DOCUMENTO PER IL
CONGRESSO DEL GRUPPO DI LAVORO
DIRITTO PENALE, PENA, CARCERE
Coordinatore: Francesco
Gianfrotta
Con il contributo di:
Francesco Cascini; Marcello Bortolato; Luca Poniz
MENO
CARCERE.QUALE CARCERE?
1-
La questione carceri: non solo
sovraffollamento. L’assenza della politica.
65701 persone ristrette nelle carceri
italiane alla data del 31 dicembre del 2012, a fronte di una capienza
regolamentare di 47040 posti[1].
Sono le cifre che descrivono il sovraffollamento dei nostri istituti di
pena: emergenza nazionale finalmente
impostasi all’attenzione generale –dunque, anche della politica– in seguito agli
autorevoli interventi di alcune tra le
massime Autorità dello Stato, dopo che –per lungo tempo- non era stato
così. Ciò non deve stupire. Il carcere, da sempre, è un tema che non appassiona
se non poche persone, da ricercare soprattutto tra gli addetti ai lavori e tra
coloro che vi si dedicano come volontari. Il ceto politico, in passato, se ne è
occupato solo quando non ha potuto farne
a meno (in presenza di eventi critici quali disordini e clamorose
evasioni), e quasi mai essendo ispirato da un organico e coerente disegno
riformatore. La società libera, in gran parte, continua ad operare nei
confronti del carcere una vera e propria rimozione: giacché fare i conti con il
carcere significa misurarsi con questioni complesse che chiamano in causa e possono mettere in crisi le idee
(certezze?) che ciascuno di noi ha sulla
giustizia penale, sulla sicurezza, sugli obiettivi che l’intero sistema penale
dovrebbe realizzare non in un mondo di là da venire, ma qui ed ora.
Eppure, anche a volersi rifugiare nelle
tranquille semplificazioni garantite dal pensiero dominante, che riduce il tutto ad una esigenza di
sicurezza; anche dandosi carico della valenza democratica di tale
esigenza, che esprime un bisogno diffuso tra tutti gli strati sociali;
basterebbe non trascurare le esperienze di molti paesi, che dimostrano che la
sicurezza sempre meno può derivare da politiche centrate esclusivamente sulla
carcerizzazione, e non anche da un sapiente mix di repressione penale ed
inclusione sociale. Non può stupire più di tanto, allora, il fatto che,
nell’indifferenza quasi generale, del sovraffollamento carcerario si parli da
più di 10 anni e che esso nell’ultimo
decennio (salvo due brevi parentesi, in coincidenza con indultino e indulto) sia stato crescente. E’
la dimostrazione che sulla più evidente
manifestazione della questione carceri
la politica è stata assente e
gran parte della società ha preferito voltare la faccia e non vedere.
Dunque,
c’è un primo obiettivo che si impone ai giuristi e, in generale,
a chi ha a cuore la dignità e la funzionalità di una parte importante del
nostro sistema penale: costruire una nuova rete di alleanze affinché la politica
–che porta la principale
responsabilità di tutto ciò- sia “costretta” ad affrontare e risolvere
criticità intollerabili ed a mettere mano, finalmente, ad un processo
riformatore. Non foss’altro che per il sovraffollamento, la riforma del nostro
sistema carcerario ci viene chiesta anche da organismi internazionali, che non
hanno esitato a criticare e condannare più volteil nostro paese per le
condizioni di vita negli istituti di pena, di recente denunciate dalla
CEDU con accenti definiti “mortificanti” dal Capo dello Stato. Giunti a questo punto, non c’è più tempo da
perdere: occorre intervenire subito, in profondità e con forte determinazione.
2- Essere e dover essere della pena detentiva e della
custodia cautelare.
Non è difficile stabilire quale debba
essere la stella polare della possibile riforma delle carceri. Nella
nostra Costituzione e nella legislazione
processuale si trovano le coordinate fondamentali cui essa dovrà
ispirarsi.
