo modo è rimasta soffocata una
riflessione seria, capace di condurre ad un punto di vista consapevole e di
giungere, attraverso il confronto delle diverse opinioni, ad una sintesi che
esprimesse il sentire comune della magistratura associata, in generale, e di Magistratura
democratica, in particolare.

 

1.-    Questo
tema “appartiene” al patrimonio genetico del nostro gruppo e questo dibattitto
lo attraversa da sempre in modo particolare, ma è tema che in modo inevitabile tocca
tutti i magistrati, indipendentemente dalle loro posizioni culturali e dalle
loro appartenenze.

D’altronde le reazioni alle ultime vicende connesse alle indagini sulla
“trattativa Stato/ mafia”, al comunicato dell’esecutivo di Md del 19 settembre
2012, al moltiplicarsi delle candidature di
magistrati chiamati nella contesa politica proprio perchè divenuti personaggi
pubblici per effetto dell’attività giudiziaria svolta dimostrano, una
volta di più, l’urgenza di affrontare e confrontare le opinioni, anche
profondamente diverse, che albergano nel nostro gruppo.

Non vi è dubbio che uno dei tratti
fondanti di Magistratura democratica sia la rivendicazione del pieno coinvolgimento
“nell’agire sociale” del magistrato.

Occorre, tuttavia, muovere da un dato di
realtà non seriamente contestabile: la tradizionale posizione di Magistratura Democratica,
secondo cui non può essere imposto alcun vincolo o preclusione al magistrato in
ordine alla libera manifestazione del proprio pensiero politico, anche
nell’ambito di manifestazioni promosse dalle organizzazioni
partitiche, deve misurarsi con la constatazione che la magistratura, negli
ultimi vent’anni, ha dimostrato la capacità di incidere in modo penetrante ed
incisivo sulla criminalità politica e di affrontare un
alto numero
di indagini e processi che vedono protagonista il
mondo della politica, con il coinvolgimento -in modo trasversale- di rappresentanti
anche illustri dei più diversi schieramenti.

A ciò si
aggiunga che, nello stesso arco di tempo, è cambiato radicalmente anche il
mondo della comunicazione, e con esso il modo con cui vengono fornite
l’informazione sulla giustizia e la rappresentazione della magistratura e del
suo lavoro: l’uso sempre più disinvolto dei mezzi di comunicazione, il fenomeno
dei processi mediatici svolti in parallelo a quelli reali, la tendenza a
sovraesporre talune figure di magistrato, impongono la necessità di ripensare il
rapporto con i media e di trovare strumenti per veicolare informazioni corrette
sulla nostra attività.

 

2.-        Quando Magistratura
Democratica è nata, molte cose erano diverse.

Era diversa la magistratura:
inefficiente, burocratica, strutturalmente ed ideologicamente vicina alle
classi dominanti, con un’azione spesso funzionale agli obiettivi del potere
politico.

Ma anche la società era profondamente
diversa: una società in fermento, portatrice di istanze di eguaglianza,
libertà, giustizia sociale: in quel contesto, l’azione del magistrato si
inseriva in una voglia organizzata e collettiva di cambiamento, e si
caratterizzava soprattutto per ciò che rappresentava all’esterno, per gli
squarci di verità che riusciva a mostrare, per i “fatti” che era in grado di
rivelare alla società.

E proprio in
quel periodo nasceva una delle grandi eresie di Magistratura democratica: la
“scoperta” della forza dirompente della Costituzione e della sua capacità di
incidere sull’intera legislazione e, con essa, il superamento dell’idea della
legge come limite ultimo e invalicabile, e dunque del mito positivistico del
sistema autosufficiente.

L’interpretazione,
ora “costituzionalmente orientata”, mutava così la sua essenza da momento meramente
ricognitivo a scelta responsabile, e rendeva palese le caratteristiche di
legittima politicità  della pronuncia del
giudice.

Del resto la
nascita della Corte costituzionale come istituzione era frutto di una scelta,
che rivelava la consapevolezza dell’alto tasso di politicità racchiuso nella
decisione del giudice: per questa ragione, infatti, era stato deciso di non
lasciare al giudice di merito o al giudice di legittimità la valutazione di
conformità costituzionale della norma e di affidarla ad un organismo che non
esisteva e che doveva essere creato.

Le scoperte e
le battaglie di demistificazione di quegli anni hanno consentito alla
magistratura tutta di cambiare e
alcune eresie di allora appartengono al patrimonio comune e al comune
sentire  della magistratura dell’oggi.

