da “Il Manifesto” del 28 giugno 2012
di Rita Sanlorenzo
l’obbiettivo dell’approvazione della riforma del mercato del lavoro:
nella quasi totale assenza di opposizione sociale, centro destra e
centro sinistra uniti esprimono la loro fiducia sul testo legislativo,
già «autorevolmente» definito una boiata e a cui sin d’ora si dice dovrà
«tempestivamente» mettersi mano per poterlo migliorare. Chissà se
superato il determinante traguardo dell’approvazione europea, si
attiverà la volontà di rimediare ai tanti difetti e alle approssimazioni
che il testo contiene: ma d’altra parte, vista l’ispirazione
fondamentale della legge, c’è solo da temere da una ripresa
dell’attività riformatrice, sorda sin qui ai tentativi di svelare
l’assoluta incoerenza di alcune «parole d’ordine» di cui si fanno forti i
suoi sostenitori.
Affermare, come è stato fatto, che l’intervento
sull’art. 18 dello Statuto è giustificato – anche moralmente – dalla
necessità di contrastare l’odioso dualismo del mercato del lavoro tra
garantiti e non garantiti, ovvero tra vecchi e giovani, innanzitutto è
un pensiero figlio della strategia con cui si sta combattendo la «Lotta
di classe» di cui scrive Luciano Gallino, per cui vince chi riesce a
spaccare il fronte della controparte. In realtà il dualismo del nostro
mercato del lavoro è stato prima tollerato, e poi addirittura
incentivato, mettendo a disposizione dei datori di lavoro un fenomenale
armamentario contrattuale tra cui scegliere di volta in volta, tra le
tante, la formula di precariato più conveniente e meno rischiosa (perché
meno garantita).
Al punto in cui siamo, sembra ovvio nel dibattito
pubblico ricollegare alla titolarità di diritti una condizione di
privilegio, che rappresenta un costo per tutti ed è quindi necessario
abbattere per uscire dalla crisi: se ciò porterà del bene ai meno
garantiti, questo, per vero, non lo può dire con sicurezza nessuno.
Intanto, di lì si riparte, dall’abrogazione delle difese più efficaci e
significative (anche su un piano simbolico) della dignità del
lavoratore, quelle che di fatto consentono la possibilità di
partecipazione «all’organizzazione politica, economica e sociale del
Paese», come prevede l’art. 3 della nostra Costituzione.
L’art. 18
dello Statuto, norma di esemplare rigore e nitore, viene
fondamentalmente stravolta non attraverso una diversa previsione delle
causali giustificatrici del licenziamento, che restano quelle: lo slogan
«licenziamenti più facili» è un altro pezzo della stessa
mistificazione, perché licenziare resterà esattamente difficile (o
piuttosto facile, visto il numero di posti di lavoro persi in questi
anni) come prima.
La riforma interviene invece sul piano delle
sanzioni del licenziamento intimato in violazione di legge, lasciando
solo uno spazio residuale, e di difficile identificabilità da parte
dell’interprete, per la reintegra, misura per eccellenza capace di
sanare lo strappo alla regola, riportando la situazione allo status quo.
Licenziare non sarà più facile, sarà semplicemente meno oneroso violare
la legge: non è differenza da poco, soprattutto se consideriamo che la
crisi in cui ci dibattiamo per molti versi è anche crisi di valori, e di
riconoscimento della generalità dell’obbligo al rispetto delle regole.
Quale segnale può derivare dalla modifica legislativa?
Spetterà poi
al giudice districarsi fra la liquida consistenza delle ipotesi
introdotte dalla riforma (si pensi alla sfumatura che intercorre tra
l’illegittimità del licenziamento per mancanza di giustificato motivo
oggettivo, e quella per la «manifesta insussistenza» dello stesso:
questione di apparenza, o poco più, tra cui però corre la differenza tra
il diritto a riprendere il proprio posto di lavoro, e quello a
percepire solo un risarcimento economico). Questione problematica sul
piano tecnico, certo, ma questo è il meno: perché come ha scritto Silvia
Nicolai su il manifesto del 26 aprile, il giudice del lavoro non potrà
non patire, come d’altronde da tempo patisce, di quel disorientamento
che deriva dal «mutamento conflittuale e sotterraneo dei valori della
convivenza», e sostanzialmente dalla progressiva perdita di un
riferimento comune, quello che ci deriva dalla nostra Costituzione, che
ha ben chiara la priorità della tutela delle posizioni deboli nel
lavoro.
Alla fatale, grave incertezza degli orientamenti
decisionali, si sommerà ben presto la disillusione a proposito
dell’accelerazione delle procedure: obbiettivo più che condivisibile, ma
perseguito attraverso la fissazione di termini processuali solo
facoltativi per il giudice, e, ciò che è più grave, con l’introduzione
di una duplicazione obbligatoria del processo di primo grado, articolato
in una prima fase d’urgenza e poi di una successiva opposizione. Un
raddoppio secco del carico processuale, che, a parità di risorse,
segnerà l’affossamento di ogni ambizione.
Torna in definitiva il
postulato per cui la strada della limitazione dei diritti deve passare
attraverso l’indebolimento e la delegittimazione del ruolo del giudice.
Che si vuole meno «fazioso», si dice, ma che in realtà viene sospinto
verso una progressiva perdita di consapevolezza, secondo un modello di
fedele e timoroso esecutore della contingente volontà della politica. Ci
resta la stella polare della Costituzione, rafforzata dai principi di
derivazione europea, primo fra tutti quello del divieto di
discriminazione (a cui si è appellato anche il giudice di Roma per le
assunzioni di Pomigliano): la sfida è riuscire a tenere la rotta.
*L’autrice è giudice del lavoro
presso la Corte d’appello di Torino