Se le pene devono tendere alla
rieducazione del condannato, come impone l’art. 27 della nostra Carta
costituzionale, esse –a partire da quelle detentive- devono essere mezzi rispetto
ad un fine. Se le pene non debbono risolversi in trattamenti contrari al
senso di umanità, legislatore ed amministrazione penitenziaria debbono
assicurare che la loro esecuzione non si svolga, in nessun caso e per nessuna
ragione, in condizioni che si risolvano
nella mortificazione della dignità dei ristretti, come purtroppo accade sovente
nella realtà dei nostri istituti di pena e come è univocamente attestato
dall’alto numero dei suicidi anche solo tentati e degli atti di autolesionismo.
La pena detentiva deve essere, perciò, utile (quindi, non fine a se
stessa) e priva di aspetti che costituiscano sofferenze aggiuntive –come tali,
ingiustificate- alla perdita della libertà. E la custodia cautelare, per essere
davvero extrema ratio, deve essere giustificata da esigenze eccezionali delle
quali il giudice deve dare conto nella motivazione del suo provvedimento che la
applichi. Il perimetro della legalità delle ipotesi di perdita della libertà personale è, quindi,
in primo luogo nella nostra legge fondamentale che, anche in questo settore,
mostra la sua attualità ed incompiutezza, e chiama in causa tutti i poteri
dello Stato per un profondo cambiamento, che valga a restituire civiltà
e credibilità al nostro sistema di esecuzione delle pene e delle cautele
processuali. Un cambiamento che la situazione attuale ha reso urgente e da
realizzare su più piani.
3-
La necessaria riforma del sistema penale: ovvero, meno carcere e più
alternative al carcere.
Non può essere utile una pena
detentiva non strettamente necessaria come risposta al reato, e neppure una
pena scontata in condizioni che –di
fatto- non garantiscano alcun serio percorso rieducativo. Cosi come non può
dirsi legittima una custodia cautelare in carcere che non sia, per
eccesso, adeguata e proporzionata alle
esigenze cautelari che essa dovrebbe garantire.
Qui trova fondamento il rilievo che la riforma del nostro sistema
penitenziario è impensabile al di fuori di una più vasta prospettiva
riformatrice che, in primo luogo, riguardi il catalogo dei reati e quello delle
pene.
Non è scontato che, oggi, un progetto di
depenalizzazione, incidendo su fattispecie che generano molte delle condanne a
pene detentive, abbia prospettive di risultati tali da ridurre sensibilmente,
subito, il numero delle presenze e, in
prospettiva il flusso degli ingressi. Certamente la materia della disciplina
degli stupefacenti merita una riflessione a tutto campo, non influenzata
dall’ideologia, volta a verificare la possibilità di una più netta distinzione
tra le ipotesi di consumo (prive di rilevanza penale) e quelle di cessione
delle sostanze. Si tratta in primo luogo di cancellare gli effetti più
irragionevoli della legge cd. “Fini-Giovanardi” , ed in particolare l’equiparazione, sul piano sanzionatorio, tra droghe cd. “leggere” e droghe “pesanti”.
Più realistica ed efficace – oltre che
irrinunciabile – si presenta, invece, la prospettiva della abrogazione della
legge ex-Cirielli, all’origine
dell’aumento generalizzato delle sanzioni previsto per i recidivi, in
conseguenza delle rigidità nelle
previsioni e dei divieti nel bilanciamento con le circostanze attenuanti. Ed
altrettanto irrinunciabile è l’abrogazione dei divieti di applicazione delle
misure alternative alla detenzione previsti per i condannati per numerose
categorie di reati, stante l’attuale formulazione dell’art. 4 bis
dell’ordinamento penitenziario: non senza sottolineare che quelle enunciate
sono solo alcune delle previsioni normative succedutesi negli ultimi anni, alimentate
dalla torsione securitaria impostasi nella legislazione penale, che –tra
l’altro- ha in gran parte svuotato di significato il ruolo della giurisdizione.
Al riguardo, non resta che fare richiamo alla ampia relazione della Commissione
mista -operante in seno al CSM- per lo studio dei problemi della magistratura
di sorveglianza, ricca di specifiche proposte di interventi normativi, ispirate
dal condivisibile obiettivo di ridurre il numero dei detenuti, di rendere
effettiva e rafforzare la tutela dei
loro diritti e di valorizzare il ruolo della giurisdizione: nella fase della
cognizione (compresa in essa la fase cautelare), come in quella della
esecuzione, fino alle competenze della magistratura della sorveglianza.
