Perchè rileggere
Dare la vita. L’ultimo libro di Michela Murgia sul senso della genitorialità e dei legami.
Eravamo noi a fare e disfare leggi, unendo in un’unica carta, in
unico logu, quello che gli altri morivano per dividere.
“Dare la vita”, uscito postumo il 9 gennaio di quest’anno, è l’ultimo libro di Michela Murgia, scritto nelle ultime settimane prima della sua scomparsa avvenuta il 10 agosto 2023.
Ogni poesia è una petizione, qualcuno ha detto. E questo pamphlet racchiude nella sua pura essenzialità la luce di entrambe: la concentrazione non ulteriormente riducibile di una poesia e l’efficacia retorica di una petizione che parla alla politica e al diritto.
“Dare la vita” non è (solo) un libro sulla gravidanza surrogata, come molti si aspettavano, ma sulla questione, molto più complessa, della maternità d’intenzione.
La riflessione sul senso della maternità è sempre stata al centro del lavoro di Murgia ed è esponenzialmente cresciuta negli anni parallelamente al suo pensiero, facendone la struttura dinamica nella quale questo è vissuto e si è sviluppato.
Quella della maternità d’intenzione è la questione politica per eccellenza perché la costruzione della maternità normativa è stata ed è tuttora il principale strumento di saldatura e di mantenimento della struttura oppressiva delle società.
“La nozione di oppressione è in fondo una stupidaggine… e a maggior ragione la nozione di classe oppressiva. Si può solo parlare di una struttura oppressiva della società”, scrisse Simone Weil (Q I, 105-106; 147), un’altra grande pensatrice del secolo scorso che diede vita alle sue opere maggiori, come La prima radice, nell’ultimo periodo prima della scomparsa, pensando e scrivendo, come Michela Murgia, sino all’ultimo giorno.
Nella riflessione sulla struttura oppressiva della società, la maternità riveste una posizione nevralgica perché costituisce una forma di incorporazione sociale.
Prima della nascita la nuova vita sta nell’uno, non conosce separazione, non conosce del circostante altro che la cura e il sostentamento. Ma quando viene al mondo il suo corpo fisico viene inserito in un corpo sociale che ne segnerà profondamente il destino e la qualità della vita. Un corpo sociale che avrà regole del tutto sconosciute alla vita e alla natura nella quale la vita è stata generata.
Le regole della vita comprendono la legge dell’adattamento, la concorrenza tra le specie per la sopravvivenza e la tendenziale instabilità del nucleo terrestre. Le regole del corpo sociale sono invece quelle del genere, della razza e del censo che verranno attribuiti a quella nuova vita e che costituiranno il catafratto sociale che le verrà imposto e nel quale dovrà iniziare a vivere e a muoversi: un ambiente competitivo e violento, ma di una competizione e di una violenza molto diverse da quelle della natura della specie, perché non sono funzionali alla sopravvivenza della vita ma al potere sugli altri, spesso anche contro la vita e a costo della vita stessa.
La regolamentazione sociale della maternità e della famiglia è lo strumento normativo attraverso il quale questa incorporazione avviene.
La nuova vita verrà ben presto indotta a dimenticare la sensazione di universalità in cui si è formata, a dimenticarsi di chi è stata, e imparerà invece la legge inesorabile della separazione. Il nutrimento e il sostentamento non le arriveranno genericamente dal circostante ma da un nucleo, quello familiare, ristretto e ben separato dagli altri, in competizione con gli altri e internamente organizzato in ruoli altrettanto divisi e gerarchicamente ordinati secondo quelle stesse linee di genere, età, razza e censo che determinano le divisioni e i conflitti esterni, quelli sociali (interni a una nazione) e quelli internazionali.
La famiglia e la nazione rispondono alla stessa logica perché difendono lo stesso ordine. Non a caso Jacque Derrida in uno dei suoi ultimi e più lungimiranti lavori (anche questo uscito postumo) ha utilizzato una sola parola, presa dalla lingua tedesca, per indicare unitariamente il rapporto della natura umana con il sesso, la razza e la nazione, considerati come aspetti compresenti e co-determinanti la nozione di umanità.
La parola è Geschlecht e potremmo forse renderla in italiano con generazione, dando a questo termine un significato inedito e doppio, che valorizzi l’assonanza semantica tanto con il generare quanto con la nazione.