Soprattutto  nell’ultimo decennio del
secolo scorso, la magistratura come istituzione è stata vissuta dall’opinione
pubblica, per la sua azione incisiva, come baluardo a tutela della democrazia,
dei valori costituzionali, dell’eguaglianza di tutti davanti alle regole, come
strumento di garanzia per gli ultimi, per coloro che non hanno (altra) voce.

Nel 1994 Nello
Rossi efficacemente osservava come in una democrazia “maggioritaria”, in cui
grande è il rischio di una “flessibilizzazione” della Costituzione e della
piena disponibilità in capo alla maggioranza dei diritti sociali fondamentali e
ampio è il potere di normazione affidato all’esecutivo, diventa decisiva la
funzione “politica” della giurisdizione, quale tutela dello status e dei diritti delle minoranze e
quale polo di una continua dialettica istituzionale con il potere di
maggioranza, capace di controbilanciare, con lo strumento del controllo di
legalità, poteri forti non altrimenti controllabili.

In questo
nuovo scenario, se per un verso è ancora più importante che in passato la
partecipazione dei magistrati alla vita politica e sociale del paese, appare,
però, sempre meno opportuna l’adesione formale di un magistrato ad un partito o
ad un movimento organizzato, perché la tensione dialettica nei confronti del
potere politico di maggioranza richiede, come ricordava Marco Ramat, una
effettiva estraneità e lontananza dei magistrati rispetto a quest’ultimo.

 

3.-   Tutto
ciò ci ha spinto a reinterrogarci sull’idea che ciascuno di noi aveva
maturato circa i rapporti tra magistratura e politica, e a chiederci
se non debbano essere ripensati e aggiornati i parametri ed i limiti da
osservare nella nostra comunicazione con l’esterno.

Se è chiaro che la politica é arte nobile e strumento
indispensabile del vivere civile, ci siamo chiesti
se sia (ancora) opportuno che un magistrato 
partecipi ad iniziative di partito, stringa rapporti di amicizia e condivisione
con esponenti politici, manifesti in modo aperto, in contesti marcatamente
politici, le proprie convinzioni, magari sfruttando, anche involontariamente,
un patrimonio di conoscenze acquisito nell’espletamento del proprio lavoro (come può accadere quando, mediante una legittima attività di intercettazione delle conversazioni di esponenti
del mondo politico non destinate a diventare pubbliche, sia venuto a conoscenza
di aspetti sensibili e non pubblici della vita “politica” ma anche personale di
quelle stesse persone che, qualche mese dopo, “decidendo di scendere in
politica”, incontra in campagna elettorale come avversario per un seggio in
parlamento o negli organi di governo locale); ci siamo chiesti sia preferibile, al contrario, che egli, potendo
essere chiamato, in un futuro più o meno prossimo, a conoscere e
decidere di comportamenti penalmente rilevanti attribuiti ad uomini di partito,
si astenga da siffatte attività; ci è sembrato necessario chiederci se è
opportuno che un magistrato scenda come contendente in quello stesso agone
politico che fino a qualche mese prima aveva “controllato”; ci è sembrato
indispensabile ascoltare davvero il punto di vista “esterno” per riuscire a
capire cosa pensino e cosa si aspettano da noi, oggi, i non magistrati.

 

4.- 
  Siamo convinti che queste
domande possano trovare risposte migliori ascoltando l’opinione anche di
persone esterne alla magistratura. Abbiamo così lanciato un “forum” di
discussione sul nuovo sito di Magistratura democratica, aperto al contributo di
tutti e coordinato dall’esecutivo.

Il forum ha
raccolto circa quaranta interventi: contributi non solo di magistrati, ma anche
di “non magistrati” che, incuriositi, hanno espresso il loro pensiero,
ringraziando Magistratura democratica per ‘il
gradevole esempio di democrazia’
.

Ascoltare la ‘società civile’, aprirsi ad essa, è
stata per noi una sfida stimolante; cercare di comprendere come siamo visti ‘dall’esterno’ un’esperienza nuova. Siamo
consapevoli che coloro che hanno aderito al forum non rappresentano il sentire
di tutti, e tuttavia costituiscono un ‘altro da noi’, e le loro osservazioni ci
sono apparse preziose per considerazioni e spunti critici.   

 

5.-     
 Due, sostanzialmente, le
prospettive offerte alla riflessione.