Parimente urgente si presenta la rivisitazione
del catalogo delle pene. I magistrati e gli operatori penitenziari sono ben
consapevoli che, nella stragrande maggioranza dei casi, le sanzioni detentive
inflitte con una sentenza di condanna non saranno utili: non rispondendo
al modello costituzionale, non varranno ad evitare la recidiva. Per contro, le
statistiche dimostrano, da anni, che il tasso di recidiva dei soggetti che
accedono a misure alternative alla detenzione è di gran lunga più basso di
quello di coloro che scontano tutta la pena inflitta in carcere[2].
La strada appare, pertanto, segnata dall’esperienza, che solo il pregiudizio
figlio dell’ossessione securitaria può ignorare. Le pene detentive brevi, che
pure sono quelle che alimentano in modo rilevante le presenze negli istituti,
difficilmente si rivelano utili: modesta e ineluttabilmente inefficace
è, in tali casi, l’offerta trattamentale, il che non può che accrescere le
probabilità della recidiva.
Occorre, allora, restituire razionalità
al sistema, oggi ruotante intorno alla pena detentiva e/o pecuniaria, e
sbilanciato per eccesso di rigore nei confronti dei recidivi. Ciò può
avvenire costruendo un sistema di pene
alternative al carcere (ad esempio, con funzione di riparazione sociale),
prevedendo pene interdittive e ipotesi
di sospensione della esecuzione della pena di ampia portata. Anche su questo
versante, non si è all’anno zero. La cultura giuridica non ha fatto mancare il
suo apporto. Commissioni di riforma istituite nelle precedenti legislature e
che, per giudizio larghissimamente condiviso, bene operarono, produssero testi
rimasti nei cassetti del Ministero della Giustizia che ben potrebbero essere,
quanto meno, punti di partenza per il rilancio di una stagione riformatrice
destinata ad approdi positivi in tempi relativamente ravvicinati.
Ma c’è un aspetto sul quale è più che
mai necessaria la massima chiarezza, pena il fallimento certo di qualsiasi
intervento di riforma. Puntare sulle alternative al carcere presuppone la piena
consapevolezza del rapporto tra devianza e contesto sociale: vuol dire darsi
carico della fondamentale questione costituita da chi va in carcere e perché[3].
Tema antico, ben presente alla pubblicistica in materia fin dagli anni ’70, e
fin da allora anche a magistrati di
sorveglianza che hanno scritto pezzi della storia di Md grazie alla loro sensibilità culturale ed umana ed
al loro impegno civile, oltre che a tanti operatori penitenziari: gli uni e gli
altri giornalmente costretti ad apprezzare –allora come ora- il carcere in
Italia anzitutto come discarica sociale. Un esempio per tutti: nessun probation,
per timido o coraggioso che possa essere, potrà dare buona prova se si sarà
risolto nell’abbandono del soggetto a se stesso. Nessuna pena alternativa potrà
risultare utile in assenza di una rete di sostegno che solo il
territorio, nelle sue articolazioni di soggetti pubblici e privati, può mettere
in campo: non con mero spirito di assistenza, ma per la scelta mirata al
recupero di energie umane, che –se sottratte ai diversi circuiti
dell’illegalità- potrebbero essere impiegate in progetti oggettivamente utili
per la comunità. Dunque, se la riforma del carcere è indissolubilmente legata alla riforma del
sistema penale, questa –a sua volta- non può non coinvolgere, insieme allo Stato,
privato sociale e soggetti pubblici. In difetto, possono fin d’ora prevedersi
crisi di rigetto in presenza di cattivo funzionamento di istituti giuridici
nuovi, anticamera di controriforme e di carceri destinate ben resto a
sovraffollarsi: come e più di prima; come è accaduto anche dopo l’indulto del
2006; e sempre con la forte connotazione
di classe che a ciò si accompagnerebbe.
D’altra parte, anche l’affermazione
secondo la quale nelle nostre carceri i detenuti in attesa di giudizio sono
troppi[4]
merita approfondimenti che possono offrire spunti per ulteriori riflessioni.