La riflessione di Murgia sull’avversità delle civiltà contemporanee ̶ così diverse per tradizioni e culture ma così ugualmente immerse nella lotta per il potere ̶ per la maternità d’intenzione, parte dalla consapevolezza che la maternità e la famiglia sono evidentemente troppo importanti dal punto di vista strutturale per poter essere lasciate all’autodeterminazione delle persone e in particolare delle donne che pure, con i loro corpi, danno la vita.
Murgia, esattamente come le Morgane di cui amava raccontare, è stata una di quelle persone capaci di vivere la propria vita nel futuro, senza farsi limitare dai condizionamenti del presente, come se non ci fossero o non la riguardassero; ed è così che è diventata quattro volte madre d’anima. I suoi figli non hanno con lei alcun legame biologico ma hanno costruito un legame di affinità fondato sul riconoscersi, sul volersi e sul darsi protezione.
Quando Murgia ne ha parlato alla stampa, presentando la sua “famiglia queer”, molti hanno pensato a una trovata radical chic ma questo libro rende ragione del grandissimo impegno di genitrice che Murgia ha assunto diventando la madre elettiva dei suoi figli. Le difficoltà economiche e le rinunce per poterli aiutare a coltivare i loro talenti perché, come lei stessa scrive, amare non è dire cento volte ti amo ma dire, qualche volta, ci penso io. E poi la cattiveria scontata e gratuita, perché vedere una donna sui quarant’anni che si accompagna a un ragazzo di venti che “non è suo figlio”, è un boccone troppo ghiotto per lasciarselo sfuggire.
Ma oltre a tutte queste difficoltà c’è stato sempre l’amore dei suoi figli che traspare anche in questo volume, dalla sofferta e toccante nota di curatela.
La gravidanza surrogata ̶ gravidanza, non maternità, perché oggetto della surroga non è la maternità, la cui responsabilità viene al contrario assunta dai genitori di intenzione, ma solo la generazione biologica della vita ̶ può essere uno dei modi di esercizio della libertà di autodeterminazione nella riproduzione e nella costituzione dei legami parentali.
Può, certo, non necessariamente lo è. Ogni capacità del corpo, e in particolare del corpo delle donne, può essere conformata all’autodeterminazione della persona oppure può essere il frutto di una coercizione, di una violenza o di uno sfruttamento.
Così è per il rapporto sessuale, che può essere consenziente o frutto di una violenza, come può essere l’oggetto di una contrattazione paritaria o di uno sfruttamento della prostituzione indotta dalla povertà o dalla tratta.
L’interruzione della gravidanza può essere una libera scelta o il frutto di imposizioni politiche e culturali, come è stato per gli aborti selettivi che negli ultimi cinquant’anni hanno impedito a milioni di bambine di nascere. E il portare a termine una gravidanza può essere il frutto dell’autodeterminazione oppure di legislazioni antiabortiste e proibizioniste che perseguono finalità altre sul corpo delle donne, come è stato, ad esempio, negli Stati Uniti dopo la guerra civile, con una campagna a favore delle gravidanze forzate che è stata utilizzata come strumento contro l’immigrazione cattolica e che è stata poi paradossalmente riutilizzata dalla Corte suprema americana, nel 2022, per giustificare la rimozione del diritto all’interruzione volontaria della gravidanza dai diritti costituzionalmente garantiti, nella controversa sentenza Dobbs v. Jackson, in base alla dottrina dell’original intent: il messaggio originale della legge, un concetto che tende ancora a fingere come “naturale” un’origine che è stata socialmente e giuridicamente determinata.
Il rifiuto aprioristico della gravidanza surrogata, la sua criminalizzazione “senza se e senza ma” indipendentemente dall’analisi del singolo caso, indipendentemente dall’accertamento se sia stata il frutto di una scelta condivisa e garantita per tutte le persone coinvolte oppure il frutto di uno sfruttamento più o meno legalizzato della povertà, tradisce sempre la malcelata pretesa del potere politico di “difendere” la dignità delle donne contro l’autodeterminazione delle donne stesse, di imporre divieti e restrizioni sull’uso dei loro corpi e di rafforzare lo schema patriarcale, nel quale le donne che si discostano dagli stereotipi di genere della maternità egoistica e funzionalmente deputata alla famiglia nucleare e alla etero-normatività, scegliendo di non essere madri o di esserlo in un modo diverso, vengono degradate a vittime inconsapevoli, eterne minorenni sulle quali lo Stato, che è nazione e famiglia, può e deve imporre la propria vigilanza e il proprio controllo.
