Editoriale
Aporie di un ministro
Fa comodo al mainstream dipingere quadri in cui un manipolo di toghe rosse si oppone a qualsiasi riforma del sistema giudiziario, rifiutando di riconoscere il verdetto delle urne, nella speranza di far sorgere per via giudiziaria il sol dell’avvenire. Da qualche tempo, poi, circola voce che Magistratura democratica abbia individuato nel ministro della Giustizia un suo “nemico”.
Niente di più lontano dal vero. Magistratura democratica non ha nemici e, tantomeno, avverte come nemico il ministro della Giustizia ora in carica. Ma questo non ci impedisce di segnare i profondi punti di dissenso rispetto a diverse cose che, sinora, il ministro della Giustizia ha detto, fatto o non fatto.
Conoscevamo un intellettuale e un professionista di ispirazione liberale che descriveva la tendenza a «perseverare nell’inasprimento delle pene e nella creazione di nuovi reati, malgrado la conclamata inutilità di questa strategia intimidatrice» come una «callida intenzione di rassicurare l’opinione pubblica». Il ministro, però, la pensa diversamente dall’intellettuale. C’è un rave party che genera agitazione sui giornali? Ecco pronto un decreto Rave che – seppur scritto in fretta e furia e (ci permetta, signor ministro), in modo tecnicamente non proprio ineccepibile – rassicura l’opinione pubblica: pene elevate (nel minimo e nel massimo), possibilità di adottare misure cautelari e possibilità di intercettare.
Si verifica l’ennesima tragedia legata all’immigrazione, con un naufragio a poche centinaia di metri dalle nostre coste? Ecco che il ministro ritiene necessario sottoscrivere l’ennesima legge che inasprisce ulteriormente le (già draconiane) pene da infliggere agli scafisti.
Conoscevamo un intellettuale e un professionista di ispirazione liberale che censurava l’abuso delle intercettazioni telefoniche, lo scempio della loro pubblicazione sui giornali. Abbiamo però letto di un ministro che intende risolvere il problema secondo due direttrici: limitare l’uso delle intercettazioni telefoniche perché costano troppo, sono poco utili e perché i delinquenti non parlano più al telefono (con buona pace dell’efficacia delle indagini volte ad assicurare l’esercizio dell’azione penale obbligatoria); limitare l’uso delle intercettazioni utilizzabili in sede giudiziaria, allargando il perimetro delle intercettazioni preventive (meglio lasciarle nelle mani – poche e dipendenti dal governo – dei servizi di sicurezza, con buona pace delle garanzie che il controllo giudiziario è in grado di assicurare).
Conoscevamo un intellettuale e un professionista rigoroso, attento all’uso efficace delle risorse. Abbiamo però letto di un ministro della Giustizia che immagina di mettere mano all’ennesima riforma della geografia giudiziaria, riproponendo – in nome della giustizia di prossimità e in controtendenza alle politiche giudiziarie dell’ultimo ventennio – la riapertura di tribunali di piccole dimensioni. Anche a noi piace la giustizia di prossimità: ma – come il ministro della Giustizia ben sa – la complessità del reale e della contemporaneità e le regole processuali oggi vigenti rendono impossibile garantire una risposta giudiziaria efficiente e distribuita in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale con uffici giudiziari di dimensioni troppo piccole (tanto più se si ipotizza di affidare il potere cautelare a giudici in composizione collegiale).
Conoscevamo un intellettuale e un professionista di ispirazione liberale che evocava ad ogni tratto di penna la separazione dei poteri e la necessità di contenere al minimo il ricorso alla custodia cautelare. Abbiamo perciò assistito con sorpresa – ma soprattutto con vera e propria preoccupazione – alla scelta del ministro della Giustizia di attivare un’iniziativa disciplinare nei confronti di tre magistrati, censurando il merito di un provvedimento giudiziario; abbiamo letto con sorpresa l’idea del ministro della Giustizia di censurare come possibile illecito disciplinare la decisione di sostituire la custodia in carcere applicata ad una persona con altra misura custodiale (arresti domiciliari con braccialetto elettronico); siamo rimasti negativamente impressionati dal fatto che il ministro della Giustizia – addentrandosi in censure sul merito di un provvedimento giudiziario – abbia trascurato di ricordare che «l’attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove non danno luogo a responsabilità disciplinare» (a meno che non si versi in caso di ignoranza, travisamento dei fatti e negligenza inescusabile); abbiamo assistito con altrettanto sgomento e preoccupazione al ministro della Giustizia indossare i panni di un (non previsto) quarto grado di giudizio e diffondersi sul merito del provvedimento giudiziario, esibendo al potere politico le “colpe” del giudiziario. E, con altrettanta sorpresa, ci siamo poi trovati ad assistere allo stesso ministro della Giustizia dire – come se pochi giorni prima nulla fosse successo – che, per lui, l’indipendenza del giudiziario è, addirittura, «sacra».
Conoscevamo un intellettuale e un professionista di ispirazione liberale che censurava la grave situazione in cui versa il nostro sistema penitenziario. Non abbiamo però letto sinora di significative iniziative per migliorare quel sistema penitenziario; né – ci sembra e auspichiamo di sbagliarci – vediamo un autentico investimento (culturale, politico e di risorse) per consentire alla riforma penale, che offre un catalogo di pene sostitutive potenzialmente capace di far convivere il momento punitivo con quello del reinserimento sociale, di funzionare per davvero.
Conoscevamo un intellettuale e un professionista di ispirazione liberale che – in nome di tali principi – auspicava (e continua ad auspicare) la separazione delle carriere. Su questo versante, il ministro della Giustizia non ci ha sorpreso. Ma non ci ha comunque convinto. E non ci stancheremo di spiegare perché: la separazione delle carriere rischia di determinare una mutazione culturale nel corpo dei pubblici ministeri, quando invece, proprio questi dovrebbero essere il primo luogo di garanzia per l’indagato; investiremmo più su questo versante, anziché su un’ulteriore svolta accusatoria degli apparati inquirenti; la separazione delle carriere – in uno con la gerarchizzazione degli uffici di procura – determina una concentrazione di potere e – come il ministro ben sa – ogni potere eccessivamente concentrato è, di per sé, pericoloso per la democrazia; come molte esperienze storiche insegnano, poi, la separazione delle carriere rischia di attrarre il pubblico ministero sotto il controllo del potere politico.
In conclusione: non è nostra intenzione coltivare sentimenti di inimicizia verso chicchessia, tantomeno verso chi – come il ministro della Giustizia – è investito di alte responsabilità di governo dell’amministrazione della giustizia.
Ma avvertiamo in modo profondo la necessità di partecipare alla riflessione comune sul mondo della giustizia e del diritto. La avvertiamo come nostra responsabilità, quali professionisti intellettuali del diritto, operatori del sistema giudiziario, cittadini. Perciò continueremo a ragionare a voce alta, nella speranza che il confronto plurale di punti di vista – anche significativamente divergenti – riesca ad avvicinare il diritto al mandato che la Costituzione ha affidato a tutti i cittadini: promuovere il pieno sviluppo della persona umana, assicurare diritti di libertà e sociali; rimuovere gli ostacoli che – anche di fatto – impediscono alle persone di essere autenticamente libere ed eguali.
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