Il giudizio è senz’altro condivisibile e
dimostra non tanto il ricorso eccessivo alla custodia cautelare (tesi che –per
essere seriamente sostenuta- presupporrebbe analisi serie ed approfondite, più
che semplificazioni che hanno il sapore della propaganda) quanto la crisi del
processo penale, per i tempi lunghi che esso mediamente richiede perché si
giunga ad una sentenza definitiva. Mediamente: giacché se la percentuale dei
detenuti non condannati definitivamente (compresi, dunque, in essi anche quelli
che hanno avuto condanna in appello) la si rapporta con i dati statistici
relativi ai titoli di reato più “presenti” nelle nostre carceri, emerge che il
processo penale ha davvero due velocità, risultando tutt’altro che lungo per i
soggetti marginali, colpevoli dei tipici reati della c.d. microcriminalità.
4-
Il ruolo e le responsabilità dell’amministrazione penitenziaria
Il piano della legislazione, che chiama
in causa la politica, e quello delle linee giurisprudenziali, che chiama
in causa l’autogoverno per le sue competenze in materia di formazione, non
esauriscono, peraltro, l’ambito delle responsabilità di chi dovrà operare
affinché la questione carceraria, a partire dell’emergenza del
sovraffollamento, sia avviata a soluzione.
Le condizioni materiali di vita, del tutto intollerabili, alle quali
sono oggi costretti i detenuti dipendono anche da scelte che, come gli
operatori sanno, chiamano in causa –almeno in parte- l’amministrazione
penitenziaria.
Tre, in particolare, appaiono gli ambiti
che reclamano un netto cambiamento di passo da parte di quest’ultima: in primo
luogo, il trattamento dei detenuti e le opportunità di lavoro per i medesimi;
in secondo luogo, il settore dell’esecuzione penale esterna; infine, l’edilizia
penitenziaria. Si tratta di settori che richiedono investimenti di risorse
materiali ed umane ben maggiori di quelle attuali (e, comunque, aggiuntive) e
qualificate. In difetto, è improbabile che la pena possa divenire utile,
il tempo detentivo essendo destinato a scorrere nell’ozio, in ambienti
insufficienti, e senza l’avvio di percorsi di uscita dalla devianza che solo
professionalità specifiche ed adeguate sarebbero in grado di proporre ed
accompagnare. Né migliore sorte potrebbe
essere riservata all’esecuzione penale esterna, che già oggi vede in calo il
numero dei soggetti presi in carico, e la cui definitiva e non più rinviabile
legittimazione come forma di esecuzione della pena passa per la sua generale
riqualificazione. E quanto all’edilizia penitenziaria, non può essere solo
l’aumento della capienza disponibile l’obiettivo di vecchi o nuovi piani.
Tralasciando la questione (invero non più attuale, viste le decisioni già
assunte in passato) sulla congruità della scelta di costruire nuovi istituti quale
rimedio al sovraffollamento (a tutt’oggi, per responsabilità di chi ha
governato nello scorso decennio, rimedio ritenuto prevalente se non unico), si
pongono, invece, all’amministrazione penitenziaria –qui e ora- due obiettivi
irrinunciabili: il più sollecito recupero della capienza già disponibile,
troppo spesso ostacolato da interminabili ristrutturazioni; nuovi modelli di
ambienti detentivi, nei quali sia possibile –almeno per i detenuti non
classificati, e con più ridotto impiego del personale addetto alla
sorveglianza- trascorrere la gran parte del tempo fuori delle camere di
detenzione, svolgendo attività di formazione, studio o lavoro. Non mancano in ambito ministeriale, anche su
questo punto, studi e progetti: è, dunque, il momento di mettervi mano ed
avviarne la realizzazione, non impossibile se l’amministrazione sarà sostenuta
da una consonante volontà della politica. Appare chiaro, in ogni caso,
che il problema non è solo quello di garantire un numero di posti letto
adeguato al numero degli ospiti; si tratta piuttosto di avviare una decisa
inversione di tendenza sui modelli organizzativi che caratterizzano la
detenzione. Si tratta, in questo caso, non di modificare la legge ma di
attuarla.La territorialità nella
esecuzione della pena, la distinzione tra persone in attesa di giudizio e
persone condannate, il diritto alla salute, le condizioni di detenzione, la
differenziazione dei modelli di intervento, devono costituire una battaglia
politica per l’affermazione della legalità.