Il sostrato ideologico che sorregge questa pretesa viene definita da Murgia femminismo del corpo, a sottolinearne la mistica essenzialista che vi è sottesa, per cui il corpo materno viene considerato talmente “sacro” da essere sottratto anche alla libera disponibilità delle donne, quando non ne fanno un uso “degno” (chi siano poi i depositari e le depositarie del codice di questa “dignità” e in base a quale titolo ritengano di poterla imporre anche a chi non la condivide, è un’altra storia).
Il femminismo del corpo ha anche incontrato il favore del femminismo cattolico, non importa se i Vangeli siano disseminati di maternità intenzionali ben più che di maternità naturali. Maternità prodigiose il cui motore è appunto la volontà, o meglio l’incontro della volontà del Figlio dell’uomo (espressione ricorrente nei Vangeli, a sottolineare la natura, umana e divina insieme, del Cristo) con quella delle madri.
Ma che il messaggio originale del cristianesimo fosse qualcosa di molto diverso, per tensione rivoluzionaria ed egualitaria, al tempo della predicazione di Gesù e degli Apostoli e delle persecuzioni, rispetto al cristianesimo successivo, saldato con il potere politico e poi divenuto religione di Stato, è noto; e anche di questo Murgia ha scritto, mirabilmente, in God save the queer.
“Dare la vita” è un libro in cammino, in ascolto, in movimento. Lontano come ne era lontana la sua Autrice dalla fissità di ideologie rigide e da un dibattito così povero da indurre le persone a schierarsi e a odiare senza conoscere e senza capire.
La citazione d’apertura è tratta da questo libro e ne contiene la tensione verso l’unità dei legami ma anche verso l’unità del pensiero con l’ascolto dell’altrǝ, del suo corpo, della sua voce.
Il significato del queer è per Murgia prima di tutto politico e consiste in una progettualità anti-normativa, che non riconosce e tende a neutralizzare schemi relazionali basati sul sistema binario di genere. Mentre non rientrano nel queer teorie e prassi di adattamento del sistema binario per renderlo, in una prospettiva di genere, maggiormente equo.
Il gender mainstreaming europeo, ad esempio, che tende a realizzare mediante azioni positive un allineamento delle pari opportunità sociali, professionali ed economiche per le donne, in condizioni di equità con gli uomini. Ma anche parte dei movimenti lgbt che, non mettendo in discussione il binarismo di genere, chiedono maggiori tutele antidiscriminatorie ed egualitarismo sociale per le persone gay, lesbiche, bisessuali e transgender.
La q di queer compare solo quando il sistema binario non viene riconosciuto come una base sociale ed epistemologica valida, nemmeno al fine di modificarla o estenderla. Il non riconoscersi in definizioni di genere precostituite, muovendosi liquidamente tra ciò è considerato maschile e ciò che è considerato femminile, alla ricerca di una individualità propria e continuamente in mutamento, può essere una manifestazione del queer. Ma anche la costituzione di legami parentali slegati dai codici di riconoscimento sociale e normativo e dalla dittatura della biologia.
Un continuo attraversamento della soglia che riesce persino, tramite il sessuale, a spostare l’asse dal politico al teologico, perché ci avvicina all’essenza unitaria di divino e umano che nei messaggi teologici più avanzati ̶ quello cristiano originale senza dubbio ma anche quello dei Vedanta, che contengono la dottrina fondativa del tantrismo e l’importante lignaggio di tradizioni teologiche dell’universo induista ̶ restituiscono il non dualismo di divino e umano, di materia e spirito e quindi anche di energia maschile e di energia femminile, come parti essenziali di quel frammento dell’uno che si trova custodito nella parte più profonda, divina, di ognunǝ di noi.
Per questo nel lavoro di Murgia, dai romanzi, in particolare Accabadora, a questo ultimo lavoro postumo, si evidenzia una linea di ricerca dell’unità immortale e indivisibile dello spirito, che però è accessibile solo da qui e ora; dalla frammentazione dei corpi mortali il cui continuo movimento, il continuo nascere e morire, ha senso proprio in quanto ricerca di ritrovare sé stessǝ, ricordarci chi siamo e chi siamo statǝ, e tornare ad assomigliarci.
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“L’importante è fare le scarpe al capufficio, al collega, a chi ti lavora accanto. Il metodo del successo consiste in larga misura nel sollevamento della polvere”.
È solo una delle molte frasi acuminate che Luciano Bianciardi, nel suo romanzo più noto (La vita agra, del 1962), dedica a descrivere il male del capitalismo rampante.