In quest’ultimo periodo si è giustamente parlato di una “questione morale” della magistratura. Al di là delle responsabilità penali e disciplinari – da accertare nelle sedi a ciò deputate – i fatti emersi dall’indagine di Perugia devono essere presi sul serio in tutta la loro portata per poter essere un’occasione di riflessione sullo stato di salute del CSM.
La degenerazione correntizia, che certamente ha portato all’affermazione di gruppi clientelari e territoriali di potere che gestiscono interessi, esiste e deve essere denunciata. Si tratta di gruppi trasversali alle correnti e che vedono il coinvolgimento di parte della politica: ma ciò avviene non nei luoghi istituzionali, ma in circoli opachi e non trasparenti.
Tutto questo non può essere tollerato.
Dalla risposta che la magistratura saprà dare e dalle soluzioni che sarà in grado di elaborare dipenderà la tipologia di magistrato che si affermerà negli anni a venire.
In questo contesto il sorteggio dei membri del CSM, lungi dall’essere la soluzione, rischia di acuire il problema. Uno dei modi per arginare le derive clientelari e corporative è infatti quello di palesare e prendere sul serio l’esistenza di un pluralismo culturale all’interno della magistratura: non si può pensare – e non ci si deve nemmeno augurare – che i magistrati non siano in grado di confrontarsi sulle diverse opzioni ideali e valoriali da cui sono animati. Prendere atto dell’esistenza di queste differenze e rivendicarne pubblicamente l’importanza per la ricchezza della magistratura è ciò che ne evita l’appiattimento e la burocratizzazione. Infatti, il governo autonomo della magistratura non chiama il Consiglio superiore a scelte puramente tecniche o ad interpretazioni insensibili ad opzioni culturali di fondo: penso alla potestà del CSM di dettare regole sul funzionamento degli uffici giudiziari.
Dunque, solo una reale possibilità di scelta dei membri del CSM consente di preservare la sua capacità di rappresentatività. Rappresentatività che ha permesso il compimento di alcune tappe fondamentali per l’evoluzione del diritto, che sono state possibili proprio grazie al confronto che ha reso il giudice consapevole dell’importanza, per esempio, di interpretare la legge conformemente alla Costituzione. Il sorteggio, al contrario, negando questo dato di fatto o facendo finta che sia irrilevante per l’esercizio della giurisdizione, finisce per veicolare l’immagine di un’istituzione composta da persone che non rispondono a nessuno (se non alla sorte) e – temo – condurrà ad una visione burocratizzata del lavoro del magistrato.
Se la crisi attuale deriva allora, più che da una forza, da una debolezza delle correnti, l’antidoto non può che essere quello di recuperare la loro funzione originaria di luogo di discussione trasparente e di pubblico confronto, il cui buono stato di salute è importante non solo per l’attività giurisdizionale ma anche per la vita civile del Paese.
Ne è stato un esempio l’apporto che Magistratura democratica ha dato in occasione della battaglia per il NO al referendum costituzionale nel 2016. Consapevole del fatto che imparzialità significa non parteggiare per uno degli attori processuali, ma non indifferenza rispetto alle questioni di fondo che animano il dibattito culturale e politico, MD ha offerto il proprio contributo al dibattito, impegnandosi non solo per la difesa ma anche per la realizzazione dei diritti, delle libertà e delle garanzie della Costituzione.
Questo contributo sarebbe stato impossibile senza l’elaborazione ideale e culturale che negli anni MD ha portato avanti, nella consapevolezza che l’indifferenza verso dinamiche partitiche e politiche in senso stretto deve essere accompagnata, come diceva Marco Ramat, all’attenzione e all’impegno nella “grande politica della Costituzione”.
giudice del Tribunale di Torino
componente dell’Esecutivo di Magistratura democratica