La prima.
La debolezza della politica richiede un maggiore intervento delle intelligenze e
delle professionalità che appartengono ad altri settori: una politica debole
chiede, in qualche modo, ai magistrati di essere più presenti nel dibattito
pubblico, di  partecipare alla vita
politica attiva del Paese e di  diventare 
protagonisti, prestando e trasferendo alla politica intelligenze ed
energie.  

La seconda.
La politica attuale è politica di contrapposizione tra gruppi, che si
confrontano con durezza e senza dialogo: in questo mondo non c’è spazio per un magistrato,
perché una politica di pura contrapposizione rappresenta l’esatto contrario di
quell’insieme di approfondimento, riflessione ed  indipendenza, che deve caratterizzare l’approccio
del magistrato.

 

6.-   
  Le sollecitazioni giunte
attraverso il forum sono state riprese nel corso del convegno svoltosi a
novembre 2012 a Napoli.

In tale sede è
stata, con forza e unanimemente, rivendicata l’intrinseca politicità
dell’attività giurisdizionale, espressione che certamente non significa
politicità della magistratura, ma politicità dell’azione giudiziaria, che opera
inevitabilmente delle scelte di valori.

La neutralità
della giurisdizione (il giudice “bocca della legge”) è un mito ottuso, che nega
l’effettività dei valori costituzionali e il loro prevalere sulle norme di
rango inferiore.

L’azione dei
magistrati costituzionalmente orientata ha determinato l’insofferenza della
classe politica, del Parlamento e dei partiti di maggioranza all’operato della
magistratura, proprio perché esso si traduce nel controllo di legalità e nella promozione
e realizzazione dei diritti costituzionali.

E, invece,
nello Stato di diritto le assemblee parlamentari, espressione della volontà
popolare, convivono su un piano di pari dignità con una magistratura
indipendente, garante dell’attuazione dei principi costituzionali: ciò consente
di superare l’antinomia, solo apparente, fra una magistratura che è politicamente
indipendente (dai poteri dello Stato) e che, allo stesso tempo, svolge con la
propria attività professionale un’azione politicamente rilevante.

Si è più volte
richiamata, al riguardo, la straordinaria e ancora attuale intuizione di Pino
Borrè  allorquando parlava di
politicità/indipendenza e quando sottolineava che l’essere indipendente della
magistratura non la collocava in un altro universo che si pretenderebbe
apolitico, ma la rendeva un autonomo rilevante momento del sistema politico.

 

7.-    
  E’ emersa, tuttavia, nel
dibattito, anche l’esigenza di “attualizzare” le elaborazioni fatte da Magistratura
democratica perché, oggi, non tutte forniscono strumenti in grado di
interpretare una realtà che è cambiata e cambia rapidamente. Ed è stata sottolineata
l’esigenza di tenere ben distinti i diversi piani della politicità della
giurisdizione, dell’impegno ‘politico’ del magistrato e dell’impegno ‘in
politica’ del magistrato.

In particolare, per quanto concerne l’impegno ‘politico’ del
magistrato, è stato unanimemente riaffermato che la partecipazione al dibattito
politico da parte del magistrato non incide sulla sua indipendenza, ma è stato anche
sottolineato il senso di responsabilità che deve ispirare il magistrato in
occasione dei suoi interventi pubblici. Il magistrato, infatti, é un “cittadino
qualificato” e ogni suo intervento deve svolgersi nei limiti di equilibrio e
continenza, con esclusione di commenti pubblici su vicende la cui conoscenza
proviene dalla sua personale attività giudiziaria.

Il diverso tema dell’impegno in politica del magistrato risente
della mutata sensibilità sociale: l’opinione emersa è che occorra elaborare
strumenti per garantire un’effettiva e visibile separazione tra l’esercizio
dell’attività giurisdizionale e l’esperienza politica (ad esempio, il divieto
di candidarsi nel luogo ove si è esercitata la funzione, il divieto di fare
rientro nei medesimi uffici, ecc,).      

Il dibattito ha quindi toccato un’eventuale disciplina ‘del
magistrato in politica’, che si potrebbe caratterizzare per limitazioni
all’ingresso dei magistrati in politica attiva e limitazioni al rientro del
magistrato alla conclusione degli impegni di politica attiva: tali limitazioni
sono state ritenute legittime e opportune ed anzi necessarie, purché in linea
con la Costituzione che, come ha ribadito la Consulta, impone di ritenere
inviolabili i diritti di elettorato ed eccezionale la introduzione di limiti,
che possono giustificarsi solo se necessari e ragionevolmente proporzionati.

