Editoriale
25 Aprile, Costituzione, giurisdizione
Il Tribunale speciale per la difesa dello Stato fu istituito con legge 25 novembre 1926 n. 2008; venne soppresso con decreto legge 29 luglio 1943 n. 668 dopo avere comminato ventisettemilasettecentocinquantadue anni, cinque mesi e diciannove giorni di reclusione e quarantadue pene di morte; e avere condannato dodicimila antifascisti al confino, sottoponendone oltre centosessantamila a vigilanza speciale; la Repubblica sociale italiana lo ricostituì il 3 dicembre 1943; cessò di operare con la Liberazione.
La Costituzione, all’articolo 102, secondo comma dispone: “non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali”.
“Mentre sull’intero paese si stendeva e si appesantiva greve ed ammorbante la coltre del più servile e osannante conformismo, dall’aula del Tribunale speciale, l’Aula IV del palazzo di giustizia che specchia nel Tevere le sue presuntuose massicce strutture, ogni giorno si levava dinanzi e contro i giudici gallonati del Tribunale speciale fascista, tutti esterrefatti da quella incoercibile volontà di lotta, la parola vibrante, ammonitrice, ribelle, dell’antifascismo”.
Questo scriveva nel 1961 Umberto Terracini, già presidente dell’Assemblea Costituente, nella prefazione al volume “Aula IV. Tutti i processi del Tribunale speciale fascista”. Un libro allora voluto dall’Anppia (l’Associazione nazionale perseguitati politici italiani antifascisti) che con il linguaggio secco e micidiale delle imputazioni e di stralci di verbali, racconta le migliaia di storie di condannati che quell’organo giurisdizionale speciale produsse: processi rapidi, un’efficienza smaltitoria di fascicoli, simulacri di difesa favoriti da pochi apatici e ricorrenti difensori d’ufficio (perché, scrive Terracini, “il maggior numero degli avvocati di Roma rifuggivano dall’incarico che reputavano disdicevole alla loro dignità professionale e al loro decoro, indipendentemente dalle loro opinioni politiche”).
Tra quelle migliaia di storie una. Sentenza n. 65 del 24 marzo 1941: Luigi Turano, guardia carceraria di Ravanusa (Ag), di anni cinquantacinque, viene condannato a venti anni di reclusione, per avere scritto, tra l’altro: “il vostro è l’impero della fame e delle corna… l’assassino di Matteotti ha venduto l’Italia a Hitler”.
Uno scritto - “disfattista” secondo la sentenza - che in maniera icastica lega le origini criminali dell’esperienza totalitaria (con il delitto Matteotti) alla sua fine catastrofica (con le guerre di aggressione fascinazista: così, con una significativa inversione rispetto al termine poi comunemente usato, le chiama Terracini nella sua prefazione).
Né bisogna dimenticare che quel “servile e osannante conformismo” fu anche quello di una parte della magistratura e di buona parte delle “alte magistrature” immortalate nella cronaca dell’apertura dell’anno giudiziario del 1940 riportata da una rivista giuridica, gli “Annali di diritto e procedura penale”: magistrati e giuristi ben disposti al conformismo: “Nel vasto salone […] si erano schierati in un quadrato aperto su di un lato duecentocinquanta alti magistrati, tutti in uniforme del PNF […] Appena apertasi la porta che immette nella sala del mappamondo, la figura del Duce – che era seguito dal ministro Grandi – vi si è inquadrata e la devozione e l’entusiasmo hanno avuto il sopravvento sul fermo costume d’imperturbabilità dei magistrati, i quali hanno prorotto in una invocazione altissima […] Risuonò ancora, nel clamore altissimo, il Saluto al Duce ordinato dal Ministro della Giustizia. La manifestazione continuò con intensità viva, appasionatamente vibrante di fierezza e di riconoscenza”.
Due, complementari, esigenze ha la democrazia costituzionale: che il quadro normativo che regola lo svolgimento della funzione giusrisdizionale non diventi lesione del ruolo costituzionale della giurisdizione; che, nell’intera loro attività, i magistrati riescano a “essere la Costituzione” rifiutando il conformismo, non nelle sue ultime e drammatiche esternazioni ma sin dalle sue prime manifestazioni.
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