Affermare la legalità significa,
peraltro, garantire i diritti dei detenuti e renderne effettiva la tutela: ad
esempio, attribuendo efficacia esecutiva
ai provvedimenti emessi dalla magistratura di sorveglianza sui reclami dei
detenuti per violazione dei diritti.
Il numero dei suicidi, delle violenze,
dei gesti di autolesionismo rende
evidente il gravissimo disagio della popolazione detenuta e nel suo insieme la
drammaticità della condizione carceraria: una ragione di più per farsi carico
da subito della riforma strutturale del sistema.
5-
Una proposta razionale e coraggiosa.
La riforma del nostro sistema
penitenziario, richiedendo interventi su più piani, realisticamente, non potrà
realizzarsi senza un certo gradualismo.
E tuttavia il doveroso rispetto della
dignità umana, costituendo una delle coordinate costituzionali della riforma
del nostro sistema penitenziario, volta a tenere ferma solo la pena che sia utile
(dunque: non più carcere comunque; ma meno carcere), induce a
considerare con favore ed a ritenere realizzabile da subito la proposta del
cosiddetto numero chiuso degli ingressi. Formula, questa,
prevedibilmente destinata a suscitare pregiudiziali reazioni di rigetto, e che
–non foss’altro per questo- pare opportuno sostituire con quella, aderente al
merito della proposta, di rinvio obbligatorio della esecuzione della pena nei casi in cui essa si svolgerebbe in
condizioni tali da non garantire il rispetto della dignità dei condannati. Si
tratterebbe, in sostanza, di dilazionare gli ingressi in carcere dei condannati
che siano liberi al momento del passaggio in giudicato della sentenza, tutte le
volte che l’esecuzione debba avvenire in istituti nei quali la capienza
regolamentare sia già esaurita. La lista di attesa che dovrebbe seguire per la
programmazione dei successivi ingressi, da scaglionarsi in concomitanza con il
recupero di posti disponibili, potrebbe
accompagnarsi, ove necessario (ad esempio, per la pericolosità del soggetto o
altri motivi da prevedersi normativamente), all’ordine, emesso dall’Autorità
Giudiziaria, di dare immediato inizio all’esecuzione nella forma della
detenzione domiciliare. Ulteriore previsione, volta a mitigare l’automatismo
del nuovo sistema di regole, potrebbe essere quella che tende ad escludere
dalla loro applicazione determinate categorie di reati e i condannati che
debbano espiare una pena superiore ad auna determinata soglia.
Lungi dall’essere una ipotesi ispirata
da perniciosa permissività, la proposta si presenta come una razionale
risposta, parziale ma non per questo da scartare a priori, ad una emergenza non
più tollerabile, in minima parte attenuata dalle leggi cosiddette
“svuotacarceri” entrate in vigore nel 2010 e 2011, avente effetto –a differenza
di provvedimenti indulgenziali, mai accettati socialmente- sul flusso degli
ingressi. Non è un caso che precedenti in tal senso si annoverino
nell’esperienza di paesi (USA e Repubblica Federale Tedesca) non sospettabili
di insensibilità alle esigenze di sicurezza e di effettività del rispetto delle
regole.
NOTE:
[1]
Le cifre, al pari di quelle che seguiranno,
sono riportate sul sito internet del Ministero della Giustizia.
[2] Si
legge a pag. 8 della relazione della Commissione mista per lo studio dei
problemi della magistratura di sorveglianza che il tasso di recidiva riferito
ai condannati che espiano la pena in carcere è del 68,4%, mentre per coloro che
hanno fruito di misure alternative esso è del 19%.
[3]
I detenuti stranieri presenti alla data del 31-12-12 erano 23492
[4]
Alla data del 31-12-12 i detenuti
imputati (compresi, tra questi, gli appellanti e i ricorrenti) erano 25696; i
condannati con sentenza definitiva erano 38656.