Il punto di
equilibrio potrebbe essere raggiunto attraverso la previsione di un obbligo di
un distacco temporale o territoriale tra l’esercizio di funzioni giudiziarie e
l’impegno politico, adeguato a salvaguardare, da una parte, i diritti
elettorali del magistrato e dall’altra la giurisdizione medesima  da possibili conflitti d’interesse.

Sul tema dell’irreversibilità
dell’impegno del magistrato, interessanti sono risultate le sollecitazioni del
forum, laddove qualche voce ha ritenuto che essa sia il logico precipitato
della intrinseca politicità della giurisdizione.

Diverse sono,
invece, state le conclusioni offerte dal dibattito, fortemente critiche
rispetto al disegno di legge che prevede il divieto di riammissione nei ruoli
della magistratura ordinaria e il collocamento presso altri ruoli del
magistrato al termine del mandato elettorale. Si sono infatti evidenziati dubbi
di legittimità costituzionale (art.51,co.3, Cost.), anche alla luce della sentenza
n.172/82, con la quale la Corte
Costituzionale, occupandosi della norma sui limiti
territoriali per il rientro del magistrato non eletto, ha affermato che il
diritto alla partecipazione alla vita politica appartiene indubbiamente anche
al magistrato e che limiti al rientro, se ragionevoli, sono legittimi.

 

8.-   
  Una riflessione seria sulla presenza
e sull’agire nella società del magistrato e sui suoi rapporti con la politica investe
anche le modalità di relazionarsi con il mondo dell’informazione.

E’ ormai
acquisita, anche tra i magistrati, la piena consapevolezza sia della grande rilevanza
delle proprie scelte comunicative sia della pretesa dell’opinione pubblica di
conoscere le notizie relative ad iniziative giudiziarie in momenti sempre più
anticipati rispetto alla celebrazione del processo, sia della conseguente
tendenza dei media a sovraesporre alcune figure di magistrato sia della urgente
necessità di trovare strumenti per evitare la distorsione e la mistificazione
della vicenda processuale nella divulgazione mediatica.

La
magistratura si muove nello spazio delimitato da due principi fondamentali: la
pubblicità del processo, che nasce come garanzia di controllo dell’opinione
pubblica sull’azione giudiziaria, e il dogma della riservatezza del singolo
magistrato, inteso dalla politica, ma anche dall’opinione pubblica, in termini
sempre più assoluti fino a chiederci di “star
lontano dai giornalisti
” e di “parlare
solo con le sentenze
”.

Ma, nell’era
della comunicazione globale, processo pubblico significa processo mediatico e
spesso il fondamentale principio della pubblicità del processo
involontariamente genera, grazie alle potenzialità e all’uso sempre più
disinvolto dei mezzi di comunicazione, fenomeni inaccettabili, come quello dei processi
mediatici svolti in parallelo ai processi veri, quello della trasmissione in
diretta o in leggera differita di intere udienze con inevitabili ricadute sulla
genuinità delle dichiarazioni rese da altri testi nelle successive udienze ecc..

Si tratta di
fenomeni che suscitano nell’opinione pubblica, e persino in noi, nostalgie di
segretezza: e così spuntano riforme normative che impongono divieti ai
magistrati di parlare e divieti ai giornalisti di informare sulle indagini.  

 

9.- 
  Dobbiamo, dunque, essere
consapevoli di muoverci sul filo del duplice rischio di scivolare nello
spettacolo di un’informazione non aderente alla realtà o nella censura di fatto.

E allora
dobbiamo ancora riflettere insieme e confrontarci sia sull’incidenza nel
pensiero collettivo della rappresentazione che i media forniscono della
magistratura e del suo lavoro sia, 
specificamente, sul rapporto tra magistrati e media e sulla necessità di
trovare strumenti per veicolare informazioni corrette sulla nostra attività
senza venire coinvolti nella spettacolarizzazione e nella personalizzazione
della giustizia.

Sotto questo
profilo, siamo convinti che un rapporto fisiologico fra magistrato e
giornalista debba essere di dialogo ma anche di distanza, perché il magistrato
che sposa la stampa nella convinzione di “utilizzarla” non solo sbaglia
concettualmente, ma si illude, in quanto non riesce a “controllare” ciò che
comunica, né nelle modalità né negli effetti.

Non si tratta,
ovviamente, di demonizzare l’informazione o di considerarla pericolosa o
deviante: al contrario, l’informazione è soprattutto strumento di democrazia e
di trasparenza ed i magistrati, con  i
loro comportamenti, debbono aiutarla a rimanere tale.

 

Roberto Arata

Egle Pilla

21/01/2013

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